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La Stampa Rassegna Stampa
30.03.2005 Il pericolo del nucleare iraniano e la democratizzazione del Medio Oriente
il realismo politico di Henry Kissinger e il neoconservatorismo di Norman Podhoretz a confronto in due interviste

Testata: La Stampa
Data: 30 marzo 2005
Pagina: 10
Autore: Miriam Hollstein - Maurizio Molinari
Titolo: «L'Iran non deve diventare una potenza nucleare - Neocon a destra o a sinistra?»
Se l'Iran entrasse in possesso di armi nucleari si produrrebbe una pericolosa corsa degli altri paesi (in promis Egitto e Turchia) della regione per raggiungere lo stesso obiettivo. E crescerà il rischio che materiali nucleari finiscano nelle mani dei terroristi.
Henry Kissinger argomenta così, la necessità di fermare i progetti atomici degli ayatollah, in un'intervista a Miriam Hollstein pubblicata da LA STAMPA di mercoledì 30 marzo 2005.

Una lezione di vero "realismo politico":

«Il contributo europeo alla sicurezza ora è meno importante; la sfida è la ricostruzione politica. Nei prossimi due o tre anni l’Iraq evolverà verso la stabilità o verso il caos. Ma se guardiamo alla storia europea, vediamo che ci sono voluti secoli perché la democrazia si affermasse secondo gli attuali standard. Se l’Iraq si rivelerà un successo senza l’aiuto alleato, gli europei potrebbero provare un po’ di vergogna per se stessi».
E se invece sarà un fallimento?
«Ne saremo tutti vittime. Dovremo fronteggiare il problema comune dell’instabilità del Medio Oriente».
La vicenda irachena non ha forse dimostrato che occorre maggior legittimazione per l’uso della forza militare?
«Certo, per un Paese lo sforzo di costruire un sistema internazionale di potere è sfibrante. Ma non si può sostituire la forza con un’idea astratta di legittimità. La sfida è trovare una equilibrio fra sicurezza e legittimità. Il problema americano è dare legittimità alla forza. Quello europeo è riconoscere che il diritto deve avere basi obiettive, che si accordino con la necessità della sicurezza. Occorre trovare una misura fra queste due concezioni».
Dopo l’Iraq ritiene che gli Stati Uniti saranno più propensi ad accettare il punto di vista europeo sulle «pressioni dolci» nelle situazioni di conflitto?
«L’America non governa il mondo e non dovrebbe nemmeno provarci. Se gli europei vogliono tentare questa strada, dovrebbero poterlo fare. Quello che conta è la congruità rispetto al problema. Riguardo all’Iraq l’obiettivo è metterlo in grado di affrancarsi dalla forza militare. Fino ad allora non se ne può prescindere».
E l’Iran, dove l’Europa sta impegnando la diplomazia per convincere il governo a rinunciare alle armi nucleari?
«L’Iran è un buon banco di prova, sia per quanto riguarda il tema della proliferazione, sia per la collaborazione con i partner europei. Dovremmo sostenere il loro sforzo. Ma la verifica sarà la riuscita, o il fallimento del tentativo. Se si arriva a uno stallo, come ritengo probabile, allora il punto sarà decidere quali altre misure intraprendere».
Pensa che l’Europa sia disposta a fare questo passo se la diplomazia non funzionerà?
«Ora come ora no. E allora ci sarà un’altra crisi. Se accettiamo che l’Iran diventi una potenza nucleare, l’Egitto e la Turchia, e altri ne seguiranno l’esempio. Ci troveremo a vivere in un mondo completamente diverso, dove in ogni momento sarà possibile che materiali nucleari finiscano nelle mani sbagliate. È un problema che non si può eludere ignorandolo».
Quanto è realistica l’opzione militare?
«Non è il momento di discutere lo scenario di un possibile intervento in Iran. Ora bisogna chiarire quali sono le alternative sul tavolo e capire se si può sviluppare un’analisi comune».
Un altro conflitto che si sta sviluppando nelle relazioni transatlantiche è quello sulla richiesta dell’Europa di revocare l’embargo per la vendita di armi alla Cina.
