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La Repubblica Rassegna Stampa
30.03.2005 Tariq Ramadan ha trovato una nuova tribuna
ma è facile scoprire chi è davvero l'ideologo islamista

Testata: La Repubblica
Data: 30 marzo 2005
Pagina: 15
Autore: Tariq Ramadan
Titolo: «Molti governi usano la religione contro donne, poveri e oppositori»
Il CORRIERE DELLA SERA, per fortuna, ha smesso di ospitare gli articoli di Tariq Ramadan, l'islamista francese famoso per la doppiezza dei suoi discorsi pubblici, smascherata, in un libro cha ha scosso l'opinione pubblica francese, dalla giornalista Caroline Fourest, e per le sue liste di proscrizione di intellettuali ebrei.

Ma "l'islamista moderato" ha ora lanciato un appello per una moratoria nell'applicazione delle pene più severe del codice penale islamico. Un appello che deve essere parso molto interessante nella redazione di un grande quotidiano italiano, che ha così preso il posto del CORRIERE nell'opera di diffusione del Ramadan-pensiero nella sua versione per occidentali "ingenui".

Il quotidiano in questione è LA REPUBBLICA, che mercoledì 30 marzo 2005 pubblica l'appello, corredato di un editoriale plaudente di Renzo Guolo e di una cronaca di Angela Lano.

A noi preme anzitutto ricordare chi è davvero Tariq Ramadan. Lo facciamo con due articoli che Informazione Corretta ha a suo tempo ripreso da LIBERO e da L'ESPRESSO.

Di seguito, da LIBERO del 20-10-04,"La gauche ripudia il filosofo dei kamikaze", di Andrea Colombo:

