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Informazione Corretta Rassegna Stampa
29.03.2005 Israele-Irlanda: cronache corrette e scorrette di una partita di calcio e di un gol
rassegna di quotidiani

Testata:Informazione Corretta
Autore: la redazione
Titolo: «Israele-Irlanda: cronache corrette e scorrette di una partita di calcio e di un gol»
La partita tra Israele e Irlanda è finita con un pareggio, non con una vittoria di Israele, come abbiamo erroneamente scritto il 27-03-05 ("Un tg di propaganda, quello di Rai 3").

Su di essa i giornali di martedì 29 marzo 2005 sono ricchi di cronache e commenti, non sempre corretti.

Incominciamo la nostra rassegna in merito dal SOLE 24 ORE che pubblica in prima pagina un articolo di Ugo Tramballi: "Un palestinese salva il calcio israeliano", nel quale leggiamo:

Nell'ultima amichevole della nazionale con la Croazia le cose non erano andate molto bene ad Abbas Suan. Il pubblico lo aveva fischiato tutto il tempo in cui era rimasto in campo: i soliti buuh e i cori anti-arabi. I tifosi del Betar, a Gerusalemme sono famosi come quelli della Lazio: alla curva Monte Mario non amano gli ebrei, al Betar gli arabi. Tutto il mondo è paese.
Valgono su questo brano le considerazioni di Deborah Fait ("Israele e lo sport", Informazione Corretta 29-03-05): una parte dei tifosi israeliani viene arbitrariamente confusa con la totalità del pubblico, o con la totalità dei tifosi di una squadra. Il paragone con la "curva Monte Mario" domostra inoltre che, anche in questo caso, non si è tenuto minimamente in considerazione il fatto che Israele è in guerra e che alcuni arabo-israeliani hanno collaborato con il terrorismo.
Il che certamente non giustifica gli insulti a Suan.
Il contesto in cui essi sono stati pronunciati è però molto diverso da quello in cui gli ultrà laziali pronunciano insulti antisemiti.

Poco dopo, descrivendo l'ingresso in campo di Suan, per sostituzione su Amir Golan, Tramaballi commenta: "nessuno fischia perchè Golan stava giocando male", con l'implicita e ingiustificata insinuazione che, in caso contrario, anche in questo caso i fischi ci sarebbero stati.

Tramballi non si limità, però, alle considerazioni sulla "discriminazione" contro Suan. Alla fine del suo articolo inserisce una considerazione assolutamante non pertinente:

Un calciatore arabo può provare che il problema demografico -la possibilità che un giorno in Israele i palestinesi sopravanzino gli ebrei - non è un incubo; che quello scontro velenoso di fede, terra e patria, può essere portato alla normalità con un gol da fuori area.
E' evidente che "un gol da fuori area", per quanto possa costituire un segno di speranza, non può risolvere complessi problemi politici e storici e anche Tramballi deve infine ammetterlo scrivendo:
Le belle storie non fanno mai la Storia, però aiutano a costruire finali decenti.
Il "finale decente" prospettato da Tramballi conserva però tutti i suoi tratti inquietanti.
Uno stato di Israele a maggioranza araba cesserebbe si essere lo Stato degli ebrei. Certamente verrebbe meno il diritto al ritorno: Israele non sarebbe più un rifugio sicuro per gli ebrei del mondo.
E fino a quando gli ebrei conserverebbero la cittadinanza e i diritti di cui non godono in nessuno Stato arabo? E cosa accadrebbe se la maggioranza, oltre che araba, fosse islamica?

No davvero, gli scenari aperti dalla prospettiva del "sorpasso" demografico arabo non sembrano poter essere resi meno pericolosi e gravi da una partita di calcio.

Si noti infine come Tramballi riduca i termini del problema a uno "scontro velenoso di fede, terra e patria" da portare alla normalità.
E' implicito il suggerimento che quella ebraica sia un'identità esclusivamente religiosa, per cui il conflitto israelo-palestinese avrebbe le sue radici nell'indebito tentativo di trasformare una "fede" in una "patria".
Una posizione che conduce alla negazione del diritto all'autodeterminazione del popolo ebraico.

Anche IL GIORNALE, in un articolo di Gian Piero Scevola a pagina 32 presenta in modo distorto la vicenda di Abbas Suan, mettendo in relazione i fischi e gli insulti da lui subiti ad opera di una parte della tifoseria israeliana con gli omaggi che gli sono tributati oggi.
Come se l'intero Israele fosse responsabile degli uni e degli altri, dando così prova di razzismo e ipocrisia.
Soltanto un inciso ci informa che è solo "una parte" della tifoseria di Gerusalemme ad essere responsabile della contestazione.

