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Il Foglio Rassegna Stampa
18.03.2005 Il terrore fa una pausa: lo hanno deciso i colloqui del Cairo tra Egitto, Anp e fazioni palestinesi
l'analisi di Carlo Panella

Testata: Il Foglio
Data: 18 marzo 2005
Pagina: 1
Autore: Carlo Panella
Titolo: «Calma in Palestina»
IL FOGLIO di venerdì 18 marzo 2005 pubblica in prima pagina un articolo di Carlo Panella sull'accordo siglato al Cairo tra fazioni palestinesi, che sancirebbe un "periodo di calma" con Israele.
Ecco l'articolo:

Roma. Accordo siglato tra 13 movimenti palestinesi, il presidente dell’Anp, Abu Mazen, e il capo dell’intelligence egiziana, Omar Suleiman, per definire una tregua con Israele. Tregua che, peraltro, è termine rifiutato da Hamas e Jihad. Anche una "sospensione" delle iniziative è fuori discussione e si parla soltanto di un periodo di "calma", fino alla fine del 2005, se Israele accoglierà le richieste dei gruppi armati, comprese quelle sulla liberazione di detenuti. Periodo che gli egiziani volevano di un anno, ma che probabilmente non supererà – nei fatti – lo svolgimento delle elezioni politiche palestinesi di luglio. Resta il grande risultato conseguito, segno che la strategia delineata da Abu Mazen, dal rais egiziano Hosni Mubarak, da re Abdallah di Giordania e dal premier israeliano, Ariel Sharon, a Sharm el Sheik ha superato un primo, grande ostacolo, precondizione per ogni sviluppo; anche se è chiaro a tutti che la "finestra di opportunità" è molto piccola ed è anche molto dipendente da scadenze elettorali che possono indebolire o rafforzare l’attuale leadership palestinese. Ieri sono giunti i risultati molto indicativi delle elezioni nelle università palestinesi, base sociale dell’Intifada delle stragi. Tra i 10 mila studenti di Gaza, la lista di Hamas raccoglie l’80 per cento dei voti; a Hebron 25 seggi a Hamas, contro i 13 di al Fatah; nell’Università americana di Jenin, al Fatah è in minoranza contro i 14 seggi di Hamas e i quattro dei gruppi marxisti-filoterroristi. Un quadro confermato dall’ultimo sondaggio sulle politiche di luglio dell’istituto palestinese Pcpsr che vede Hamas conquistare 7 punti rispetto a due mesi fa, passando al 25 per cento, mentre al Fatah scende di 4 punti e cala al 36. Sommando i parlamentari che otterrà il fronte dell’Intifada (Hamas, Jihad, Hezbollah, Fplp, Fdlp e altri movimenti), non è dunque escluso che al Fatah possa perdere la maggioranza nel prossimo Parlamento palestinese, con risultati destabilizzanti e fine del periodo di "calma". Abu Mazen, Mubarak, Abdallah e Sharon puntano invece a rafforzare la strategia delineata a Sharm el Sheik, affiancando ai gesti di clemenza nei confronti dei detenuti palestinesi e al ritiro israeliano da Gaza, uno straordinario impegno sul terreno economico e sociale che rafforzi la leadership palestinese in vista del voto. Dopo cinque anni della disastrosa Intifada delle stragi di Yasser Arafat, l’economia dei Territori è allo stremo.
E’ già iniziato un consistente investimento di capitali americani su progetti egizio-israelo-palestinesi.
Oggi è chiaro che la crescita della presa di Hamas non è più il portato del suo apparato terrorista, ma del radicamento sociale. Dopo l’uccisione dei leader Yassin e Rantisi e di tanti suoi quadri, Hamas è sulla difensiva patisce la fine della complicità dei nuovi apparati di sicurezza palestinesi. Ma è anche la sezione palestinese dei Fratelli musulmani, il più grande partito transnazionale arabo, grazie a cui convoglia in Palestina uno straordinario impegno sul territorio, garantendo un forte "welfare islamico" attraverso le moschee che distribuiscono prediche infuocate e aiuti, lavoro, servizi. Ecco allora che la volontà dei Fratelli musulmani egiziani di partecipare alle presidenziali di settembre in Egitto (e di garantire a Mubarak una qualche lealtà istituzionale) si somma alla necessità del partito fratello Hamas di fronteggiare la concorrenza sul welfare scatenata da israeliani, egiziani, americani. Più complesse sono le ragioni per cui Jihad islamico (e i gruppi marxisti appoggiati da Damasco) è stato spinto ad accettare la "calma". Hamas e Fratelli musulmani sono sunniti, il Jihad è di fatto il reparto combattente in Palestina di Hezbollah (sciita). Risponde a una logica politica che ha il suo centro non a Gaza o Ramallah, ma a Beirut, Teheran e Damasco. Hezbollah controlla, con un esercito (e molti ufficiali iraniani), la frontiera tra Libano e Israele: ha una forte possibilità di destabilizzazione. Ma l’"internazionale sciita" di Hezbollah non ha fretta di attaccare. Deve prima risolvere la difficile equazione libanese, che ha visto una piazza antisiriana contrapporsi per la prima volta alla piazza filo-siriana. L’"internazionale sciita" iraniana sente poi riflessi della trattativa sul nucleare tra Europa, Stati Uniti e ayatollah. La Casa Bianca sa che essa è protagonista nelle tre aree di crisi (comprese le infiltrazioni siro-iraniane in Iraq), così come sa che il libanese Nasrallah non può danneggiare Teheran, né Beirut né in Palestina, e che non può smuovere ancor più il terreno instabile su cui poggia l’alleato siriano Bashar al Assad. Dalla valutazione dei costi e benefici su scala regionale della "mezzaluna sciita", che unisce Gaza, Beirut, Damasco, Sadr city Teheran, è dipeso dunque l’assenso di Hezbollah al periodo di "calma" in Palestina. Questo in una situazione in cui, per la prima volta nella storia, movimenti fondamentalisti e terroristi arabi sono costretti a decidere le proprie linee d’azione tenendo conto di elezioni: in Libano, in Palestina, in Egitto e infine ancora in Iraq. Resta il fatto che la "calma" è solo tattica. La strategia è quella di sempre: distruggere Israele.
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