Parigi. Il mondo occidentale, ma in particolare l’Europa, è il principale campo di battaglia per gli islamisti. I servizi segreti neutralizzano regolarmente piani di attentati terroristici contro obiettivi europei. Nelle scorse settimane, Francia, Germania e Italia hanno scoperto presunte cellule terroristiche sul proprio territorio, e anche alcuni reclutatori per l’insurrezione in Iraq. Ma l’Europa rappresenta la prima linea del fronte anche per gli islamisti che hanno deciso di seguire un approccio più "politico".
Quasi cinque anni fa, Sheik Yusuf Qaradhawi, popolarissimo imam del canale televisivo Al Jazeera e presidente dell’European Fatwa Council, era stato molto chiaro: "Con l’aiuto di Allah, l’Islam tornerà in Europa, e gli europei si convertiranno all’Islam. Poi anche loro potranno propagare l’Islam in tutto il mondo". Questo teologo (che gode di un grande ascolto in Europa e nel mondo
arabo) non pensa che la riconquista debba essere fatta per forza con la spada. A suo giudizio, la religione dell’Islam preparerà il terreno. "Ritengo che questa volta la conquista non sarà fatta con la spada ma con il proselitismo
e l’ideologia". Gli islamisti che hanno subito l’influenza dei Fratelli Musulmani (il gruppo fondato da Hassan al-Banna in Egitto nel 1928) sono totalmente d’accordo. Dopo il loro fallito tentativo di assumere il potere in Egitto, e ancor più dopo avere perso la guerra civile in Algeria, l’Europa è diventata la massima priorità. Che scelgano l’opzione jihadista (come Ayman al-Zawahiri, il numero 2 di al Qaida) o un approccio "riformista", gli islamisti ispirati dai Fratelli Musulmani perseguono tutti lo stesso sogno, espresso da Hassan al-Banna, di "far sventolare la bandiera dell’Islam dovunque viva un musulmano". Le loro strategie sono molteplici. (…) In Nord Africa e nel Medio Oriente, dove rappresentano una minaccia diretta per i regimi al potere, sono tenuti strettamente sotto controllo o addirittura incarcerati. Ma in Europa possono sfruttare la libertà di parola e la democrazia, nonché la mancata integrazione degli immigrati arabi. Qui reclutano facilmente nuovi adepti, offrendo a migliaia di musulmani emarginati un rinnovato orgoglio e una famiglia politica unita dalla fede in un Islam radicale. L’occidente viene usato come un formidabile campo base per il reclutamento di nuove truppe. Grazie a loro, gli islamisti sperano di riuscire a prendersi la propria
vendetta in oriente. E’ per questo che i leader dell’Islam politico radicale si trovano più spesso a Londra o Ginevra che a Kabul o Baghdad. Yusuf Qaradhawi, l’imam telegenico, avrebbe dovuto essere nominato Guida Ufficiale del movimento dei Fratelli Musulmani in Egitto. Ma ha rifiutato l’incarico, dicendo che la sua missione in Europa era più importante. Di fatto, mantiene una grandissima
influenza come presidente dell’European Fatwa Council (con sede a Londra), che emana le fatwa per i musulmani europei. Una di queste fatwa giustifica gli attentati suicidi contro la popolazione civile. (…) Hamas, il braccio armato dei Fratelli Musulmani in Palestina, ha sfruttato questa fatwa per giustificare le proprie operazioni. L’uomo che guida i musulmani in Europa dice anche che
qualsiasi contatto con gli ebrei deve essere fatto "con la spada e il fucile". Ciononostante, è stato proprio Qaradhawi la persona che Ken Livingstone, il sindaco di Londra, ha abbracciato in occasione di una manifestazione in favore del chador svoltasi nella capitale inglese lo scorso 17 luglio. Questa città, essendo diventata un rifugio sicuro per l’Islam politico, ha oggi un nuovo soprannome: "Londonistan". I personaggi principali sono ben noti: Abu Hmaza, Abu
Qatada o Omar Bakri, un esule siriano che non ha mai fatto mistero della sua ammirazione per Osama bin Laden. Molto meno nota è la Leicester Foundation, creata da islamisti pakistani per diffondere le idee di Sayyid Qutb, il pensatore egiziano che ha ispirato bin Laden a invocare il jihad contro gli "apostati tiranni", e di Sayyid Abul- Ala Mawdudi, il teologo pachistano che predicava il ritorno alla legge della sharia. Pur essendo un’istituzione di radicale propaganda, ha ricevuto un’onorificenza dal Principe Carlo, cosa che dimostra nel modo più lampante che gli islamisti fanno bene a scommettere sull’ingenuità delle democrazie occidentali. (…)Un altro sicuro rifugio degli islamisti non ha ancora deciso di passare all’azione: la Svizzera. Con la sua lunga tradizione di neutralità e il suo ruolo di centro bancario internazionale,
