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La Stampa Rassegna Stampa
03.04.2005 Quel biglietto fra le mura del Kotel (muro del pianto)
il commento di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 03 aprile 2005
Pagina: 10
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Quel biglietto nel Muro del Pianto»
Il Papa a Gerusalemme, nel marzo del 2000, era già ferito e malato, e passo passo si avviò verso il Muro del Pianto sotto gli occhi stupefatti dei cronisti come un bianco monolite fatto di carisma e di determinazione, diretto al suo obiettivo micidiale: chiudere l'antisemitismo plurimillenario della Chiesa. Andò diritto e lento col suo biglietto in mano verso il Muro Occidentale sotto gli occhi stupefatti e increduli della gente ebrea a inserire un foglietto di carta bianca piegato in quella specie di posta diretta con Padreterno che sono le fenditure del Muro Orientale delle rovine del tempio di Erode prima che i romani lo distruggessero nel 70 dopo Cristo creando la diaspora ebraica; e fece quello che fa, in realtà, ogni ebreo che ci giunge. Scelse la sua fessura fra le pietre squadrate un migliaio di anni fa, e inviò il suo messaggio, accompagnandolo con un segno di croce per benedizione. Il contenuto era altrettanto rivoluzionario quanto il gesto: chiedeva perdono del male che la Chiesa aveva fatto a ebrei e mussulmani sia con le persecuzioni religiose sia con le imprese di conquista al tempo delle Crociate.
Il viaggio era stato accompagnato da una valanga di punti interrogativi e di polemiche: in quell'anno il processo di pace già cominciava a declinare, nell'aria si respirava aria aggressività e conflitto, la paura che gli israeliani da una parte e i palestinesi dall'altra potessero tirare dalla loro parte la grande coperta papale si univa a forti preoccupazioni di sicurezza. Ci fu alla vigilia dell'arrivo di Giovanni Paolo anche una infelice disputa teologica messa in piedi dalla parte cristiana dei palestinesi che suggerirono ad Arafat una rivendicazione di un Cristo non veramente ebreo, ma in realtà «primo palestinese». Il papa se ne guardò bene, percorrendo anzi le orme di Gesù ebreo con identificazione, visitando le tracce visibili della sua carne o celebrandone la corporea tridimensionalità nell'orto del Getsemani.
Il viaggio, anche se non trascurò affatto la questione palestinese con la visita a Betlemme e al campo profugo di Deheishe mano nella mano con Arafat, fu soprattutto, nell'ambito della politica internazionale del papa, il completamento del suo messaggio sul popolo ebraico: fine delle persecuzioni, fine dell'antisemitismo, fine della considerazione dello Stato degli ebrei come di uno stato anomalo, teologicamente stupefacente, politicamente imbarazzante. Fu la visita logicamente susseguente a quella alla diaspora nella sinagoga di Rom e di suggello del riconoscimento dello Stato d'Israele. Un gesto rivoluzionario dal punto di vista teologico, perché poneva fine all'idea che l'ebraismo fosse superato e di fatto morto a fronte della novità storica e dottrinale del cristianesimo.
Dunque i tre giorni a Gerusalemme furono innanzitutto una pietra miliare teologica che ribadì il pensiero di Giovanni Paolo: egli, nell'espressione «fratelli maggiori» aveva spiegato al mondo cristiano gli ebrei come oggetto di suprema vicinanza, di rispetto culturale, teologico, direi dinastico, e anche di amore familiare. Insomma, tutto il contrario del tradizionale disprezzo teologico che aveva portato alle persecuzioni di cui il Papa portava i segni nella sua memoria polacca.
Questo non vuol dire che in nome delle altre scelte di fondo della sua politica estera in quegli anni come la difesa dei poveri, la simpatia per il Terzo Mondo e per le rivendicazioni di indipendenza, il tentativo di aiutare i suoi cristiani in un mondo mussulmano tendenzialmente ostile, il papa non si spingesse fino a Deheishe uno dei campi profughi più militanti, con 16 morti nella prima Intifada, per stringere la mano ai palestinesi. Si mostrò solidale con la loro sete di libertà e di benessere, ma evitò tutti i temi politici come Gerusalemme o i rifugiati. Però, al contempo ignorò la vice del Muezzin che cercò di coprire la sua nella piazza di Betlemme e scambiò caldi sorrisi e strette di mano con Arafat. Né il papa trascurò un altro elemento fondamentale della sua vasta politica internazionale che lo faceva di continuo salire e scendere dagli aerei, quando al Santo Sepolcro incontrò di fronte alla lastra che aveva coperto il corpo di Cristo crocifisso i rappresentanti delle altre confessioni cristiane, in genere intenti a strapparsi brani delle pietre del Golgota e della sua povera Chiesa spezzettata. Adesso stavano tutti là intorno, intorno al dolore del Papa già sofferente che baciava sulla lastra sepolcrale la soffenza del suo modello, e che sempre di più lo sarebbe divenuto: il Cristo della Passione.
Ma più di ogni altra visita fu quella a Yad Va Shem, il Museo dell'Olocausto a lasciare senza fiato chi lo accompagnò, e la sottoscritta fra quelli, e il mondo intero. Il Papa era molto emozionato quando entrò nella sala della Rimembranza, si fermò a guardare per terra il nome del campo di concentramento di Lwow Deanowska, e poi quelli di Auschwitz, Sobibor, Treblinka... tragici luoghi di casa sua.
Il luogo è il segno, la santificazione stessa di Israele, poco distante dal centro della memoria sono sepolti i grandi della storia attuale d'Israele, Rabin Begin...il Papa ha guardato dalla vetta della collina la Valle di ein Kerem dove nacque Giovanni battista. All'inizio del saluto il Papa lesse il salmo che dice: «Sono diventato un rifiuto, la mente il cuore e l'anima sentono un estremo bisogno di silenzio». Nella semioscurità della sala si assiepavano zitti e attoniti gli ospiti, e fra loro tanti vecchi amici del giovane Woytila, polacchi che erano stati a scuola con lui. E dall'altra parte, l'accompagnava l'allora Primo ministro, il giovane Ehud Barak, che assieme a Giovanni Paolo accese la fiaccola della memoria. Mai, chi c'era, potrà dimenticare il papa circondato dai suoi vecchi amici polacchi ebrei alla fine della cerimonia, le fotografie, i nomi sussurrati fra di loro, nomi di gente che non c'è più: «Ti ricordi..». Sorrisi e lacrime di compagni della tragica avventura europea.
E, soprattutto, l'incredibile profluvio non di richiesta di scuse o di risposte a tali richieste, ma di pura affettuosità verbale e anche gestuale fra il Papa e Barak. Il giovane primo ministro fra lo stupore di tutti benedisse il vecchio pontefice: «Tu sia benedetto in Israele» gli disse. Come un vero fratello maggiore. E il Papa sorrise umilmente, benedetto dal suo vecchio giovane fratello ritrovato, il popolo ebraico in Israele.

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