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Il Manifesto Rassegna Stampa
30.03.2005 La barriera difensiva israeliana e il "diritto" al terrorismo
l'umanitarismo delle campagne contro il "muro dell'apartheid" svela il suo vero volto

Testata: Il Manifesto
Data: 30 marzo 2005
Pagina: 8
Autore: Michelangelo Cocco - Jamal Juma
Titolo: «Dati e fatti in un convegno a Roma - Palestinesi, oltre il muro vite spezzate - Quando Kofi Annan fa gli interessi di Israele»
IL MANIFESTO di mercoledì 30 marzo 2005 dedica un'intera pagina alla barriera difensiva israeliana in occasione di un convegno su di essa in corso a Roma, così presentato:
La Caritas italiana ha organizzato un seminario che si propone di fornire le informazioni necessarie a comprendere la portata dell'impatto del muro sulla già difficile realtà della Terra Santa. Dalle 9.30 di questa mattina (presso la Casa La Salle, via Aurelia 476, Roma) e fino al pomeriggio si terrà un incontro con una serie di gruppi che lavorano contro il muro che il governo israeliano sta costruendo in Cisgiordania. Interverranno Issa Ghrayeb, della Caritas di Gerusalemme, Antigona Ashkar di B'tselem, Allegra Pacheco, dell'Ocha, Ahmad Maslamani e Maren Karlitzky di Stop the Wall, campagna popolare palestinese contro il muro dell'Apartheid, Ayed Morer e Einat Podjarny di Ta'ayush, partnership arabo-ebraica.
L'ennesimo attacco del quotidiano comunista al diritto di Israele all'autodifesa inizia con un'intervista di Michelangelo Cocco ad Allegra Pacheco, relatrice al convegno e capo per i Territori del servizio informazioni dell'Ocha, l'organismo delle Nazioni unite che coordina gli affari umanitari.

Da tale testo emergono alcuni dati alquanto significativi:
1) secondo l'Ocha la barriera difensiva includerà il 10,1% della Cisgiordania
2) sempre secondo l'Ocha gli israeliani hanno costruito una cinquantina di cancelli per permettere ai palestinesi di raggiungere i campi
3) dopo le modifiche del tracciato "c'è un numero minore di enclaves, la quantità del tracciato che penetra in profondità nella Cisgiordania è stata ridotta"
4) i timori dell'Ocha per le conseguenze "umanitarie" della barriera nascono dal fatto che "solo il 20% del percorso corre lungo la Linea verde (la linea d'armistizio del 1949, ndr), il resto penetra nella Cisgiordania e all'interno di Gerusalemme est", un problema che sembra essere del tutto politico e non umanitario.
5)i problemi umanitari dei palestinesi sono problemi "di accesso", posti sia dalla barriera, che dai posti di blocco, che, infine, da "700 ostacoli fisici", alcuni dei quali sono già stati rimossi in vista dell'evacuazione di quattro insediamenti israeliani.
Come esempio di tali problemi di accesso viene citato questo: ad "Abu Dis, prima della barriera gli abitanti erano a 5 chilometri dai principali ospedali di Gerusalemme, dopo la costruzione sono costretti ad andare a Betlemme, 22 chilometri di distanza".
Il commento ovvio ad affermazioni di questo genere è che, senza terrorismo, i palestinesi non avrebbero alcun problema di accesso: potrebbero muoversi liberamente in Cisgiordania, e anche raggiungere gli ospedali israeliani di Gerusalemme.
Non si capisce quale morale possa imputare agli israeliani l'obbligo di garantire ai palestinesi servizi sociali e benessere economico rendendosi bersagli indifesi del terrorismo, cioè pagando tali servizi e tale benessere con le proprie vite.

Di seguito, il testo dell'intervista:

Relatrice al convegno «Il muro israeliano in Cisgiordania: dati e fatti», Allegra Pacheco nei Territori occupati è capo del servizio informazioni dell'Ocha, l'organismo delle Nazioni unite che coordina gli affari umanitari, distribuendo l'assistenza umanitaria ed effettuando un monitoraggio continuo. Abbiamo parlato con lei degli effetti della barriera, a due anni e mezzo dall'inizio della costruzione.

Secondo il vostro ultimo rapporto, il 10,1% della Cisgiordania sarà «inglobato», ricadrà cioè dalla parte israeliana del muro. Quali sono le aree che verranno sottratte ai palestinesi?