esita ad assumere un atteggiamento severo contro islamisti che godono ancora
del sostegno morale (e molto spesso finanziario) degli investitori sauditi. All’inizio degli anni Sessanta, con il patrocinio e la protezione della famiglia reale saudita, il discepolo preferito di Hassan al-Banna, Said Ramadan, ha potuto fondare un centro islamico a Ginevra, che è servito da sicuro rifugio per i Fratelli Musulmani e come campo base per i fondamentalisti che vogliono islamizzare il Continente. Dopo la sua morte nel 1995, i suoi figli, tutti membri del comitato direttivo del Geneva Islamic Center, hanno proseguito la battaglia. L’attuale direttore del centro, Hani Ramadan, è stato recentemente licenziato dal ministero dell’istruzione svizzero per avere giustificato, in un articolo pubblicato sul Monde, la lapidazione come un atto di purificazione e definito l’Aids come una punizione divina. E’ anche famoso per avere invitato i giovani francesi a disertare l’esercito durante la guerra in Afghanistan e per avere organizzato proteste "contro gli infedeli" davanti al palazzo delle Nazioni Unite con numerosi ex militanti dell’organizzazione terroristica algerina Gia. (…) Un rapporto dei servizi segreti svizzeri contiene, tra le altre cose, la testimonianza di un ex infiltrato nel centro, che dichiara di avere partecipato nel 1991 a un incontro fra Ayman al- Zawahiri, Omar Abd-el-Rahman (l’architetto del primo attentato al World Trade Center) e due figli di Said Ramadan: Hani e Tariq. Tariq Ramadan ha provocato grandi polemiche in Europa e negli Stati Uniti. Invitato lo scorso anno dall’università di Notre Dame per insegnare "la pace tra le civiltà", gli Stati Uniti non gli hanno concesso il visto di entrata per ragioni di sicurezza, attirandosi aspre critiche da più parti. Ma nonostante il suo apparentemente angelico e irreprensibile messaggio, Tariq Ramadan non ha in realtà nessuna qualifica per insegnare la "pace tra le civiltà". (…) Nelle sue cassette e nei suoi libri, distribuiti nelle librerie islamiste radicali, impiega un linguaggio che riprende gli insegnamenti di Hassan al-Banna, senza alcuna analisi critica. Ramadan appoggia apertamente Hamas come movimento di "resistenza". Quando gli è stato domandato se approvava l’uccisione di un bambino israeliano di otto anni (che potrebbe crescere e diventare un soldato), ha risposto in questo modo: "L’atto in sé è moralmente condannabile, ma contestualmente giustificabile", poiché "la comunità internazionale ha messo i palestinesi nella mani degli oppressori". Fedele al nuovo orientamento dei Fratelli Musulmani, Tariq Ramadan ha proclamato che l’occidente è dar al shaada, ossia terra di missione religiosa. Sfrutta la sua posizione di prestigio per dire alle giovani donne che una buona musulmana deve essere pudica e quindi velata, per descrivere l’omosessualità come uno "squilibrio
mentale", per giustificare la poligamia e per scoraggiare i matrimoni misti fra musulmani e non musulmani. (…) Tariq Ramadan vuole fare dell’America la sua prossima missione, nella speranza di sedurre la comunità degli afroamericani e persino la sinistra americana. Malgrado diversi intellettuali (spesso arabi o musulmani) insistano già da almeno 15 anni sulla sua dannosa influenza, ci sono sempre stati altri intellettuali (il più delle volte progressisti occidentali)
pronti a farsi ingannare dal suo duplice messaggio. Anche, e soprattutto, quando afferma di essere una vittima di una cospirazione sionista o antiislamica. Proprio qui sta la grandezza e la debolezza della democrazia: persino coloro che la detestano sanno come sfruttarla a proprio vantaggio. Che siano terroristi o "semplicemente" dei politici, gli islamisti rappresentano una grave minaccia per le democrazie occidentali. Questo movimento di guerriglia clandestina contro le libertà pubbliche e individuali potrà essere indefinitamente tollerato proprio in nome di queste stesse libertà? E, come rovescio della medaglia, possono le nostre libertà essere limitate senza abbandonare quegli ideali che ci rendono diversi dai nemici della democrazia? La risposta sta probabilmente nel mezzo. E richiede senza dubbio che si mantenga la più stretta sorveglianza possibile.