«In America sono fra i più solerti sostenitori dell’opportunità di avere stretti rapporti di collaborazione con la Cina. Occorre fare ogni possibile sforzo per integrarla nella comunità internazionale. Ma non mi pare che l’embargo sia un gran terreno per questa battaglia. L’Europa dice: "Togliamo le sanzioni ma non venderemo armi». E allora perché litigare? Penso che la proposta di togliere l’embargo fosse mirata a provocare una reazione da parte degli Stati Uniti. Ma penso che alcuni americani stiano esagerando nella risposta».
Abbiamo ancora bisogno dell’alleanza transatlantica come fondamento delle relazioni internazionali?
«Mi sono formato in un mondo dove le relazioni transatlantiche erano una necessità psicologica. Per gli Usa erano il simbolo stesso della rottura dell’isolazionismo. Per l’Europa un mezzo per ritrovare la sua storia, la sua dignità e il suo ruolo. Per la Germania, in particolare, il problema era emergere da un totale isolamento e riguadagnare rispettabilità. Quest’eredità spirituale della mia generazione si sta perdendo, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Ma sono ancora persuaso che le relazioni atlantiche siano cruciali perché si prospetta uno scenario senza precedenti. Vedremo l’affermarsi della Cina, l’affermarsi dell’India, una nuova politica nazionale in Giappone. L’Indonesia ha diverse centinaia di milioni di abitanti. Tutti questi saranno centri di potere legati fra loro dalla globalizzazione. Perciò la domanda è: le nazioni occidentali che condividono culture parallele possono sviluppare politiche parallele? Affronteranno i problemi con spirito di comunanza o secondo la vecchia tradizione degli stati-nazione?»
In America i neoconservatori continueranno a dominare la politica estera statunitense?
«In Europa prevale un’immagine caricaturale, molto esagerata, di George Bush e dei repubblicani. Gli europei dovrebbero comprendere che questo è un presidente forte con grandi capacità di leadership, a capo di un partito repubblicano che ospita visioni diverse. Al suo interno ci sono persone con un’apertura internazionale, risolute in politica estera e liberali in tema di riforme sociali. Altri sono più "militanti". I neocon sono influenti ma non predominano».
Ma sotto i riflettori ci sono falchi come Paul Wolfowitz, il vice segretario alla Difesa, che Bush ha scelto come candidato Usa a presiedere la Banca Mondiale.
«Chiunque abbia conosciuto Wolfowitz nelle vesti di ambasciatore nelle Filippine e in Indonesia o come vice segretario per l’Asia potrà confermare che è stato un valido promotore della democrazia e del progresso sociale in quei Paesi. Gli avversari resteranno sorpresi dalla sua apertura mentale. Credo che sui temi della democrazia e delle riforme sociali si rivelerà un progressista.
E che pensa dell’altra candidatura, pure assai contestata, di John Bolton ad ambasciatore delle Nazioni Unite?
«È diverso. Lui è un conservatore tradizionalista».
E un unilateralista.
«La questione dell’unilateralismo e del multilateralismo è più complessa di come è stata spesso presentata in Europa. Sorge principalmente quando ci sono notevoli differenze di opinione. E ogni Paese deve decidere se portare avanti la propria politica o censurare le proprie convinzioni in favore della sicurezza nei confronti dei Paesi stranieri. Dipende dall’importanza dell’argomento».
Sull’Iraq la Germania si è schierata con la Francia e con altre nazioni europee.
«E noi eravamo con l’Inghilterra e con altri Paesi dell’Europa. Ma il punto è capire se possiamo ancora trovare una comunanza d’interessi».
Si parla di cambiare la Costituzione americana in modo che politici nati all’estero come Arnold Schwarzenegger possano candidarsi alla presidenza. Un tema che le suonerà familiare perché fu discusso anche quando lei diventò il primo Segretario di Stato «straniero».
«È un emendamento che non passerà perché i politici sulla scena non vogliono un altro concorrente. Cambiare la Costituzione è un processo che richiede decenni. Capiterà, nel caso, non per via di gente come me e come Schwarzenegger ma grazie all’influenza latina. Prima o poi da quella parte spunterà un candidato».
