Intervista a un terrorista, che diventa un "comandante militare" una grave disinformazione
Testata: La Stampa Data: 18 marzo 2005 Pagina: 9 Autore: Giuseppe D'Avanzo Titolo: «Palestinesi esclusi dalla festa libanese»
LA STAMPA di venerdì 18 marzo 2005 pubblica a pagina 9 un reportage di Giuseppe Zaccaria dai campi profughi palestinesi in Libano. Descrive la discriminazione e la povertà che vi regnano senza indicarne i motivi e i responsabili: la volontà di mantenere i profughi in condizioni miserevoli per utilizzarli come arma di delegittimazione di Israele e come serbatoio di odio per il terrorismo; il regime siro-libanese. Il pezzo si risolve poi in un intervista a Munir Maqdah, definito "comandante della sezione militare di «Al Fatah»". Maqdah, in realtà è il fondatore e capo militare delle Brigate dei Martiri di al Aqsa, responsabili di numerosi stragi di civili israeliani. Ha ammesso di aver personalmente inviato attentatori suicidi in Israele (vedi da L'Espresso: Gianni Perelli "Così addestro i Kamikaze", in "Al terrorista non devi domandare",Informazione Corretta 13-03-05). Perchè Zaccaria non spiega ai suoi lettori chi è l'uomo che intervista?
Circa le dichiarazioni di Maqdah, segnaliamo una falsità che Zaccaria avrebbe dovuto rilevare: quella per cui Israele avrebbe mancato di applicare la risoluzione Onu che chiedeva si ritirasse dal Libano.
Ecco il testo dell'articolo: Vista dall'ammasso di polvere, sterco e fili elettrici del campo profughi di Ein al Helwei, la crisi libanese non è più un tripudio di colori e cortei, ma un braccio di ferro pronto ad assumere tinte nette e drammatiche. «Vedrà, fra poche settimane i due blocchi non esisteranno più, ciascun partito riprenderà a seguire i suoi obiettivi e la cosiddetta «pacifica intifada» di Beirut si tramuterà in qualcosa più pericoloso. Agli amici libanesi posso soltanto consigliare di non aprire crediti a Paesi stranieri, perché altrimenti la disillusione sarebbe atroce». Il generale Munir Maqdah, 44 anni, comandante della sezione militare di «Al Fatah» è un palestinese nato in esilio e vissuto in cattività. Fra i quindici campi del Libano, quello di Ein al Helwei è il più antico: nacque nel 1948 per accogliere le prime ondate di profughi dalla Galilea e da allora è rimasto circondato dall'esercito. Altri insediamenti, anche Sabra e Chatila, sono stati inghiottiti dalla crescita disordinata della capitale; qui invece la città di Sidone si è sviluppata circondando l'accampamento dei paria, ma tenendosene alla larga. «Siamo la capitale mondiale della vergogna - commenta amaro Maqdah - la più antica e la più popolata: ottantamila persone prive di diritti civili, economici e politici». La storia di questo popolo ibernato si ripete da decenni: prima nel '48 e poi nel '72 il Libano accolse ondate di profughi che nel tempo si sono moltiplicate, oggi sono 350 mila i palestinesi che restano in questo territorio col diritto di tenere armi all'interno dei campi, ma senza quello di esercitare professioni liberali, di comperare un immobile o se questo immobile esisteva già di lasciarlo in eredità ai propri figli. Un profugo palestinese in Libano non può esercitare professioni, non può essere medico, farmacista, ingegnere o avvocato, però può lavorare con le braccia. Chi dopo la fuga è nato nella terra del cedri può essere processato e condannato da un tribunale senza alcuna comunicazione preventiva né comparse in aula. Le ragioni per cui dai campi si seguono con grande attenzione gli sviluppi della crisi, dunque, sono innumerevoli e il generale Munir Maqdah non lo nasconde, anche se tende a precisare subito che la consegna di Abu Mazen è quella dell'assoluta neutralità. «Il nuovo premier ci ha visitati qualche settimana fa e noi siamo pronti a dare tutto l'appoggio ai suoi tentativi di giungere a un cessate il fuoco formale con Israele. Dunque non partecipiamo allo scontro politico in atto nel Paese che ci ospita, piuttosto attendiamo i suoi esiti con una punta di preoccupazione». Aspettare però non significa non avere opinioni: secondo lei come si evolveranno le cose? «Posso raccomandare soltanto agli amici libanesi di accentuare gli sforzi per un accordo politico interno, i giornali dicono che le cose non stanno andando così e nei due grandi gruppi la solidarietà comincia a sfilacciarsi. Noi palestinesi non abbiamo voce in capitolo però ci sembra già di intuire le prime pagine di un copione già visto: violenza che crea divisioni, posizioni partigiane che si radicalizzano, dunque scontri più forti e infine qualcuno che si rivolge all'estero per aiuto e protezione». Qui però dalla protezione dell'«estero» ci si affranca, almeno in parte, i siriani hanno iniziato il lento ritiro. «Però gli israeliani restano a poche decine di chilometri da dove ci troviamo e poi andrebbe ricordato che in questo Paese la Siria ha svolto anche un ruolo di pacificazione, comportandosi da forza equilibratrice, impedendo la crescita di nuovi estremismi e avviando la ricostruzione. Non è detto che il ritiro delle sue forze renda automaticamente le cose più facili, soprattutto per chi non pensa affatto di sostituirle con i soldati americani, come accade per quasi tutti i libanesi». Gran parte del Paese sembra anche rifiutare la risoluzione Onu 1559, almeno nella parte che ordina il disarmo del partito «Hezbollah» e dei palestinesi. «Io credo che il Libano rifiuti perché rammenta molti altri numeri, quelli di risoluzioni precedenti come la 194, la 242, la 388 che ordinavano il ritiro di Israele da questo territorio e dalla Palestina, ma non sono mai state applicate. E' curioso che a eseguire le decisioni internazionali sia sempre e soltanto una parte sola, però le dico anche che in Libano i progetti di Israele e degli Stati Uniti sono sempre falliti perché questo non è un Paese divisibile né consegnabile ad una parte sola, magari quella più fidata. Quindi abbiamo forti speranze che il difficile processo politico di questa fase trovi infine uno sbocco, i libanesi sono stanchi di guerre e soprattutto delle guerre che altri combattono sul loro territorio». Per uscire dalla casa del generale bisogna attraversare una sorta di cunicolo ricavato nel ventre di palazzi fatiscenti, Prima del commiato il generale di «Fatah» ci ha detto di non nutrire grandi speranze su un ritorno negoziato in Palestina della sua gente ripetendo la frase di sempre («e comunque abbiamo giurato di rientrare ad ogni costo»). Sulla via del ritorno, la radio di Stato fa sapere che il capo dei servizi segreti ispirati da Damasco sfida le opposizioni e anziché dimettersi chiede un processo. Le consultazioni politiche procedono a rilento, non si trova accordo né su un governo di emergenza né su una commissione araba che indaghi sull'assassinio di Hariri. La crisi insomma sembra iniziare un pericoloso avvitamento. 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