Scrive Scevola:

E pensare che che Suan, entrato al 74' al posto di Amir Golan era stato oggetto appena poche settimane fa di una serie di epiteti razziali che i tifosi del Betar-Jerusalem gli avevano rivolto quando si era presentao con la sua squadra, il Bney Shaknin, l'unico team di calcio arabi presente nella serie A israeliana. Fischi e insulti ripetuti anche nell'amichevole Israele-Croazia da parte della tifoseria di Gerusalemme, già distintasi in passato per il becero nazionalismo di una parte delle sue tribune, che non sopportava che un arabo vestisse i colori della nazionale.
Critica analoga può essere rivolta al GIORNO. Alessandro Fiesoli scrive a pagina 18, nell'articolo "Il gol della pace di Sowan, arabo in maglia israeliana":
Sowan ha scritto la sua pagina di storia, dopo essere stato insultato e fischiato non più tardi di due mesi fa allo stadio di Gerusalemme, nell'amichevole con la Croazia, proprio per il fatto di essere arabo.
Anche la REPUBBLICA non distingue tra frange ultrà e normali tifosi israeliani. Nell'articolo "Suan, il centravanti arabo ha salvato la nazionale d'Israele", Mattia Chiusano scrive:
Nessuno infatti aveva dimenticato la vergogna di un mese prima quando durante l'amichevole con la Croazia, giocata appunto a Gerusalemme, Abbas era entrato in campo ede era stato coperto di fischi e insulti. "Morte agli arabi" è un ritornello che talvolta si sente durante le partite di campionato, ma non si era mai sentito per un giocatore della nazionale.
Il CORRIERE DELLA SERA pubblica a pagina 8 un corretto articolo di Mara Gergolet, "Ebrei e palestinesi. Stesso gol, stessa canzone".
GERUSALEMME — Questo è un gol che si sogna una vita. Quello che arriva al 91', il pallone che parte come una rasoiata secca dal vertice dell'area, l'angolo destro della rete che si gonfia, il portiere per terra, l'ultima azione, l'ultimo tiro, una Nazione ai tuoi piedi e nelle tue orecchie. Non capita quasi mai a un mediano, a un proletario del pallone ( 30 mila dollari a stagione), di trasformarsi in salvatore della patria. Non era mai capitato prima, a un arabo, di salvare la nazionale d'Israele.
Israele Eire: 1 1, l'irlandese Gershon al 4', Suwan Abbas al 91'. « Sì, è stato commovente sentire 40 mila persone nello stadio invocare il mio nome. Il gol è dedicato a tutti quanti in Israele: basta parlare di arabi e ebrei, siamo tutti un popolo solo » . Questa la dedica di Suwan Abbas, riserva ( e unico arabo) sabato sera per 74 minuti, « eroe d'Israele » domenica sulla copertina di Yedioth Ahronoth .
Altra scena, domenica di Pasqua. Accendi la radio e ti sintonizzi prima sul canale dell'esercito d'Israele, poi su Voice of Palestine .
In onda, alle dieci, la stessa canzone: Nel mio cuore , la strofa in arabo a seguire quella in ebraico. La cantano David Broza, israeliano, una decina di album folk in repertorio, e Wisam Murad, palestinese, una band ( Sabreen) insieme ai fratelli per cantare la vita sotto occupazione. L'hanno scritta, incontrandosi a Gerusalemme in una serie di sessioni, David e il fratello di Murad, Said. « Speriamo — dicono ai microfoni — che possa avvicinare le due nostre comunità » .
Una canzone per unire due popoli divisi da uno steccato ( gli israeliani e i palestinesi di Gaza e Cisgiordania). Un gol che vale molto più di una possibile qualificazione ai mondiali ( Israele è nel gruppo 4: 9 punti, come Francia e Irlanda): perché porta con sé l'orgoglio e il riscatto, di Abbas e degli arabi d'Israele; ma anche il mito dell'integrazione possibile tra i 5 milioni di ebrei e gli 1,2 milioni gli arabi che condividono lo stesso Stato, lo stesso passaporto ( a differenza dei palestinesi, che non ne hanno) — ma che vivono separati e, in fondo, non si conoscono.
