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Corriere della Sera Rassegna Stampa
27.03.2005 La versione di Sergio Romano dell'assedio della Basilica di Betlemme
il contrario di come è andata

Testata:Corriere della Sera
Autore: Sergio Romano
Titolo: «La Chiesa»
Nella sua ribrica sul CORRIERE della SERA, Sergio Romano interpreta a modo suo l'assedio alla Basilica di Betlemme nell'aprile 2002. E lo fa con la consueta abilità, presentando i fatti ai lettori del Corriere omettendo una parte essenziale, senza la quale è impossibile comprendere l'accaduto. Gli israeliani non assediarono per loro scelta la Basilica di Betlemme, assediarono i terroristi palestinesi che nella Basilica si erano rinchiusi. Sono stati i terroristi palestinesi ad aver invaso la Basilica, ad aver preso come ostaggi i frati che la abitavano, e a sparare contro l'esercito israeliano che si proponeva di "liberare" la basilica catturando i terroristi.
Come si vede, l'esatto contrario di come la racconta Romano.
Invitiamo i nostri lettori a leggere attentamente il pezzo di Romano. Non che ci siano bisogno di conferme per capire a quale mulino Romano attinge la sua acqua. Ma per capire meglio la tecnica che Romano usa per gettare discredito su Israele.

Non sarà male se i lettori di IC scriveranno al direttore PAOLO MIELI per protestare contro l'uso che Romano fa della sua rubrica di corripsondenza con i lettori.
cliccare sulla e-mail sottostante.

Ecco il pezzo:

La Chiesa «giudice di pace» e le mediazioni impossibili

Ho letto in un libro di Luciano Trincia («Conclave e potere politico», ed. Studium) che la Santa Sede, dopo la perdita del potere temporale, è stata molto attiva sul piano internazionale: arbitrato tra Germania e la Spagna nel 1885 sulla questione delle Caroline, mediazione tra il Portogallo e il Belgio nel 1892, un'ulteriore mediazione tra le repubbliche di Haiti e Santo Domingo nel 1895.
Perché il papato, che oggi non sembra avere un ruolo di primo piano in Medio Oriente, non ha più avuto da allora una presenza politicamente significativa nella composizione delle crisi regionali e planetarie?

Daniele Colucci,

Caro Colucci,
la Santa Sede fu spesso il supremoarbitro delle dispute fra Stati cristiani. Le sue mediazioni più importanti dell’era moderna furono probabilmente le due decisioni che fissarono i confini tra possedimenti spagnoli e portoghesi nelle Americhe. La prima fu quella del papa Alessandro VI, padre di Cesare e Lucrezia Borgia, che nel 1493 tracciò sulle carte, da nord a sud, una linea 100 leghe a ovest delle Azzorre: le terre occidentali a Madrid e quelle orientali a Lisbona.
La seconda, più favorevole ai portoghesi e negoziata dai due Paesi a Tordesillas nel 1494, tracciò una nuova linea 370 leghe a ovest del Capo Verde e fu sanzionata da Giulio II nel 1505. Ve ne furono altre, ma tra le mediazioni antiche e quelle più recenti corre una importante differenza. Mentre quelle da lei citate furono semplicemente arbitrati, alcuni studiosi di diritto canonico sostennero in passato che il papa, come monarca universale, era signore della terra e aveva quindi il diritto di assegnarne le parti a questo o a quello Stato.
Nella storia delle mediazioni diplomatiche la più importante e recente è quella di Giovanni Paolo II per la delimitazione del confine fra Cile e Argentina attraverso il canale di Beagle, nella parte meridionale della Terra del Fuoco. Dopo avere discusso e litigato per alcuni decenni su alcune isole, i due Paesi tennero una conferenza a Montevideo nel gennaio del 1979 e decisero di accettare la mediazione offerta dal papa. Il mediatore fu il cardinale Antonio Samoré e l’accordo fu firmato alla Città del Vaticano il 29 novembre 1984. Se vuole avere notizie sulle clausole dell’accordo e sull’importanza economica delle isole contestate, caro Colucci, può leggere un libro di Domenico Vecchioni che è stato in quegli anni primo segretario dell’ambasciata d’Italia a Buenos Aires (Il canale di Beagle. Argentina e Cile a confronto, Eura Press, Milano).
Lei vorrebbe sapere perché il papa non abbia un ruolo più importante nella soluzione delle vertenze internazionali e ricorda a questo proposito la questione mediorientale. Potrei rispondere che esiste ormai, per questi problemi, una organizzazione internazionale e che è difficile immaginare un successo della Chiesa là dove l’Onu è quasi sempre impotente. Esiste, tuttavia, un’altra ragione, più specifica. Il mediatore può svolgere le sue funzioni soltanto quando la sua autorità e imparzialità sono riconosciute dai contendenti. Ma la Chiesa, in molte vicende internazionali, è parte in causa. Il problema della Palestina, a questo proposito, è particolarmente interessante.
Quando Sir Edmund Allenby, comandante del corpo di spedizione britannico, entrò a Gerusalemme nel dicembre del 1917, la Chiesa fu al tempo stesso felice e addolorata: felice perché la Città santa era stata sottratta ai musulmani, addolorata perché il liberatore era il generale di un Paese scismatico.
Quando l’Onu, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, proclamò la nascita dello Stato d'Israele, la Santa Sede ripose ogni sua speranza in quella parte della risoluzione che prevedeva l’internazionalizzazione dei Luoghi Santi. E quando l’internazionalizzazione rimase lettera morta, rifiutò di avere rapporti diplomatici con il governo di Gerusalemme.
I rapporti vennero finalmente stabiliti con un accordo firmato a Gerusalemme il 30 dicembre 2003. Ma la Chiesa, pur evitando di prendere partito, non ha mai nascosto la sua simpatia per la causa palestinese e ha patito come un’umiliazione l’assedio israeliano della basilica di Betlemme nell’aprile 2002. Se si proponesse come mediatrice i palestinesi ne sarebbero felici, magli israeliani respingerebbero l’offerta. E nessuna mediazione sarebbe possibile.

lettere@corriere.it

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