Caroline Fouret
© Wall Street Journal, per concessione di
Milano Finanza, traduzione di Aldo Piccato
Da L'ESPRESSO del 2003-11-07, riportiamo invece «Antisemiti e bugiardi» di André Glucksmann:

Il signor Ramadan non è un talebano, né un partigiano del Gia, il partito degli estremisti islamici algerini), bensì un professore, con il quale si può parlare di Aristotele o di Cartesio. Ma sotto i suoi orpelli accademici si cela un maestro del doppio linguaggio, che ha già ingannato parecchie persone, un fautore di un integralismo che non concede altro alla modernità salvo una 'moratoria' sulla lapidazione delle donne adultere.

Nelle sue prese di posizione polemiche, si fregia, astutamente, della qualifica di 'membro del gruppo dei Saggi per il dialogo fra i popoli e le culture presso la Commissione europea sotto la presidenza di Romano Prodi'. Grazie a questa investitura, egli appare così accreditato come un apostolo del riavvicinamento fra le genti e le religioni. Possiamo sentirci, dunque, rassicurati. Perché non compiere un ulteriore sforzo, eleggendolo arbitro del dialogo fra israeliani e palestinesi?

Il fatto che il rispettoso nipotino del fondatore della setta dei Fratelli Musulmani scenda in guerra contro gli intellettuali ebrei "onnipresenti sui mass media", non sorprende, da parte di un uomo che ha apprezzato "gli atteggiamenti costruttivi e ragionevoli" dei dirigenti del Fis, il Fronte islamico di salvezza algerino, nel momento più buio delle stragi. Questo la dice lunga sul suo spirito di tolleranza. Ma quel che più mi preoccupa non è tanto lui, bensì i suoi amici, avversi alla mondializzazione, pacifisti, infarciti di buoni sentimenti, e il loro rapporto strategico con il suo odio per gli ebrei.

Assisteremo dunque alle nozze fra il movimento 'no-global' e il 'saggio' fondamentalista? Ramadan già preside la sessione plenaria del Forum Sociale Europeo sull''antirazzismo, la xenofobia e l'antisemitismo'. Le sue esternazioni, rifiutate dai grandi quotidiani parigini, trovano spazio sul sito Internet di quest'organismo. Ciò significa che è diventato il consigliere per l'antirazzismo e l'antisemitismo degli eroi di Durban, di Genova e di Porto-Alegre?

Fra questi benpensanti, una sparuta minoranza ha levato la sua voce di protesta. Ma invano. Pierre Khalfa, animatore del movimento dei no-global europei e membro del consiglio scientifico di Attac respinge le "false accuse" mosse contro il suo nuovo amico e il deputato verde Noël Mamère vede nella campagna condotta contro di lui "un tentativo di destabilizzare il Forum". Ed ecco allora che, paradossalmente, i fautori di discordia non appaiono più quelli che pronunciano discorsi antisemiti, bensì quelli che li denunciano. Quando chi vede chiaro indica le nuvole nere che preannunciano tempeste storiche, il no-global guarda il dito.

Per i verdi e i trotzkisti alla ricerca di seguaci, le dichiarazioni di Ramadan non hanno niente di riprovevole. Il veleno entra, così, sottilmente in circolo: dire che Kouchner, Lévy o Glucksmann affermano questo o quello perché sono ebrei non ha niente di antisemita! Poiché nessuno di essi appartiene (e pour cause) alla sua religione, sono allora il sangue e la nascita che li spingono a parlare in quel modo. I no global avallano l'ipotesi oscurantista sull'esistenza di un complotto di intellettuali che non pensano con la loro testa ma secondo la propria razza. Gli ebrei vengono così screditati in anticipo. Con la sola eccezione, contemplata dal magnanimo Ramadan, di coloro che abbracciano la sua causa. O siete d'accordo con lui, o venite smascherati come ebrei o filosemiti. E in questo modo, il dialogo finisce prima ancora di cominciare.

Ci ritroviamo qui di fronte a un dilemma di fondo della sinistra europea. In nome della difesa degli oppressi, della lotta contro il grande capitale e l'imperialismo (americano), e dei diritti calpestati dei palestinesi, i suoi discorsi evocano schemi e ossessioni in cui confluiscono l'antisemitismo delle vecchie destre chauviniste e l'anti-cosmopolitismo degli stalinisti repressi. C'è qualcosa di marcio nel regno dei no-global. Assumere a portabandiera uno come José Bové, che vede lo zampino del Mossad negli attentati alle sinagoghe in Francia (salvo poi a scusarsene più tardi, quasi si trattasse di un'inavvertenza senza strascichi) è soltanto una piccola spia di una deriva inquietante.

