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Il Manifesto Rassegna Stampa
31.03.2005 I terroristi palestinesi proteggono i deboli e gli oppressi, per cui non vanno disarmati
lo sostiene il quotidiano comunista

Testata: Il Manifesto
Data: 31 marzo 2005
Pagina: 8
Autore: Michele Giorgio - un giornalista
Titolo: «Beirut, se i palestinesi diventano il capro espiatorio - In 80mila nel Negev per celebrare la giornata della terra»
IL MANIFESTO di giovedì 31 marzo 2005 pubblica un articolo di Michele Giorgio sui palestinesi che vivono nei campi profughi in Libano.
La tesi di Giorgio è che i gruppi terroristici basati nei campi (tra cui le Brigate dei Martiri di Al Aqsa, che proprio dal Libano hanno organizzato numerose stragi di civili israeliani) garantiscono la sicurezza dei civili palestinesi e pertanto non devono essere disarmati.
Il giornalista avanza anche il sospetto che l'opposizione libanese constata l'"impossibilità" di disarmare Hezbollah, abbia già deciso di ripiegare su di un obiettivo più "facile", i "non libanesi",per l' appunto i gruppi palestinesi.

I palestinesi hanno ovviamente il diritto di chiedere che la loro sicurezza sia garantita, nel difficile momento di transizione vissuta dal Libano.
L'opposizione libanese, e la comunità internazionale dovrebbero, ci sembra, farsene carico.
E' anche vero che un disarmo dei palestinesi che lasciasse invece armato Hezbollah non risolverebbe che una parte del problema.

Non è vero, invece, che i gruppi terroristici palestinesi proteggano i civili.
Principalmente, minacciano i civili israeliani. E, ovviamente, la sovranità libanese.
Ma la loro presenza nei campi profughi costituisce un grave rischio anche per i civili che vi vivono, che possono rimanere coinvolti in operazioni antiterroristiche (pur non mirate ad essi) o essere considerati bersagli nella logica indiscriminata delle guerra civili.

Ecco l'articolo:

A Razi Zatut è appoggiato al muro. Aspira con forza la sigaretta, poi la osserva mentre la stringe tra il pollice e l'indice. In spalla porta il mitra e nelle tasche dei pantaloni tiene le munizioni. «Un proiettile però è sempre in canna», dice facendo un cenno con il capo. Razi è una guardia della sede locale di Al-Fatah, in un povero edificio del campo profughi palestinese di Ein Al-Hilwe, nel sud del Libano. È un militante di questa organizzazione da quando aveva 16 anni e per gran parte della sua esistenza non ha visto altro che le strade e le case del campo. Parla dello scomparso presidente Yasser Arafat come di suo nonno. «Il rais è stato avvelenato dagli israeliani», afferma. In questi giorni però il suo pensiero non è rivolto alla terra che non ha mai conosciuto e da dove nel 1948 i suoi genitori scapparono sotto l'avanzata dell'esercito israeliano. «Quelli della muadara (opposizione) dicono che dobbiamo consegnare le nostre armi e che la nostra sicurezza verrà garantita dai soldati dell'esercito nazionale. Kalam fadi (discorsi inutili), non ci fidiamo, non cederemo i nostri fucili, servono a difendere le nostre famiglie da chi ha già massacrato tanti palestinesi e potrebbe farlo ancora», spiega accendendo un'altra sigaretta. Razi nel settembre del 1982 aveva solo sette anni quando i miliziani falangisti, lasciati indisturbati dalle truppe israeliane che avevano invaso il Libano, entrarono nei campi profughi di Sabra e Shatila uccidendo almeno tremila abitanti a colpi di ascia, di coltello, di arma da fuoco. «È passato tanto tempo - racconta - ma ricordo ancora il panico dipinto sul volto dei miei genitori. Verranno anche qui a Ein El-Hilwe e ci ammazzeranno tutti, ripeteva mia madre». La crisi politica libanese, aggravatasi dopo l'assassinio dell'ex premier Rafik Hariri, ha soltanto sfiorato i campi dove vivono buona parte degli oltre 400 mila profughi. I palestinesi si sono limitati a seguire lo sviluppo degli eventi, prendendo atto di non esseri stati, forse per la prima volta, indicati come «i responsabili», l'origine di tutti i mali, dai partiti e delle organizzazioni di destra. Bersagli di vendette e rappresaglie sono stati invece i lavoratori siriani, presi di mira a Beirut, Sidone e altre località nei giorni successivi all'attentato del 14 febbraio. «Ho tirato un sospiro di sollievo: questa volta non la faranno pagare a noi mi sono detto dopo l'uccisione di Hariri», riferisce Ali Samudi, un ex insegnante originario di Birueh, un villaggio della Galilea che non esiste più. Da qualche giorno tuttavia comincia a soffiare un vento gelido che sta riportando tra le vie e le case dei campi profughi antiche paure. Dopo tre attentati in una settimana nei quartieri cristiani di Beirut, dove più forti sono i sentimenti anti-siriani, qualcuno comincia a tirar fuori vecchie e pericolose teorie: i palestinesi sono amici di Damasco e quindi fanno il gioco dei siriani. «Esiste un esercito nazionale e non vedo perché i campi profughi debbano vivere come oasi fuori da ogni legge. I palestinesi dovranno consegnare le armi, non c'è altra soluzione», ha ripetuto in più occasioni il deputato Dory Chamun, uno dei più accaniti sostenitori della «necessità» di prendere il controllo delle aree dove vivono i palestinesi. Su questo punto sembrano aver raggiunto un consenso - anche se lo esprimono ancora a bassa voce - le varie forze politiche che compongono l'opposizione libanese. È un ripiego politico di fronte alla «impossibilità» di applicare pienamente la risoluzione 1559 dell'Onu che oltre al ritiro delle forze straniere (i siriani) dal Libano prevede anche il disarmo delle milizie. Stati uniti e Francia, autori della risoluzione, in realtà si riferivano ad Hezbollah, ma le opposizioni libanesi sanno bene che il potente movimento di Hassan Nasrallah non consegnerà mai le armi. Puntare l'indice contro i palestinesi è l'alternativa più naturale. «Si sta creando un clima che non mi piace, ricorda quello di tanti anni fa in cui persero la vita di tanti nostri fratelli», avverte Ali Samudi. La Bbc ha riferito che qualche giorno fa che un miliziano ha mostrato a un gruppo di occidentali la sua collezione di armi, affermando che «non le userà mai contro i libanesi perché non vogliamo tornare alla guerra civile». Ma se i palestinesi diventeranno una minaccia, ha aggiunto subito dopo, «quello sarà un caso diverso». Nei bar all'ultima moda di Acharafieh e del centro di Beirut ricostruito da Hariri, dei palestinesi in realtà si continua a parlare come «nemici potenziali» nel cuore del Libano. «Se i siriani decideranno di mettere fine alla nostra rivoluzione, saranno i palestinesi a fare il loro sporco gioco», afferma il ventenne Eli Hadad.