Nel 2008 gli Stati Uniti saranno pronti per una donna presidente? C’è chi ipotizza un confronto tra Condoleezza Rice e Hillary Clinton.
«Condoleezza Rice non può candidarsi finché è Segretario di Stato. Dovrebbe dare le dimissioni almeno un anno prima. Non penso che lo farà, anche se credo abbia le qualità necessarie. Hillary invece di sicuro lo vuole. Ed è qualificata per la candidatura. Ma chi può sapere quali segreti pregiudizi potrebbero emergere da un ballottaggio segreto?»
Copyright © 2005 Tribune Media Services, inc.
Maurizio Molinari intervista invece Norman Podhoretz, considerato il maggior ispiratore del pensiero neoconservatore.
Che rivendica a chi oggi si batte per l'estensione della democrazia al Medio Oriente, l'eredità ideale della sinistra liberal, ma antitotalitaria, di John Fitzgerald Kennedy.

Ecco l'articolo:

Ecco l'articolo:

I neoconservatori americani sono di destra o di sinistra? Quando sente porsi questa domanda Norman Podhoretz non si scompone più di tanto. Il pensiero neoconservatore, di cui il politologo dell'Hudson Institute è considerato il maggiore ispiratore da oltre trenta anni, rompe gli schemi del linguaggio politico del secondo dopoguerra. Il terreno sul quale si ritrovano e si identificano i neocon è l'impegno su temi trasversali rispetto agli schieramenti tradizionali, a cominciare dalla democrazia o meglio l'importanza di diffonderla.
Come nasce questa idea?
«E' centrale per i neoconservatori. E' uno dei principi in cui crediamo sin dai tempi della guerra fredda. Il potere dell'America deve essere adoperato per promuovere libere istituzioni, ciò è bene non solo per gli Stati Uniti ma per il mondo intero».
Ciò vuol dire che la democrazia prevale sulla sovranità?
«Sì. La questione dei limiti della sovranità si origina dal Trattato di Westfalia. Sulla base della dottrina della sovranità nazionale si sono consumati i crimini più orrendi. Adolf Hitler fu in grado di fare ciò che voleva, opprimere il suo popolo come commettere un genocidio. Lo stesso vale in casi più recenti, come il Ruanda. Senza interferenze dall'esterno questi orrori possono ripetersi. La santità della sovranità nazionale si è sempre accompagnata all'idea che la politica estera deve garantire soprattutto stabilità e noi crediamo che anche questa convinzione debba essere sfidata. Proprio come fa Bush».
I diritti dei popoli prevalgono rispetto a quelli degli Stati?
«Entrambi devono essere limitati. Non ci sono soluzioni assolute ed il problema nasce proprio dal fatto che la vecchia idea sulla sovranità nazionale è stata imposta in modo assoluto per diversi secoli, sacrificando i diritti delle genti. La regola "cuius regio eius religio", del rispetto assoluto del territorio, implica il fatto che nessuno ha diritto di interferenza, di occuparsi di ciò che avviene dentro un altro Stato. Ad esempio, durante la prima guerra del Golfo, George Bush padre cacciò Saddam dal Kuwait che aveva invaso con la forza, ma consentì poi allo stesso Saddam di restare al potere in Iraq perché non avevamo il diritto di abbatterlo ed il risultato fu che migliaia di persone furono massacrate dal Baath e che poi siamo arrivati alla seconda guerra del Golfo. Quella scelta fu un'espressione della vecchia politica che Bush figlio è riuscito a rovesciare, impegnandosi contro i tiranni ed a favore della democrazia».
Cosa c'è di destra e cosa di sinistra in questo modo di promuovere la democrazia?