Verso la metà degli anni '90, il pontefice dell'integralismo sudanese, Hassan al-Tourabi, aveva proclamato: "Tariq Ramadan rappresenta il futuro dell'Islam". Se i fatti gli hanno dato torto, ciò lo si deve alle battaglie coraggiose condotte dalle donne algerine, afgane o iraniane, non certo a quegli europei che sognano un mondo diverso alleandosi con le forze più reazionarie di quello esistente. Il mondo che io sogno si costruisce a Teheran con gli studenti che contestano i mullah o nelle nostre periferie con le donne che si ribellano al grido di 'Né puttane, né sottomesse', e non certo sulle tribune di Saint-Denis con Tariq Ramadan.
Fatta questa premessa passiamo all'appello di Ramadan:
La questione dell´applicazione del «codice penale islamico» nelle società a maggioranza musulmana (più conosciuto con il temine improprio di sharìa) è uno degli argomenti più controversi nel dialogo tra le società occidentali ed il mondo islamico. Nelle prime è inaccettabile che s´infliggano castighi corporali, che si lapidi o che si giustizi qualcuno in base ad un riferimento religioso che s´imporrebbe a tutta una società: bisogna condannare assolutamente queste pratiche senz´altra forma procedurale. Il mondo islamico, invece, manda dei messaggi molto contraddittori: la condanna ferma e definitiva è auspicata solo da parte di una piccola minoranza d´intellettuali, da persone impegnate socialmente e da politici musulmani, mentre alcuni governi tentano di legittimare il loro carattere «islamico» proprio con l´applicazione di queste pratiche repressive. Fasce intere di popolazioni musulmane (dalla Nigeria alla Malesia), reclamano regolarmente l´applicazione stretta della sharìa e la maggioranza degli ulema si limita ad affermare che queste pene «non sono quasi mai applicabili» (insistendo sulle condizioni richieste) evitando però di prendere posizione chiaramente sulla questione (quasi sempre per non perdere di credibilità presso queste popolazioni).
Come ci si deve allora impegnare in tale dibattito che è ormai assurto a caso emblematico nelle relazioni tra le civiltà e le culture? Dobbiamo ingiungere al mondo musulmano di condannare queste pratiche e di aderire così alle esigenze dei «valori universali»? Dobbiamo invece ascoltare, e cioè rispettare, le voci che si esprimono a partire dai riferimenti musulmani in nome del riconoscimento dei particolarismi e del relativismo culturale? O esiste un´altra strada che permetta di superare questo dibattito pieno di passioni e le rispettive sordità, offrendo uno spazio dove concepire insieme, nella discussione e nella deliberazione, dei valori universali comuni?
E´ possibile stabilire dei valori universali il cui rispetto non sia negoziabile (integrità della persona umana, uguaglianza dei diritti, rifiuto dei trattamenti degradanti, ecc.) riconoscendo nello stesso tempo la diversità e la specificità dei riferimenti (religiosi e culturali) e i percorsi che possono portare ad esprimerli e a rivendicarli? Questo costituisce, nell´epoca della mondializzazione, il centro di un dibattito fondamentale per ciò che riguarda l´avvenire delle relazioni tra le civilizzazioni, le religioni e le culture.
Come già detto, il dibattito sulla sharìa nel mondo islamico è paradigmatico. Appena invitiamo ad una moratoria sulle pene corporali, la lapidazione e la pena di morte, si levano delle voci in Occidente che affermano: «E´ inaccettabile, non è abbastanza!» Altri, nel mondo musulmano, esclamano: «E´ inaccettabile, si tratta di un tradimento dei nostri riferimenti!» A metà strada tra questi due atteggiamenti, l´appello ad una moratoria è un´esplicito e necessario appello rivolto al mondo musulmano a partire dai propri riferimenti (e dall´interno) perché siamo convinti che la riflessione e l´evoluzione delle mentalità siano possibili soltanto a partire dalle dinamiche endogene alle società stesse.
Oggi, lanciamo un appello ad una moratoria immediata nel mondo musulmano in nome dei principi stessi dell´Islam. Per fare ciò avanziamo tre tipi di argomenti:
1. Gli ulema non sono d´accordo sulle interpretazioni circa il contenuto (e talvolta anche sull´autenticità) dei testi che si riferiscono a queste pratiche, né sulle condizioni richieste e i contesti socio-politici nei quali è possibile applicarli. Bisogna quindi aprire un dibattito ampio e pluralista decidendo di cessare immediatamente queste pratiche poiché non esiste il consenso su questa materia.
