La svolta politica e ideologica di Ariel Sharon analizzata da Emanuele Ottolenghi
Testata: Il Foglio Data: 30 marzo 2005 Pagina: 1 Autore: Emanuele Ottolenghi Titolo: «La Bolognina di Arik»
La politica di Ariel Sharon costituisce una rottura storica con i fondamenti ideologici del sionismo "revisionista". Emanuele Ottolenghi sul FOGLIO di mercoledì 3 marzo 2005 analizza la svolta politica del premier israeliano e prefigura gli scenari aperti dalla spaccatura del Likud, giudicata ormai inevitabile. Ecco il testo: Washington. Con una comoda maggioranza di 72 a 39, Ariel Sharon ha eliminato l’ultimo ostacolo istituzionale all’attuazione del suo piano di disimpegno da Gaza. Dietro i tecnicismi del voto di lunedì alla Knesset, il Parlamento israeliano, che ha bocciato la proposta di legge per il referendum, emerge una vittoria importante per Sharon, che fa del 28 marzo un giorno storico per Israele: ottenuto il sostegno di Shinui per far passare il bilancio e superato l’inciampo del referendum, ora Sharon può attuare il disimpegno da Gaza nei tempi prestabiliti, cioè tra luglio e agosto 2005. Ma l’importanza storica dell’evento – l’inizio del ritiro israeliano dai territori e l’evacuazione di 25 insediamenti da Gaza e Cisgiordania settentrionale – oscura a sua volta un altro fatto: la trasformazione politica della destra israeliana e del Likud, sotto la guida di Sharon, in una forza politica centrista, e l’inevitabile spaccatura che tale svolta comporterà a destra dello schieramento politico. In termini di paragone, quanto Sharon ha fatto negli ultimi mesi è paragonabile alla svolta di Fiuggi per la destra italiana o la metamorfosi del Pci nella Cosa e poi nel Pds al congresso di Bologna del 1990. In entrambi i casi, il costo della metamorfosi fu una scissione: i meno propensi a riconoscere gli errori dell’ideologia di riferimento del partito nel passato e la necessità di adattare politiche e slogan alla realtà scelsero la strada del separatismo politico: Fausto Bertinotti e Armando Cossutta a sinistra, Pino Rauti a destra. In un caso, a sinistra, la scissione ha ipotecato la capacità della sinistra di governare con coerenza, causa il potenziale di ricatto di Rifondazione sulle coalizioni di centrosinistra, mentre nel secondo caso, la scissione, emarginando gli elementi più discussi del vecchio Movimento sociale, ha facilitato il percorso di Gianfranco Fini verso la rispettabilità politica e ha rafforzato la capacità della destra di governare con una solida maggioranza. La svolta di Sharon, con tutte le differenze e i distinguo necessari, comporta un simile parallelo. Il successo politico del vecchio premier, che è riuscito a superare un ostacolo dopo l’altro in Parlamento e nel suo partito, apre ora la strada a un gesto politico rivoluzionario, che simboleggia l’abbandono dell’ideologia che legava la destra all’ambizione territoriale della Grande Israele. I revisionisti sionisti, precursori del Likud fondato nel 1973, sostenevano negli anni Venti la visione territoriale che includeva le due rive del Giordano sotto sovranità ebraica, visione che li aveva fatti gridare al tradimento quando nel 1921 l’Inghilterra separò la Transgiordania dal Mandato palestinese per soddisfare le mire dinastiche della famiglia hashemita. Il sogno delle due rive del Giordano riecheggia ancora nell’inno del partito, il cui ritornello evoca il fiume e la sua riva orientale, ma quel sogno fu definitivamente abbandonato con il voto favorevole del Likud alla pace con la Giordania nel 1994. Rimaneva naturalmente la speranza di impedire che il processo di Oslo comportasse una devoluzione dei territori di Cisgiordania e Gaza a un futuro Stato palestinese, ma anche questo tabù ora è stato infranto da Sharon, il cui percorso politico degli ultimi tre anni ha portato all’accoglimento dell’aspirazione indipendente e statuale dei palestinesi, al riconoscimento del principio dei due Stati, all’accettazione di confini che frustrano l’ambizione territoriale della Grande Israele e alla rinuncia a parte degli insediamenti che quella visione dovevano concretizzare. Ora che la strada è aperta al disimpegno, il premier Ariel Sharon dovrà fare i conti con due sfide: innanzitutto dovrà offrire ripetute garanzie della natura genuina del cambiamento, alla comunità internazionale piuttosto che a un pubblico che quel cambiamento ha riconosciuto e largamente votato. Eppoi dovrà fare i conti con le inevitabili scissioni delle ali più estreme, più intransigenti e meno realistiche della destra. Parte di esse si erano già staccate dal partito in passato, parte lo faranno probabilmente nei mesi a venire. Dipenderà da Sharon se la sua convergenza politica verso il centro riuscirà a neutralizzare i transfughi o se invece la destra nazionalista sarà abbastanza forte, com’è il caso di Rifondazione comunista in Italia, da poter fungere da costante ricatto politico all’ala riformista di Sharon che ha attuato la svolta. Esiste però un’altra differenza, che rende il voto di lunedì ancora più importante. La destra antidisimpegno ha perduto la sua ultima battaglia parlamentare con la sconfitta dell’idea del referendum in Parlamento lunedì. Ora gli estremisti condurranno la loro difesa a oltranza della loro sconfitta ideologia per le strade. E questa, per il nuovo corso pragmatico di Sharon, sarà ora la sfida più difficile. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. 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