I muri del mondo, la ritrovata libertà dei cristiani iracheni sul quotidiano cattolico cronache al di là degli stereotipi
Testata: Avvenire Data: 29 marzo 2005 Pagina: 3 Autore: Giuseppe Caffulli - Luca Geronico Titolo: «Il «muro» africano - Dal dolore alla festa. La "vita nuova" dei cristiani in Iraq»
AVVENIRE di martedì 29 marzo 2005 pubblica un articolo di Giuseppe Caffulli sul muro che separa Botswana e Zimbabwe. Per una volta si scrive di uno degli innumerevoli muri disseminati per il mondo, che, non essendo israeliani, generalmente non suscitano l'attenzione dei media. A fianco dell'articolo un prospetto cita le barriere di Israele, Stati Uniti (al confine con il Messico), Cipro, due Coree, Kashmir e Ceuta (enclave spagnola in Marocco). Abbastanza corretta la presentazione della barriera difensiva israeliana, pur definita, in modo impreciso, "muro" : "Il muro di sicurezza tra Israele e i Territori palestinesi taglia villaggi ha reso la vita difficile agli arabi. Gli attentati sono però diminuiti".
Ecco il testo: Cinquecento chilometri di reti metalliche e fili elettrici che risplendono sotto il sole della savana africana, un lungo serpente argentato che separa villaggi, supera fiumi e taglia in due sentieri battuti per millenni dai cacciatori e dalle mandrie. Una barriera solo all'apparenza fragile, in balia della furia degli animali della brousse: è infatti percorsa da energia elettrica ad alto voltaggio. Una minaccia costante e letale per la povera gazzella che tentasse di superarla come per i tanti immigrati illegali - cinquecento al giorno - in cerca di un futuro migliore. Siamo al confine tra Botswana e Zimbabwe, Africa del Sud. Da una parte una piccola nazione di neppure due milioni di abitanti con uno dei redditi più alti dell'Africa (dalle miniere del Botswana viene estratto il 30 per cento di tutti i diamanti del pianeta); dall'altra un Paese povero, allo sbando, dove - dicono le statistiche - un quarto dei quasi 13 milioni di abitanti sarebbe pronto a lasciare casa e a partire immediatamente. Meta preferita: il Botswana. Già centomila immigrati zimbabweani, in massima parte uomini, si trovano oltre confine; 2.500 immigrati illegali vengono espulsi ogni mese dal governo di Gaborone, mentre le carceri scoppiano di detenuti accusati dei più diversi reati. Intanto nel Botswana, sull'onda della crescente pressione immigratoria, nascono sentimenti xenofobi: i makwerekwere, gli stranieri, sono accusati di rubare i bambini, insidiare le donne e accaparrarsi la terra. Poco importa se la realtà è diversa: anche in Africa gli immigrati devono accontentarsi dei lavori più umili e occupare il gradino più basso della scala sociale. La costruzione della barriera di sicurezza che segna ormai larga parte del confine con lo Zimbabwue è un'idea vecchia. Comincia negli anni Cinquanta e prosegue nella seconda metà degli anni Settanta, con l'indipendenza dalla Gran Bretagna. Nel tentativo di trovare un'alternativa all'estrazione e al commercio dei diamanti, il governo di Gaborone ince ntiva l'allevamento di bestiame ed erige i primi lunghi tratti di barriera per evitare gli sconfinamenti e proteggere le mandrie dai predatori. Nell'ultimo anno si è però intensificata la costruzione della barriera elettrificata che ha raggiunto i 500 chilometri di lunghezza. E non sembra finita. Secondo quanto riportato dall'agenzia Peacereporter, un finanziamento allo sviluppo concesso dall'Unione europea al Botswana (34 milioni di euro) andrà a pagare altre centinaia di chilometri di barriera. Sarà un caso, ma il Paese africano è tra i principali esportatori di carne di manzo in Europa. La vicenda del muro elettrificato ha comprensibilmente deteriorato i rapporti tra Harare e Gaborone. Il governo Mugabe (peraltro poco credibile sul fronte dei diritti umani) accusa i vicini, senza mezzi termini, di aver realizzato «la versione africana del muro di sicurezza d'Israele» e «tante piccole strisce di Gaza»: villaggi appartenenti alle comunità San ed Herero tagliati in due o privati delle vie d'accesso all'acqua. Il che innesca a ripetizione vere e sanguinose guerriglie: da una parte, gli abitanti dei villaggi che tentano di rimuovere quella innaturale separazione; dall'altra, la polizia e l'esercito del Botswana impegnato a far rispettare la struttura e la demarcazione del confine. Per gli attivisti dei diritti umani si tratta di una separazione inaccettabile e di un'anacronistica riedizione dell'apartheid; per gli ecologisti di una bizzarra e quanto mai dannosa invenzione. Mentre in diversi Paesi dell'Africa si sta lavorando per creare parchi trasnazionali, nel Delta dell'Okawango, una delle aree più ricche di fauna, si erige una barriere che impedisce il libero movimento e la riproduzione degli animali, con conseguenze notevoli per l'ambiente e la sopravvivenza delle specie selvatiche. Alle accuse lanciate da oltreconfine, il governo di Gaborone risponde smentendo seccamente ogni volontà di ledere i diritti umani e di limitare la circolazione dei lavoratori. «Abbiam o molti uffici di confine con sportelli per chi chiede un permesso di soggiorno per lavorare», spiega il portavoce del ministro degli Esteri Clifford Maribe. «La barriera serve solo per salvaguardare le mandrie e per evitare contatti con il bestiame non controllato». Un anno fa una malattia ha costretto gli allevatori ad abbattere quasi quattromila capi di bestiame. C'è però chi ritiene che il motivo vero (e inconfessato) della barriera di sicurezza abbia un solo nome: Aids. Circa la metà degli immigrati dallo Zimbabwue in Botswana ha contratto la malattia o è sieropositivo. Oltre a costituire una minaccia per la popolazione locale, l'assistenza sanitaria a un numero sempre crescente di immigrati ammalati costituirebbe per il Paese un grave problema economico. La prevenzione e la cura della pandemia che sta mietendo milioni di vittime in tutto il continente prosciugherebbero in breve tempo i proventi del commercio di diamanti e della zootecnia. Interessante anche un articolo di Luca Geronico sulla comunità cristiana irachena che, al pari delle altre comunità religiose ed etniche del paese ha ritrovato la libertà dopo la caduta del regime di Saddam Hussein.