Poco conta che i profughi palestinesi abbiamo davvero poca simpatia per Damasco che durante la guerra civile ha più volte aperto il fuoco contro di loro e di fatto favorito il massacro di Tall El-Zaatar (1976) compiuto dai falangisti. Altri giovani libanesi dicono di temere che saranno i palestinesi a prendere il posto dei manovali siriani che hanno lasciato il Libano nelle ultime settimane, nonostante la legge vieti ai profughi di svolgere decine di lavori. Gli sciiti da parte loro sostengono la causa palestinese ma ad Ein El-Hilweh, Burj El-Barajneh, Mieh-Mieh e Rashidiyeh non dimenticano l'assedio subito venti anni fa dalla milizia di Amal (guidata dall'attuale presidente del parlamento Nabih Berri) in quella che sarebbe passata alla insanguinata storia del Libano come la «guerra dei campi». «Non ci fidiamo di nessuno - dice Razi Zatut stringendo il mitra - il giorno in cui Abu Mazen rinuncerà al diritto al ritorno per i profughi, i libanesi verranno qui nei nostri campi a chiederci il conto e allora avremo bisogno delle nostre armi per difenderci».
Il quotidiano comunista pubblica anche un trafiletto su una manifestazione di arabi israeliani. Vi si legge di "politiche discriminatorie portate avanti dai governi israeliani", mentre nella realtà la politica verso gli arabo-israeliani è improntata in Israele all'integrazione e alla difesa delliuguaglianza di diritti.

Il trafiletto riporta anche la notizia dell'arresto di tre palestinesi intenti a contrabbandare armi.
Un episodio che segnala come il terrorismo non abbia cessato le sue attività, del quale non abbiamo trovato cenno sugli altri quotidiani.
Spiace dire che l' eccezione è rappresentata dal quotidiano che certamante ha mano obiezioni morali ai traffici di contrabbandieri di armi per la "resistenza" palestinese.


Ecco il testo:

Circa 80 mila palestinesi con cittadinanza israeliana si sono radunati ieri nel villaggio beduino di Abu Tlul, nel deserto del Neghev, per commemorare la «Giornata della terra», ricordando il giorno in cui in cui - il 30 marzo del 1976 - sei palestinesi vennero uccisi negli scontri con la polizia avvenuti durante le proteste contro la requisizione da parte dello Stato di Israele di buona parte delle terre di proprietà di cittadini arabi. Altri raduni si sono svolti in Galilea, in particolare nella cittadina di Sakhnin. Le manifestazioni (nella foto Reuters quella Bilin, in Cisgiordania) si sono concluse senza incidenti. Per i palestinesi d'Israele (il 20% della popolazione dello Stato ebraico) la commemorazione ha assunto il significato di lotta contro le politiche discriminatorie portare avanti dei governi israeliani. Abu Tlul è il principale di 44 villaggi beduini «fantasma», nell'area tra Bersheeva e Dimona, che chiedono di poter finalmente apparire sulle mappe ufficiali del paese. Per lo stesso motivo lottano gli abitanti una quarantina di centri in Galilea, in gran parte tra Nazareth e Haifa. I militari israeliani hanno arrestato ieri tre palestinesi sospettati di aver cercato di contrabbandare armi nel sud della Striscia di Gaza, tramite la cosiddetta «Philadelphi road», all' altezza del confine con l'Egitto. Lo ha annunciato un portavoce militare, aggiungendo che nel loro bagaglio i soldati hanno trovati 13 fucili automatici Kalashnikov e dieci pistole. Nella stessa area, la notte precedente, era stato catturato un altro palestinese trovato in possesso di una cinquantina di pistole dentro un sacco. Secondo fonti militari è il primo arresto di palestinesi per contrabbando d'armi dall'inizio della tregua.
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