Abbas fino a sabato era già un simbolo, ma solo per una parte d'Israele: 29 anni, una vita da « capitano » nello Sakhnin, che non è una squadra, ma la squadra di calcio degli arabi dello Stato ebraico.
Di proprietà della municipalità ( 30 mila abitanti, quasi tutti arabi), un campo dagli spalti bassi e scalcinati, l'odore dei fertilizzanti dai vicini terreni arati: proprio lì, nel 1976, la polizia uccise durante gli scontri sei dimostranti arabi.
Eppure, lo Sakhnin è anche la prima squadra araba che ha vinto la Coppa d'Israele. Un anno fa, a maggio. Ed è stato Suwan il « capitano » , a ricevere dal presidente della Repubblica Moshe Katzav, la coppa e alzarla al cielo. Sharon telefonò per complimentarsi. Quella sera 30 mila arabi d'Israele riempirono le strade: « E' la prima volta dal 1948 ( l'anno di nascita di Israele, ndr ) che tanti arabi scendono in piazza per festeggiare e non per protestare » .
A portare quella coppa furono i gol di Lion Assulin, ebreo, e Gavriel Lima, brasiliano mignon. Perché lo Sakhnin è anche questo: di proprietà degli arabi, ma con una formazione multicolor, tre africani, un brasiliano, un ungherese, sei ebrei ( più l'allenatore), modello Ajax in Medio Oriente. « Vuoi vedere la pace? — dice Avi Danan, difensore ebreo — . Vieni al nostro allenamento » . E le differenze? « E' normale essere amici. Certo, a volte parliamo di politica, quando scoppia un autobus o vengono uccisi i bambini palestinesi a Gaza.
Poi però Abbas va in moschea e io in sinagoga, e preghiamo lo stesso Dio di vincere » . Un gol che è una rivincita, per Abbas. Domenica, a Gerusalemme, i tifosi razzisti del Betar Jerusalem lo hanno fischiato: perché arabo. Una settimana più tardi li ha costretti ad applaudirlo. Il calcio che arriva dove il resto si ferma: nella nazionale israeliana femminile under 18 , la più brava è una ragazzina araba, un talento mondiale, Reem Musa, 14 anni: « Il calcio — dice — mi ha dato delle splendide amiche ebree » . Funziona come collante tra ebrei e i palestinesi « veri » dei Territori: c'è una squadra di Betlemme, Cisgiordania, che vuol partecipare a un campionato dello Stato ebraico; c'è l'allenatore del Chelsea Mourinho che viene per Pasquetta ad « allenare » la pace: 200 ragazzini israeliani e palestinesi, a disputarsi un torneo, in squadre miste.
Calcio, rock e fantasia. Magari, in questi giorni, la storia d'Israele, e dei suoi arabi, si scrive in altri dettagli. Magari nella nomina di Abu Razek a direttore generale del ministero dell'Interno. E' la prima volta che un arabo raggiunge la vetta dell'amministrazione israeliana. Interni, non Sport. Un passo sotto al ministro. « Mentirei se dicessi — dice a Yedioth Ahronoth — che non c'è discriminazione tra arabi e israeliani, nell'educazione, bilancio, occupazione. Ci sono due diverse popolazioni, una delle quali è considerata in guerra con la società israeliana » . Si può cambiare? « Sta avvenendo, è iniziato con Rabin » . Ma vuoi mettere un burocrate o un calciatore e due rock star, a promuovere un sogno?
Corretta e molto interessante anche l'intervista a Suan Abbas di Mara Gergolet , "Orgoglioso di essere un simbolo. E ho cantato l'inno".
E' lo stesso Abbas a ristabilire le proporzioni dimenticate dei media: gli insulti di pochi non possono far dimenticare l'affetto tributato dalla maggioranza degli israeliani al calciatore, nè la realtà dell'integrazione nella nazionale israeliana.