2. L´applicazione della sharìa è strumentalizzata oggi da poteri repressivi che se la prendono con le donne, con i poveri e con i loro oppositori politici, in un vuoto giuridico quasi totale, in cui si moltiplicano le esecuzioni sommarie di accusati senza difesa, senza avvocati, e di cui non si rispetta la dignità umana. La coscienza musulmana contemporanea non può accettare questa denegata giustizia.
3. Le popolazioni musulmane, che spesso non hanno accesso ai testi, si lasciano trasportare da una specie di sentimentalismo che assimila la fedeltà all´Islam sia al carattere rigoroso e visibile delle pene sia ad un´opposizione all´Occidente, di cui spesso hanno un´immagine caricaturale. Bisogna anche in questo caso, resistere a queste derive irrazionali che sconfinano nel formalismo e legittimano ogni forma di oppressione.
Questa situazione è nota agli ulema, agli intellettuali e ai musulmani educati e impegnati socialmente o politicamente nelle loro società. Essi riconoscono che un dibattito all´interno del mondo islamico è urgente e necessario e che le ingiustizie compiute attraverso un uso strumentale della religione, in suo nome sono numerosissime e inaccettabili. L´appello ad una moratoria ha il doppio vantaggio di far cessare immediatamente queste pratiche in nome dell´esigenza di giustizia propria dell´Islam e di iniziare una riflessione di fondo sul senso e le condizioni di applicazione della sharìa oggi.
Non si tratta di negare l´esistenza delle fonti scritturali islamiche riguardo alla sharìa ma di discuterne, dall´interno, le interpretazioni, le condizioni e ciò che oggi può ancora venir applicato o invece deve cessare di esserlo. L´evoluzione della mentalità nel mondo musulmano non si farà che grazie a tale dibattito. Esso deve permettere a questo universo di riconciliarsi con l´essenza del suo messaggio di giustizia, di uguaglianza e di pluralismo, piuttosto che essere ossessionato dai suoi aspetti più repressivi e più violenti, a causa di frustrazioni mal vissute e/o di sentimenti d´alienazione alimentati dal leitmotiv della dominazione dell´Occidente.
Le condanne unilaterali che si levano in Occidente non aiuteranno a far evolvere le cose. Piuttosto, assistiamo ad un fenomeno esattamente inverso: le popolazioni musulmane si convincono del carattere islamico di queste pratiche proprio a causa delle reazioni di rigetto dell´Occidente verso di esse, in base ad un ragionamento binario e semplicista che sancisce che «meno è occidentale, più è islamico». Bisogna uscire da questa perversione e i governi e gli intellettuali occidentali hanno come maggiore responsabilità proprio quella di permettere al mondo musulmano di impegnarsi serenamente in questo dibattito interno. E´, infatti, urgente che essi pratichino l´esercizio di decentrarsi dal loro universo referenziale: la rivendicazione dell´universale in Occidente non può permettersi di risparmiarsi la comprensione dell´altro, la logica del suo sistema di pensiero e i cammini che lo conducono all´universale comune. Sul piano politico, è imperativo che cessino le denuncie a geometria variabile: sia che si tratti di paesi poveri o ricchi, di paesi alleati o nemici, il rifiuto delle ingiustizie deve compiersi senza alcuna concessione. Il cammino che conduce al dialogo esige da ciascuno un atteggiamento pronto ad interrogarsi sulle proprie certezze, ma anche sulle proprie incoerenze, sia sul piano religioso che politico.
Resi avvertiti dalle informazioni sulla vera identità culturale e politica di Ramadan si è portati a leggere questo abile e suggestivo testo con una legittima sospettosità.
E a notare, per esempio, che in esso l'universalità dei diritti umani è esplicitamante respinta come pretesa egemonica dell'Occidente. E che a quest'ultimo, come a chinque altro, è negato ogni diritto di "interferenza" e di critica dell'islam. Anzi, critiche e interferenze esterne risultano essere, nello schema di Ramadan, le cause degli eccessi del fondamantalismo.
Lasciate che i musulmani decidano da soli che cosa è l'islam, suggerisce l'appello.
Ci si potrebbe chiedere: e quando i musulmani fondamantalisti se la prendono con non musulmani (con gli ebrei di Israele, per esempio, o con i cristiani del sud del Sudan, o con i lavoratori delle Twin Towers a New York) questi acquistano una qualche voce in capitolo?
Ma, poi, siamo sicuri che tutti i musulmani siano d'accordo? Le donne iraniane o saudite, per esempio, chiederanno davvero all'Occidente di astenersi da ogni commento su come i rispettivi governi le trattano, in nome della loro interpretazione dell'islam?


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