Le principali sono quelle attorno all'insediamento di Gush Etzion (ad ovest di Betlemme), l'area a sud di Hebron, quella di Ma'aleh Adumim ad est di Gerusalemme e una zona a nordest di Ramallah. Si tratta delle aree in cui si sta costruendo ora (209 chilometri di muro, su un totale di 670, sono già stati competati, ndr).

Cosa rappresentano per i palestinesi le aree in cui invece il muro è stato completato?

Nelle zone del nord ci sono alcune tra le zone più fertili della Cisgiordania. La barriera lì sta creando grosse sofferenze per i contadini che per accedere ai propri campi sono costretti ad attraversarla. Gli israeliani hanno costruito un sistema di una cinquantina (di cui più o meno la metà utilizzabili dai palestinesi che si siano preventivamente muniti di un apposito permesso rilasciato dalle autorità occupanti, ndr) di cancelli per permettere di raggiungere i campi, ma questi ingressi non funzionano in modo sufficiente ad alleviare le sofferenze arrecate dalla barriera. Anche la Corte suprema ha stabilito che non rappresentano una misura sufficiente ad alleviare le sofferenze dei contadini.

Dei cancelli per accedere ai propri terreni. I palestinesi possono varcarli quando vogliono?

No, sul nostro sito internet (www.humanitarianinfo.org/opt/) c'è un elenco con gli orari in cui vengono aperti. Ogni varco osserva in genere un orario diverso, ma non sono aperti 24 ore al giorno e gli agricoltori non possono accedere regolarmente alle terre.

Cosa è il muro dal punto di vista umanitario?

La barriera rappresenta solo uno dei tanti problemi d'accesso che hanno i palestinesi dei Territori occupati. E per noi la mancanza d'accesso è la causa principale di crisi umanitarie. Accesso al sistema sanitario, accesso all'educazione, accesso all'occupazione, accesso ai sistemi di relazioni sociali. La barriera è solo l'ultima di una serie di politiche adottate dal governo israeliano per limitare l'accesso (ai palestinesi, ndr). L'hanno varata come misura di sicurezza per proteggere i propri cittadini, ma l'impatto umanitario sui palestinesi è enorme. L'Ocha è arrivata nei Territori occupati quando è iniziato il sistema di chiusure interne che ha dato il via alle crescenti domande di aiuti umanitari della popolazione. La barriera è giunta come ultimo tassello di questo sistema.

Qualche esempio?

Prendiamo la situazione di Abu Dis, prima della barriera gli abitanti erano a 5 chilometri dai principali ospedali di Gerusalemme, dopo la costruzione sono costretti ad andare a Betlemme, 22 chilometri di distanza. Ma 49.000 palestinesi della Cisgiordania e un numero imprecisato di Gerusalemme saranno danneggiati, quando sarà completato il percorso.

Immaginiamo che il governo israeliano domani rimuova una gran quantità di check point in Cisgiordania. Cosa succederebbe?

Noi abbiamo registrato, oltre ai checkpoint veri e propri, 700 ostacoli fisici allo spostamento della popolazione e finora ne sono stati rimossi solo alcuni nel nord, dove dovrebbe avvenire l'evacuazione di quattro colonie. La Banca Mondiale è stata chiara: senza la rimozione di questi ostacoli si potranno spendere milioni di dollari in aiuti, ma saranno soldi sprecati.

Sono passati due anni e mezzo dall'inizio della costruzione del muro e il suo tracciato è stato modificato più volte. Cosa pensa sia cambiato per i palestinesi?