Ecco il testo:

GERUSALEMME — « Mi sento orgoglioso, mi sento arabo e israeliano.
Non credo ai politici: più parlano di pace, più la pace si allontana. Ma penso davvero che quel che è successo sabato sia un simbolo di coesistenza » .
Suwan Abbas risponde al telefono dopo l'allenamento. Non parla inglese, ma l'arabo e l'ebraico, come i palestinesi cresciuti in Israele. Lei solo una settimana fa è stato fischiato dai cori razzisti a Gerusalemme.
« Ai tifosi del Betar dico: io non ho problemi con voi, non c'è nessun motivo ideologico che mi vieta di giocare nella vostra squadra. Però l'ho dimostrato sul campo: non chinerò mai la testa, sono orgoglioso di essere quel che sono » . Lei è un simbolo anche nei Territori palestinesi? « Non lo so, è difficile per noi capire cosa succede nei Territori, cosa provano e sentono loro. Sono due mondi alla fine separati. A me basta essere un simbolo degli arabi d'Israele, una bandiera dello Sakhnin: e il mio club ha dimostrato che ebrei e arabi possono giocare e divertirsi insieme. Dallo Sakhnin ho sempre rifiutato di muovermi, anche quando mi hanno offerto molti soldi » . « No. Solo se mi chiamano dall'Italia ( ride) » . Ha cantato la Hatikva, l'inno nazionale di Israele, mentre sedeva in panchina, al riparo dalle telecamere? « Tutti vogliono sapere questa cosa. No, non voglio rispondere » . Ma è vero, Suwan, che quelle parole non le piacciono: quelle che dicono: " L'anima di un ebreo piange"? « La verità, volete la verità? Sì, l'ho cantato. L'ho fatto per i miei amici, ne ho molti nella squadra. Io li rispetto, rispetto quel che sono. Sì, per questo ho cantato l'inno d'Israele » .
Corretto anche l'articolo di Paolo Delfino su AVVENIRE "Sui campi della pace":
«È stato il tiro della mia vita». Quell'ultimo minuto sabato sera allo stadio di Tel Aviv, Abbas Sowan, 29 anni, capitano dell'unica squadra araba presente nella serie A israeliana, non se lo dimenticherà tanto facilmente.
La Nazionale di Gerusalemme stava perdendo 1-0 in casa contro l'Eire in una sfida decisiva per la qualificazione ai Mondiali del 2006, quando all'inizio dei minuti di recupero Sowan - in campo da appena 16 minuti - ha squadrato la porta e ha impresso al pallone tutta la energia accumulata in lunghi anni di sacrifici, fulminando il portiere irlandese.
Un gol storico per un giocatore arabo in Israele, che ha stravolto in un secondo la vita di Abbas. «Sowaaaan, Sowaaaan», urlava in estasi il telecronista, ormai incapace di contenersi. A Sakhnin (in Galilea, la città della squadra di Sowan), il gol di Abbas è stato seguito da una festa popolare durata tutta la notte, mentre la cittadina era illuminata da fuochi d'artificio. E all'indomani, aprendo i giornali, Sowan ha appreso di essere divenuto un simbolo nazionale. Come il cantante israeliano David Broza che ha appena inciso una canzone in ebraico e in arabo insieme al musicista palestinese Wissam Murad. «Eroe di Israele», titolava ieri il quotidiano Maariv. E dire che solo due mesi fa, nella partita contro la Croazia (3-3), la tifoseria di Gerusalemme - già distintasi in passato per il becero nazionalismo di una parte delle sue tribune - aveva fischiato Abbas senza ragione e senza pietà ad ogni intervento per il semplice fatto che un arabo vestiva i colori della Nazionale. Ma sul ct Abraham Grant i fischi incivili hanno avuto l'effetto opposto: contro l'Eire Israele vantava ben tre «star» arabe: con Sowan, c'erano anche Walid Badir e Abed Rabah.
«I fischi di Gerusalemme? Ho già voltato pagina. Tutto dimenticato - ha detto Sowan -. E non chiedetemi ora di politica o di religione, io mi esprimo soltanto sui campi di calcio. Penso che persone come me, come Badir e Rabah siano il migliore simbolo di pace e convivenza fra ebrei e musulmani e un auspicio per un futuro migliore di Israele».
Intanto è scattata la corsa a costruire il mito del calciatore giunto alle luci della ribalta dopo una carriera trascorsa nell'oscurità dei modesti campi di calcio di periferia, eppure capace di vincere una Coppa d'Israele con il Bney Sakhnin. Si racconta delle corse di Abbas da piccolo nei campi e fra gli uliveti della Galilea, di quando la madre Fatma nascondeva i bocconi più ghiotti ai fratelli per darli a lui, del paio di scarpe consumato ogni due settimane, per via del fulmicotone che ha nei piedi. «Sei diventato più famoso della Coca Cola», gli ha detto con ammirazione un vicino di casa. «Mi sembra di vivere in un film», ha ammesso Sowan. L'«eroe per caso», che ha forse cambiato con un gol il futuro di Israele.
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