«Chi, come me, diede inizio da sinistra, 35-40 anni fa, alla tendenza neoconservatrice, lo fece per rielaborare il modo di pensare dei liberal ed al tempo stesso per portare un nuovo metodo di pensiero fra i conservatori. In Europa chi ci ha seguito erano persone influenzate da Raymond Aron, ma è stato soprattutto un fenomeno americano. I liberal ai tempi di J. F. Kennedy, quando ero giovane, erano dei decisi anticomunisti, avversari della tirannia, ma ora il senatore democratico Ted è l'esatto contrario. L'impegno per la democrazia di Kennedy ha assai più in comune con l'opera di Ronald Reagan che con quanto ripete il fratello Ted. L'impegno per la democrazia attraversa la politica americana da Truman a Reagan, da J. F. Kennedy a George W. Bush. Oggi le categorie tradizionali di destra e sinistra sono venute meno e le due parti si confondono: abbiamo la destra che difende la democrazia in Iraq mentre la sinistra ha difeso un dittatore fascista come Saddam. Appena cinquanta anni fa, uno avrebbe pensato che era vero l'esatto contrario».
Dopo la rielezione di Bush la sinistra, americana ed europea, ha mostrato i primi segnali di apprezzamento per i risultati di Bush. Si è andati dalla copertina di Time su «Forse la dottrina Bush sta pagando» alle dichiarazioni di leader europei come Gerhard Schroeder e Piero Fassino sui passi avanti della democrazia in Medio Oriente. Crede che qualcosa stia mutando nell'approccio, finora aspramente critico, delle sinistre al pensiero dei neoconservatori?
«Da tempo il neoconservatorismo avrebbe dovuto trovare ascolto nella sinistra, europea ed americana, assai più che fra i conservatori perché la sinistra da sempre è stata in favore dei "diritti dei popoli" rispetto ai "diritti degli Stati". Il problema sta nel fatto che sebbene la sinistra sia in teoria favorevole a democrazia e libertà, in realtà ovunque nel mondo si è schierata con un dittatore fascista come Saddam Hussein e contro la sua sostituzione con un governo democratico. Il nodo resta questo anche per leader come Fassino che plaudono agli effetti ma non alle cause della svolta democratica, continuano a non condividere il rovesciamento di un dittatore».
Come spiega la contraddizione?
«Credo che la spiegazione di fondo sia da ricercarsi nel fatto che nelle forze politiche di sinistra in Europa l'ostilità nei confronti dell'America è talmente radicata che chiunque la odia diventa automaticamente un alleato, anche se è fascista come Saddam Hussein o islamofascista tipo Al Qaeda».
E nel caso della sinistra americana quale è l'ostacolo?
«Il fatto che anch'essa è accecata da un odio: quello per George W. Bush e gli Stati "rossi", conservatori ed a maggioranza repubblicana. Se Bill Clinton avesse seguito lo stesso percorso di Bush dopo l'11 settembre sarebbe diventato un idolo della sinistra americana e di tutto il mondo. La sinistra è corrotta intellettualmente e moralmente perché non è fedele ai suoi stessi principi. Non ci sono giustificazioni per opporsi al rovesciamento di un regime come quello del Baath».
Il conflitto è evidenziato dalla comunanza di termini fra voi e la sinistra. I neoconservatori quando parlando di «diritto dei popoli» intendono la liberazione dell'Iraq da Saddam, mentre alcuni leader della sinistra europea adoperano questa stessa espressione per riferirsi a gruppi come Hamas, Jihad e Hezbollah...
«Il termine è lo stesso ma fra i due significati non c'è nulla in comune. Parlare dei diritti dei popoli per giustificare gli attacchi suicidi significa, anche per chi condivide la causa palestinese, fare propria un'arma barbarica come lo erano i gas velenosi nella prima guerra mondiale. Perfino le Nazioni Unite si avviano a definire il terrorismo come un attacco deliberato contro i civili».
Come risponde al dissenso della sinistra sull'uso della forza per promuovere la democrazia nel mondo?
«E' il pacifismo che ha allontanato la sinistra dai suoi principi. La sinistra oggi è soprattutto pacifista, ma non è stato così in passato, non lo era di certo all'epoca della seconda guerra mondiale e non lo è stata all'inizio nei primi venti anni della guerra fredda. Il pacifismo si è diffuso a sinistra, soprattutto in Europa ma anche in America, come un nuovo fenomeno. Ma anche a destra, fra i conservatori, c'è del pacifismo e in genere coincide con le posizioni più isolazioniste ovvero la volontà di chiudersi in se stessi, di non occuparsi di cosa avviene agli altri».
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