La differenza tra il tracciato attuale e quello originario è che ora c'è un numero minore di enclaves, la quantità di tracciato che penetra in profondità nella Cisgiordania è stata ridotta. Si tratta di due cambiamenti sginificativi che riducono la sofferenza dei palestinesi. Ma siamo sempre preoccupati per il fatto che, se verrà completato il tracciato previsto, ciò avrà un impatto umanitario su una gran quantità di persone (palestinesi, ndr). I nostri timori nascono dal fatto che solo il 20% del percorso corre lungo la Linea verde (la linea d'armistizio del 1949, ndr), il resto penetra nella Cisgiordania e all'interno di Gerusalemme est.
A chiarire le idee sui confusi presupposti etici e politici della battaglia contro il "muro dell'apartheid" interviene un articolo di Jamal Juma, "Coordinatore dell'Anti-apartheid Wall Campaign".
Juma pecca per qualche esagerazione propagandistica: per lui la barriera "annette" il 47% della Cisgiordania, non il 10,1% come secondo l'Onu. Per il resto, le sue parole hanno il duplice pregio della chiarezza e della veridicità.
Spiega, intanto, che il problema della barriera non è, per gli attivisti della campagna contro il "muro", di natura "umanitaria", definirlo in tali termini è anzi secondo loro un modo di favorire gli interessi israeliani.
La barriera non deve essere costruita, punto e basta. Qualsiasi tentativo di alleviare i disagi che essa provoca alla popolazione palestinese deve essere rifiutato, in quanto rende più difficile conseguire questo obiettivo.
Inoltre, chiarisce Juma, la condanna della Corte internazionale dell'Aja e degli attivisti che ad essa si richiamano non riguarda affatto, come penserebbero europei e americani, un tracciato che supera la linea verde, ma "il muro in sè".
Su quali fondamenti si debba, secondo Juma, basare questa condanna è poi chiarito dal suo giudizio sull'accordo di Sharm el Sheik.
Scrive il militante "antirazzista" : "La retorica della «calma» e del «cessate-il-fuoco» (che parte dall'assunto che i palestinesi e gli israeliani sono in guerra e non che i palestinesi si trovano sotto occupazione), che non considera minimamente la questione del muro e della costruzione delle colonie come parte della violenza israeliana, è semplicemente senza senso".
Il fondamento della condanna della barriera difensiva risiede dunque semplicemente in questo: essa lede il "diritto" dei terroristi di ammazzare gli israeliani ( e, d'altro canto, finisce per rendere tale "diritto" moralmente più cogente, perché, nonostante la sua finalità evidentemente difensiva, è classificata come l'ennesima "aggressione" israeliana) .
Tale "diritto" è l'unico che Juma e organizzazioni come la sua siano realmente interessati a garantire alla popolazione palestinese, che certo avrebbe bisogno di tutt’ altro.

Ecco il testo:

In seguito all'escalation della resistenza popolare contro l'occupazione israeliana e il muro dell'apartheid, che ha finito per coinvolgere tutta la Cisgiordania - culminando nella manifestazione che si è tenuta a Ramallah il 14 marzo scorso - non si può non notare una semplice evidenza: la lotta dei palestinesi si è intensificata come risposta a una serie di sviluppi politici, il cui obiettivo è quello di rendere il popolo palestinese testimone passivo della colonizzazione razzista cui è sottoposto. Questi sviluppi sono: la conferenza di Sharm al-Sheikh; l'annuncio da parte delle Forze d'occupazione che apporteranno «modifiche» al muro dell'apartheid; la conferenza di Londra e il sempre più evidente atteggiamento delle Nazioni unite, che ha scelto di trattare il muro come un problema di carattere «umanitario». Non c'è alcuna casualità in questa serie di eventi. Per capire perché la lotta si è intensificata, bisogna considerare i mutamenti recenti del discorso e degli sviluppi politici. Ossia, il tentativo di soffocare l'oppozione palestinese al muro e di adattare la sua «normalizzazione» alla demografia della Cisgiordania.



Il silenzio dell'Anp

La questione del muro non è stata minimamente presa in considerazione agli incontri di Sharm al-Sheikh ed è comparsa di sfuggita solo in un comunicato congiunto sottoforma di «questione controversa». Inoltre, la conferenza sottolineava la necessità di un periodo di «calma» nelle attività della resistenza palestinese. Ciò doveva accadere nello stesso momento in cui Israele continuava a espandere il muro e gli insediamenti. In effetti, le Forze d'occupazione hanno approfittato dello stato di impasse de facto per avviare la «terza fase» del muro, che è cominciata a sud nel novembre 2004.

La retorica della «calma» e del «cessate-il-fuoco» (che parte dall'assunto che i palestinesi e gli israeliani sono in guerra e non che i palestinesi si trovano sotto occupazione), che non considera minimamente la questione del muro e della costruzione delle colonie come parte della violenza israeliana, è semplicemente senza senso. L'implementazione del verdetto della Corte internazionale di giustizia (Cij) - per lo smantellamento del muro - non è una questione controversa o negoziabile, ma è un fondamento del diritto internazionale.

Nel contestare il verdetto della Cij, e nell'accogliere in parte il desiderio di Europa e Stati uniti di vedere una ridefinizione del tracciato del muro, il governo d'occupazione ha annunciato una «modifica» del piano. Se in singoli villaggi sono stati apportati dei cambiamenti, il muro e il suo circuito di insediamenti ebraici, con le strade di aggiramento e le aree militari, continua come prima, portando a un'annessione del 47 per cento della Cisgiordania. Lascerà i palestinesi in ghetti o semi-ghetti, uniti tra loro da gallerie e ponti sotto controllo militare.

