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La Stampa Rassegna Stampa
31.03.2005 Un'intervista a re Abdallah di Giordania che ignora la svolta politica del sovrano hashemita
sia per la sua reticenza che per le domande mancate dell'intervistatrice

Testata: La Stampa
Data: 31 marzo 2005
Pagina: 9
Autore: Raghida Dergham
Titolo: «Abdallah. l apace degli arabi vi stupirà»
LA STAMPA di giovedì 31 marzo 2005 pubblica a pagina 9 un'intervista di Raghida Derhgham a re Abdallah di Giordania.

In parte per un'evidente reticenza diplomatica del sovrano hashemita, in parte per il fatto che l'intervistatrice evita di sollevare alcune questioni cruciali, la lettura di questo articolo non aiuta a capire l'attuale politica della Giordania.
Per esempio: Abdallah afferma che la sua proposta di riconoscimento di Israele da parte dei paesi arabi non era che un tentativo di "spiegare" il piano di pace di ispirazione saudita lanciato a Beirut nel 2002 e riproposto identico ad Algeri (al vertice della Lega araba) nel 2005.
Ma se la giornalista avesse chiesto ad Abdallah di rispiegare il suo piano , le differenze con quello saudita sarebbero state chiare.
Da una parte, infatti, la Giordania propone la normalizzazione immediata dei rapporti tra mondo arabo e Israele, dall'altra l'Arabia Saudita condiziona il riconoscimento dello stesso diritto all'esistenza dello Stato degli ebrei a un diktat (ritiro dai territori conquistati nel 67' e il riconoscimento del "diritto al ritorno" dei profughi palestinesi).

Anche le importanti dichiarazioni di Abdallah sulla lotta all'antisemitismo nell'islam, cui si è impegnato di fronte a un pubblico di ebrei americani, vengono sorprendentemente ignorate dall'intervistatrice.

Ecco l'articolo:

Sua Maestà Abdallah di Giordania, lei non è andato al vertice arabo in Algeria. Era un boicottaggio politico oppure ritiene che questi summit non sono più importanti?
«No, i summits sono importanti. E mi incoraggia molto sapere che l’argomento della riforma della Lega Araba è stato discusso in questo vertice con ottimi risultati. Avevo altri problemi in agenda e perciò non ho potuto partecipare. Ritengo inoltre che alcuni dossier possono venire discussi meglio a livello dei ministri degli Esteri. Per quanto si è detto che i risultati del summit fossero stati negativi, quelli positivi sono molto più cospicui: per esempio, le linee guida su come affrontare le riforme in Medio Oriente nella Lega Araba. C’è stato un chiarimento sulla dichiarazione di Beirut (nella quale i Paesi arabi accetterebbero una normalizzazione delle relazioni con Israele in cambio del ritorno dei confini al 1967, ndr). Quando questa iniziativa del principe saudita Abdullah venne fuori per la prima volta nel 2002 non ebbe impatto né sull’Occidente, né su Israele. Perciò si è pensato di chiarire l’iniziativa per il pubblico, ma è stata fraintesa.»
E’ stata fraintesa perché si è pensato che lei volesse emendare la posizione del summit sulla dichiarazione di Beirut, proponendo una normalizzazione con Israele prima della restituzione dei Territori, proprio nel momento in cui Israele annunciava l’espansione degli insediamenti.
«L’idea non era di cambiare, ma di far rientrare i Paesi arabi come parte del nuovo processo di pace tra Sharon e Abbas. C’è una responsabilità che riguarda anche i Paesi arabi, ci sembra che la dichiarazione di Beirut del 2002 sia ancora un documento valido per bussare alle porte di Israele e dire, dal punto di vista degli arabi, "Vogliamo assumerci le nostre responsabilità"».
La imbarazza che Israele decida di estendere gli insediamente proprio mentre lei era assente dal vertice e molti pensavano che lei cercasse di corteggiare gli israeliani?
«Abbiamo firmato la Road Map ed è in corso un processo che dovrebbe venire confermato il mese prossimo quando Sharon incontrerà Bush. Vogliamo assicurarci che la Road Map sia il veicolo verso una soluzione del problema israeliano-palestinese. Sugli insediamenti il presidente Bush ha espresso una visione di uno Stato palestinese indipendente e fattibile. Fattibile per me è un concetto geografico. Perciò dobbiamo guardare il processo in corso sul terreno e gli insediamenti si ripercuotono su questo processo. Io temo che potremmo darci pacche sulle spalle per un altro anno o due dicendoci che il processo della Road Map sta andando avanti, per poi realizzare all’improvviso che non c’è nessun futuro per i palestinesi».
Cosa ha chiesto a Bush sugli insediamenti israeliani?
«Gli ho ribadito la mia visione che uno Stato realmente indipendente lo deve essere in termini geografici. La fattibilità geografica è la componente più importante e tutto quello che la mette a rischio potrebbe smantellare l’intero processo».
«E cosa ha promesso Bush?»
«Non posso dire che abbia fatto promesse, ma - come aveva già mostrato in incontri precedenti - ha compreso l’argomento della praticabilità geografica. L’ha menzionato in diverse occasioni, incluso il suo discorso sullo Stato dell’Unione. Ha parlato di contiguità dello Stato palestinese invece di «fattibilità geografica», ma è la stessa cosa.»
I suoi vicini si sono di recente arrabbiati con lei. E’ colpa sua?
«Mi piacerebbe pensare che non sia così. Quando avevo parlato del futuro dell’Iraq e dell’Iran parlavo di una prospettiva politica e non religiosa. E fin dal primo giorno mi ero opposto risolutamente a una "opzione hashemita" per l’Iraq. Il futuro dell’Iraq deve venire deciso dagli iracheni e da nessun altro. Perciò se mi impongo dei divieti morali mi aspetto che altri Paesi facciano altrettanto. Eppure in quel momento c’erano alcuno elementi in Iran che cercavano di immischiarsi nelle faccende irachene. Io ritengo che tutti dobbiamo attenerci al principio di non interferire in Iraq, ma rigirato in un contesto religioso è suonato come "Abdullah ha preso posizione contro gli sciiti"».
Rimpiange di aver usato il termine "mezzaluna sciita" parlando delle sue paure riguardo all’Iraq e all’Iran?
«Lo rimpiango nel senso che ha permesso alla gente di travisare ciò che ho detto».
Vorrebbe poterselo riprendere indietro?
«No. Vorrei chiarire però che la questione della "mezzaluna sciita" era stata sollevata in un contesto politico. Penso che gli sciiti abbiano diritto ad essere il perno di ciò che sta accadendo nella società irachena e hanno svolto un ruolo straordinario nelle elezioni del gennaio scorso. Saranno loro ad assumersi il peso principale della costruzione del nuovo Iraq e li applaudo per questo. Ma per le stesse ragioni dico che la Giordania non dovrebbe farsi coinvolgere, che gli hashemiti non debbano avere un ruolo nel futuro dell’Iraq e penso che gli altri debbano attenersi allo stesso principio».
Cosa ha intenzione di fare per evitare un deterioramento dei rapporti?
«Il problema riguarda la sicurezza del confine giordano-iracheno e siamo in contatto permanente con il governo iracheno per dare la caccia ai ribelli, in particolare ad Zarqawi. Penso che Zarqawi abbia ormai delle crisi d’identità: questa settimana ho visto a Washington un poster con una faccia che per metà era la mia e per metà di Zarqawi. Era così ridicolo che non riuscivo a trattenermi dal ridere e ho anche provato ad acquistare il poster come souvenir».
Un altro suo vicino è l’Arabia Saudita che si è veramente arrabbiata per quello che ha percepito come un tentativo di cambiare la dichiarazione di Beirut. Ha avuto qualche segnale di ostilità anche da loro?
«Penso che ci sia stato un colloquio tra loro e il nostro ministro degli Esteri e tutto sia stato risolto. Ripeto, penso che si sia trattato di un totale fraintendimento. Quando sono stato in Arabia Saudita tre o quattro settimane fa eravamo d’accordo sulla strategia del processo di pace. Mi sorprende che per qualche motivo il ministro degli Esteri non abbia chiarito un argomento che ha provocato una reazione negativa dei nostri fratelli sauditi».
Lei avrebbe detto a un incontro con ebrei a Washington che aveva ammonito Bush e Sharon a non puntare il dito contro i palestinesi in caso di terrorismo, insinuando che il dito poteva venire puntato contro gli hezbollah e la Siria. Cosa è successo veramente?
«L’unica volta che ho discusso con Sharon è stato a Sharm el Sheikh e avevamo parlato di come aiutare Abbas nei suoi problemi con la sicurezza. Quando durante il mio discorso a questa organizzazione ebraica mi hanno chiesto se Abbas avesse la volontà e gli strumenti per garantire la sicurezza io risposi che la sua volontà era del 110 per cento, ma tutti noi dovevamo insistere per i suoi strumenti. E dissi la stessa cosa anche a Sharon: non possiamo aspettarci che Abbas cambi le cose come se si trattasse di girare un interruttore. Dobbiamo aiutarlo, in modo che lui possa guardare Sharon negli occhi e dire che lui è un partner per la pace».
Non è preoccupato che gli hezbollah e/o la Siria possano lanciare attacchi per silurare gli sforzi dei palestinesi o il ritiro siriano dal Libano? O che il ritiro non sarà completo? La risoluzione 1559 dell’Onu chiede il ritiro di tutte le forze straniere e il disarmo delle milizie.
«Non penso che sarà questo il caso. Tutti devono capire che gli hezbollah fanno parte della politica libanese. Ovviamente non possiamo scegliere le risoluzioni che ci piacciono, c’è stato un appello dalla comunità internazionale e, come la Giordania ha sempre fatto, appoggiamo tutte le risoluzioni dell’Onu».
Kofi Annan ha detto di aver ricevuto da Assad garanzie per un ritiro completo non solo dell’esercito, ma anche dell’intelligence. Ha ragioni per dubitarne?
«Se il presidente Bashar lo dice rispondo che lui è uomo di parola. Con lui abbiamo risolto una lunga disputa di confine e ci sono stati restituiti quasi 130 chilometri di terra giordana. Ha fatto molto per le relazioni con noi e non vedo ragioni perché non lo possa fare anche per i suoi rapporti con il Libano».
Pensa che ciò che avviene nelle strade del Libano sia positivo? Questo movimento potrebbe ispirare cambiamenti nel resto del mondo arabo o verrà sopresso alla radice?
«Non c’è dubbio che il Libano stia affrontando un momento molto difficile dopo aver perso Hariri. Era un uomo che aveva non solo intelligenza politica e capacità di imporsi alle differenti fazioni, ma era un vecchio e caro amico. Spero che la società libanese riesca a trovare un altro Hariri il prima possibile perché è ciò di cui ha bisogno. Nessuno di noi vorrebbe vedere il Libano tornare nel caos dal quale era appena uscito».

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