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La Stampa Rassegna Stampa
22.03.2005 Yad vaShem: ricordare i nomi e i volti delle vittime della Shoah
la riflessione di Avraham B. Yehoshua

Testata: La Stampa
Data: 22 marzo 2005
Pagina: 1
Autore: Avraham B. Yehoshua
Titolo: «Un numero e sei milioni di nomi»
LA STAMPA di martedì 22 marzo 2005 pubblica in prima pagina un articolo di Avraham B. Yehoshua sulla Shoah, sulla rimozione la memoria.
Ecco il testo:

Ricordo il momento in cui compresi per la prima volta che sei milioni di ebrei erano stati sterminati durante la seconda guerra mondiale. Fu nella primavera del 1945, a Gerusalemme, qualche settimana prima della fine del conflitto. Avevo all'incirca nove anni e avevo seguito le vicende della guerra con grande partecipazione grazie ai resoconti di mio padre, malgrado quegli avvenimenti accadessero lontano da noi. Essendo però un bambino, mi interessavo principalmente ai movimenti delle grandi armate, alle battaglie decisive che si combattevano in Europa. Il destino degli ebrei era di secondaria importanza, avvolto in una vaga nebbia che si rivelava autentica a causa dell'impossibilità di ottenere chiare informazioni e anche per la scarsa volontà di sapere cosa stesse succedendo, dovuta all'angoscia di non poter far niente.
Al termine della guerra cominciarono grandi dimostrazioni di ebrei nell'allora terra di Israele contro il governo britannico che proibiva l'entrata dei profughi, sopravvissuti alla Shoah. Ricordo il giorno in cui, a Gerusalemme, fu effettuato il primo volantinaggio contro gli inglesi, alleati durante la terribile guerra e trasformatisi ora in dominatori senza cuore. Dei foglietti svolazzavano per le strade e si infilarono nella tromba delle scale del grande condominio in cui abitavamo. Ricordo che corsi lungo le scale e ne afferrai uno: «In questa guerra abbiamo perso sei milioni di nostri fratelli» vi era scritto, «e ora non taceremo. Non rinunceremo al diritto dei sopravvissuti di trasferirsi nel nostro paese».
Da allora quel numero - «sei milioni» - è divenuto una sorta di codice, un simbolo, un mito carico di angoscia. Alla vigilia della fondazione di Israele solo cinquecentomila ebrei vi vivevano e ogni nuovo membro era di vitale importanza per il nuovo Stato. Ma ecco, di colpo, nel corso di una guerra durata solo sei anni, il nostro popolo aveva perso un terzo dei suoi membri: sei milioni di vite umane.
Quel numero tremendo, che da allora ha cominciato a pendere sul nostro capo, è rimasto tuttavia non ben definito, incomprensibile; ci ha consentito di lasciare l'orrore a un livello astratto e distante. La guerra d'indipendenza israeliana, scoppiata nel 1947, subito dopo la decisione delle Nazioni Unite di dividere la regione in due Stati, sospinse la Shoah in un cassetto zeppo di timori e di dolore ma anche ben serrato. Le battaglie per la sopravvivenza del giovane stato esigevano tutta l'energia spirituale e fisica disponibile e nella nazione in cui vivevano decine di migliaia di sopravvissuti, in cui il ricordo e il dolore erano vivi e brucianti nel cuore di molti, in cui la metà degli abitanti aveva perso dei parenti in Europa, passarono sette anni prima che venisse proclamata una giornata ufficiale in ricordo delle vittime dell'Olocausto e creato un museo in loro memoria.