E' ormai passato più di un anno dalle sessione inaugurale della Cij, e più di 8 mesi dalla pubblicazione del suo verdetto, secondo cui il muro deve essere interrotto e smantellato. Se era del tutto prevedibile che Israele avrebbe respinto la decisione (lo stato ebraico non ha mai tollerato il diritto internazionale), è stato più sorprendente vedere scomparire dal discorso ufficiale dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) il richiamo all'implementazione della decisione. Il Muro è finito sullo sfondo, come se fosse un semplice miraggio della coscienza palestinese. Per europei e americani, in discussione non vi era il muro in sé, ma il suo tracciato. Così, la decisione della Cij sembra essere stata annullata da tutte le parti, eccetto che dai palestinesi comuni (ossia da coloro che ne subiscono le conseguenze), che stanno sfruttando ogni occasione per appellarsi al rispetto del diritto internazionale e alla piena implementazione della decisione della Cij.

Il processo di «normalizzazione» del muro dell'apartheid - in spregio al diritto internazionale - si fa sempre più evidente all'interno delle Nazioni unite, che preferiscono trattarlo come una questione di carattere «umanitario» e non politico. Visitando la Cisgiordania, il segretario generale Kofi Annan ha ribadito i precedenti annunci dell'Onu della creazione di un ufficio indennizzi per quanti sono stati danneggiati dal muro. Questa mossa appare assai allarmante in un contesto in cui la Nazioni unite hanno ritirato ogni pressione su Israele per bloccare il muro. Le Nazioni unite cercano forse di dare ai palestinesi soldi al posto del rispetto del diritto internazionale? Inoltre, tutti i rapporti e le dichiarazioni dei funzionari Onu sottolineano le implicazioni di carattere umanitario, ignorando la questione centrale dell'esistenza stessa del muro, e legittimandone di fatto l'esistenza.



Gli spiccioli di Londra

La svendita del popolo, della terra e della lotta palestinese ha avuto un concreto inizio alla Conferenza tenutasi a Londra il mese scorso. I ministri degli esteri, la Banca mondiale, e Annan si sono incontrati con l'Anp per parlare di «riforme interne», di «questioni di sicurezza» e, soprattutto, di soldi. All'Autorità nazionale palestinese sono stati promessi più di 1,2 miliardi di dollari. Una cifra di poco superiore al minimo indispensabile (900 milioni di dollari), secondo i calcoli pubblicati dalla Banca mondiale nel suo rapporto del dicembre 2004, che appariva una sorta di vademecum su come amministrare un popolo intero in una prigione a cielo aperto. Tuttavia, nonostante i calcoli meticolosi dei maggiori esperti finanziari del mondo, e la «generosità» dei donatori, i palestinesi non sono disposti a mettere in vendita la proprie terre e le proprie esistenze.

La terza fase del muro ha portato a nuove costruzioni e a nuova confische di terre a Hebron, Yatta e a Gerusalemme, e ha spinto i residenti alla lotta attiva contro questo progetto.

La manifestazione del 14 marzo, organizzata dalla Anti-Apartheid Wall Campaign, è stata il culmine di un «mese di mobilitazione permanente». L'enorme quantità di gente venuta al corteo è un segno tangibile del movimento popolare contro il muro.

E' significativo che in questo frangente, la parte del leone della rabbia popolare è stata riservata a Kofi Annan e agli uffici delle Nazioni unite presenti in Palestina. Annan non ha mai pronunciato una singola parola sulla necessità di rispettare il diritto internazionale, e la sua insistenza sull'ufficio indennizzi suggerisce che la questione è di carattere umanitario e può essere risolta con una manciata di dollari. Inoltre, il recente rapporto dell'Ocha (Ufficio di coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni unite) giungeva alle stesse conclusioni. L'incapacità di trattare il muro dell'apartheid come una questione politica è una novità assai disturbante all'interno dell'Onu.

Le dichiarazioni di Annan e delle Nazioni unite sono in linea con la retorica dei responsabili israeliani. Anche loro considerano la questione come un problema «umanitario», e mostrano la volontà di trattarlo in quanto tale. Anche loro agiscono in contrasto con il verdetto della Cij, come fanno Annan e il rapporto Onu. Siamo quindi portati a domandarci: qual è esattamente il compito del segretario generale dell'Onu? Deve adottare le decisioni dell'Onu alla posizione israelo-americana oppure deve facilitare l'implementazione del diritto internazionale e sostenere il popolo palestinese nella sua legittima lotta per la giustizia, la sovranità e la libertà?
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