Ecco il testo: «Msciho qom». «Sciariroith qom!». L'antico saluto aramaico - «Cristo è risorto» a cui si risponde «È veramente risorto» - è risuonato ancora una volta domenica di Pasqua nelle case dei cristiani dell'Iraq. Riuniti nei loro salotti hanno mangiato cous cous con mandorle e pollo, e la kulece, il tipico dolce di Pasqua farcito di datteri e noci. Una festa semplice e sentita, un giorno di riposo mente i politici trattano per il nuovo governo, si spera migliore. Anche quest'anno Talal, nel suo villaggio nella campagna intorno a Mosul, ha riunito i suoi sette figli le sere della settimana santa. Insegnante di 45 anni, è pure da lungo tempo un attivo catechista: naturale per lui in quaresima leggere e commentare un brano della Passione con la sua famiglia. La Resurrezione, il significato della sofferenza, il mistero della croce da "portare ogni giorno", come dice la Scrittura. Semplice, come le domande che poi fanno i bambini. Emmanuel, 10 anni, nato durante l'embargo: «Papà, ma qual è stata la tua croce da portare?». Un momento di esitazione, per trovare le parole giuste: «Tu non eri ancora nato: prima c'è stata la guerra con l'Iran, poi la guerra contro gli americani, la prima guerra del Golfo. Ho dovuto combattere anch'io. Vedi Jasmina, la mamma di Joseph, il tuo amico? È in quella guerra che Joseph ha perso il papà». La morte e poi - sempre seguendo il Vangelo - la vita nuova: «La Pasqua è la liberazione dalla tomba, come è stato per Gesù che ha lasciato il sepolcro vuoto». La spiegazione prosegue sotto il portico, e forse solo i fratelli maggiori capiscono bene quello che sta spiegando il papà catechista. «Ma cosa significa vita nuova, papà?» Un altro attimo di esitazione, per cercare le parole adatte a un bambino di 10 anni: «Adesso tu poi vedere con la tv satellitare cento canali diversi. Fino a tre anni fa c'era un canale solo che mandava sempre in onda la vita del presidente Saddam Husseim. Adesso noi possiamo andare per strada e parlare liberamente. Prima avevamo tutti paura di esprimere le nostre idee. Prima il presidente ci ordinava di andare in guerra e nemmeno sapevamo il perché. Adesso nessuno ci obbliga ad andare in guerra». «Ma adesso - domanda Emmanuel - ci sono ancora i morti, lo dice sempre la nuova televisione. Come mai ci sono i terroristi?». Non tutti, spiega Talal, amano la vita nuova, amano la gioia. «Vedi, anche Gesù è stato rinchiuso dentro una tomba, ma poi con la sua forza e la sua gioia è riuscito a rimuovere la pietra d'ingresso ed è andato incontro alla vita nuova. Come adesso cerchiamo di fare anche noi». Una catechesi di Pasqua ai bambini rubata dal portico di una casa nella campagna di Mosul, la culla del cristianesimo iracheno. Per quest'anno su tutte le tavole c'era la frutta: il commercio è in ripresa e gli stipendi dei dipendenti statali consentono una vita per lo meno dignitosa. Certo, ricorda qualcuno, dieci anni fa non c'era problemi di ordine pubblico: le processioni per la domenica delle Palme erano per le strade e non dentro i cortili delle parrocchie. «Vedi Emmanuel - spiega ancora Talal - anche Israele ha camminato quarant'anni nel deserto per arrivare alla terra promessa. E noi pure siamo in cammino». «Msciho qom!». «Sciariroith qom!» «Cristo è risorto! È veramente risorto!» Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione di Avvenire. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.