Non solo gli ebrei che non avevano vissuto in Europa durante l'Olocausto non avevano fretta di serbare e mantenere vivo il ricordo delle vittime, ma gli stessi sopravvissuti non lo pretesero. Vi era una sorta di tacita intesa tra le parti: non parlare, accantonare il ricordo. Ogni parola, ogni pensiero, avrebbero potuto infatti causare una paralisi terribile, tale da impedire una reazione alle sfide della vita.
È noto per esempio che negli Stati Uniti d'America, ancora molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, gli ebrei non solo non si occupavano della Shoah ma non ne conoscevano nemmeno i dettagli più elementari e basilari. Proprio quel numero generico «sei milioni» fungeva da copertura a vicende che forse si aveva paura e ci si vergognava di affrontare. Giovani ebrei giunti in Israele dagli Stati Uniti negli anni Cinquanta e Sessanta sentirono parlare per la prima volta della Shoah solo allora.
Questo processo di rimozione aveva dell'incredibile. Ricordo che per lunghi anni, durante il liceo, ignorai che il mio amico Aharon Barak, oggi presidente della Corte Suprema israeliana, fosse stato nel ghetto di Kovne durante la guerra. Il suo desiderio di integrarsi nella società israeliana era talmente forte che non voleva rivelare, o nemmeno lasciare intuire, che lui veniva da «laggiù». E la cosa inverosimile era che persino nel contesto di un'amicizia intima tra ragazzi lui riuscisse a mantenere segreto un aspetto tanto significativo della sua vita.
Non penso che questa rimozione emotiva fosse negativa per gli ebrei di Israele e del mondo. Ritengo che se si fossero lasciati sopraffare dal dolore e dalla rabbia subito dopo la Shoah e si fossero trincerati nel loro dramma personale e nazionale, sarebbero precipitati in uno stato di depressione e di impotenza tale da paralizzare ogni capacità di ripresa. La rimozione del trauma è stata molto importante per il loro processo di recupero e per l'esplosione di creatività che lo ha accompagnato.
Ma quel blocco emotivo ha cominciato a sciogliersi lentamente all'inizio degli anni Sessanta. Sulle prime all'interno della cerchia degli stessi sopravvissuti e dei loro familiari, poi, a poco a poco, si è allargato ad altri circoli fino a che, di recente, siamo testimoni di un'impressionante presa di coscienza anche da parte di altri popoli. Musei vengono aperti in molti Stati e giornate dedicate alla Shoah sono entrate a far parte dei calendari nazionali. Quest'anno, alla cerimonie di commemorazione per la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, erano presenti molti capi di Stato e personalità internazionali e all'inaugurazione del rinnovato museo di Yad vaShem a Gerusalemme sono giunti rappresentanti da tutto il mondo.
Quel numero generico e astratto - «sei milioni» - ha cominciato a scomporsi in nomi, biografie, testimonianze dettagliate, libri di memorie e una quantità di materiale letterario, teatrale e cinematografico che cerca di elaborare gli eventi della Shoah in tutta la loro complessità. Oggetti personali appartenuti alle vittime - scarpe, valigie, camicie - sono assurti al rango di pezzi da museo a cui l'arte moderna attribuisce un potente valore estetico. Agli inizi degli anni Settanta, quando cominciai a insegnare all'università di Haifa, il primo corso che vi tenni aveva per tema l'estetica della letteratura incentrata sulla Shoah. A mia disposizione avevo una bibliografia molto esigua e l'argomento del corso era insolito per il dipartimento di letteratura. Da allora sono nate intere discipline che si occupano di questa tragedia e dipartimenti per lo studio della Shoah sono ormai parte legittima e integrante di facoltà universitarie in svariati luoghi del mondo.
Atrocità terribili sono avvenute prima della Shoah e dopo di essa - in Cambogia, in Ruanda, a Sarayevo, in Sudan e altrove. I nazisti colpirono mortalmente altri popoli, trucidarono centinaia di migliaia di prigionieri russi e sterminarono omosessuali e malati mentali che erano loro connazionali. Ma l'Olocausto degli ebrei occupa un posto di rilievo nella coscienza dei popoli a tal punto che la parola ebraica Shoah - catastrofe - è entrata a far parte del lessico di molte nazioni.
Cosa rende questa tragedia tanto speciale e universale?
È difficile dare una risposta a questa domanda. Ho comunque l'impressione che se si prendono in esame le scelleratezze perpetrate nei confronti degli ebrei si possa trovare in esse qualcosa che non ha paragoni nella storia umana: un elemento di pura malvagità.
Gli orrori compiuti contro gli ebrei non avvennero in seguito a uno scontro ideologico (gli israeliti non propugnavano un'unica ideologia), non furono motivati da desideri di conquista territoriale (gli israeliti non possedevano un loro territorio), non derivarono da motivi razziali o dalla smania di arricchirsi (gli israeliti non sono una razza e la maggior parte di loro non possedeva beni particolari). Se poi i nazisti l'avessero preteso avrebbero consegnato tutti i loro averi in cambio della vita. Le atrocità dei tedeschi non avevano nemmeno radici religiose, non solo perché i nazisti si opponevano a ogni tipo di religione e di certo non si ritenevano cristiani, ma anche perché molti israeliti non erano praticanti e parecchi di loro sarebbero stati probabilmente disposti a convertirsi, come nel Medioevo, per salvarsi dai roghi. Gli ebrei non furono esiliati o cacciati come in altre guerre. Furono sterminati. Erano considerati microbi, non esseri umani, e l'idea di massacrarli si trasformò in un'ossessione. Il loro eccidio fu un esempio di crudeltà e di follia senza precedenti nella storia umana e deve ancora essere studiato e analizzato.
La Shoah acquista dunque una dimensione universale. Innanzi tutto per via dello sforzo sisifico di trasformare quel numero - «sei milioni» - in altrettanti individui con un nome, un'identità, una biografia, un volto e una storia. E come accade sempre quando dal generale si passa al particolare, la tragedia di una nazione diventa tragedia universale, giacché gli ebrei si rivelano prima di tutto degli esseri umani.
Ma anche la malvagità dei nazisti trascende un contesto specifico e diventa oggetto di studio in quanto malvagità umana. E questo a favore di una migliore comprensione della natura umana in un mondo tecnologico ultra moderno in cui le capacità di sterminio si fanno sempre più raffinate.
Gli ebrei si trovano ora immersi in un abisso di dolore per la tragedia della Shoah che trova un'eco emotiva e intellettuale non solo fra i sopravvissuti e i loro discendenti ma anche fra le nuove generazioni. Ma un nuovo stadio li attende: quello dell'analisi intellettuale volta a capire perché mai tutto questo sia avvenuto. Come mai non abbiano visto il baratro che li attendeva, non abbiano compreso l'interazione patologica fra loro e il mondo della diaspora. Sarà un'analisi storica dell'identità ebraica che ha inizio solo ora e che un tentativo di comprensione più universale della Shoah non potrà impedire.
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