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Avvenire Rassegna Stampa
16.03.2005 Al Jazeera, televisione democratica
la tesi di un giovane studioso, ripresa dal quotidiano cattolico, contrasta con molti fatti inquietanti

Testata: Avvenire
Data: 16 marzo 2005
Pagina: 23
Autore: Paolo Lambruschi
Titolo: «Tv, un tappeto per l'islam»
AVVENIRE di mercoledì 16 marzo 2005 pubblica un articolo di Paolo Lambruschi sulle televisioni arabe.
Viste indistintamente come sintomi di un processo di democratizzazione. Dimenticando o minimizzando, nel caso di Al Jazeera, le molte documentate riserve sulla qualità della sua informazione.
Per esempio gli articoli informati di Magdi Allam sul modo in cui sono state presentate le elezioni irachene.
O la denuncia della presenza nel suo palinsensto di sermoni di predicatori fondamantalisti come al-Qaradawi.
O della cassa di risonanza offerta ai messaggi dei terroristi.


Ecco l'articolo:

Passa dalle parabole la rivoluzione nell'opinione pubblica araba. La guidano Al Jazeera e Al Arabya, le due emittenti satellitari panarabe finanziate dagli emiri, con palinsesti completamente dedicati all'informazione. Per la prima volta due televisioni non occidentali sono diventate protagoniste del panorama giornalistico globale successivo all'11 settembre vendendo anche immagini esclusive ai nostri canali, spesso drammatiche, che ci hanno mostrato gli eventi da un punto di vista diametralmente opposto. Senza dimenticare che spesso queste Cnn del Medio Oriente sono la principale fonte di informazione per gli immigrati dal Maghreb in Italia. Due emittenti che in pochi anni hanno abituato decine di milioni di spettatori, tra cui intellettuali, dirigenti, profughi a rifiutare l'informazione ufficiale di regimi non democratici come quelli mediorientali, che gli annuali rapporti di Amnesty international e Reporters sans frontieres collocano ai primi posti nella repressione. Sono portatrici di un giornalismo combattivo, mutuato dai canoni occidentali e che tuttavia si è schierato anche contro l'Occidente, ad esempio riproducendo i messaggi di Osama bin Laden e trasmettendo i video delle decapitazioni di ostaggi in Irak. Insomma, nuovi protagonisti del villaggio globale con cui fare i conti, tenuto conto degli interessanti fermenti che stanno attraversando la regione, in bilico tra democrazia e fondamentalismo, tra diritti civili e legge islamica, in cui i mezzi di comunicazione giocano un ruolo politico e diplomatico di primo piano.
Un interessante studio che esce domani in libreria pubblicato da Carocci, Il giornalismo arabo, del giovanissimo ricercatore Augusto Valeriani, ripercorre con agilità e precisione la storia dei media arabi a partire dal Medioevo preislamico, quando nei suk del Golfo gli uomini di lettere vendevano poesie e pensieri in cambio di merci. Lì si forgiò l'identità duplice dei giornalisti arabi, intatta nei secoli: o coraggiosi e raffinati padro ni della lingua, usata come strumento affilato contro il potere politico; oppure ciambellani del sovrano.
«Due tipologie che ritroviamo nella storia - spiega Augusto Valeriani, 26 anni, dottorando di ricerca all'Università di Siena - anche perché monarchie e repubbliche laiche post coloniali sorte negli anni '40 e '50 del secolo scorso si sono dotate di efficienti ministeri dell'informazione con compiti di censura, tuttora molto attivi. La proprietà statale dei mezzi informazione e il monopolio delle concessionarie di pubblicità da parte delle famiglie regnanti hanno sempre soffocato ogni iniziativa di libera informazione». Paradossalmente, la rivoluzione nasce da un sovrano, Hamad bin Khalifa Al Thani, giovane emiro wahabita (setta islamica integralista) del Qatar che, nel 1996, dopo aver spodestato il padre, decide di aprire un'emittente satellitare panaraba chiamandola Al Jazeera, la Penisola, assumendo un gruppo di professionisti arabi in forza alla Bbc. Nel deserto, con un investimento iniziale di 150 milioni di dollari, inizia a trasmettere secondo il modello di informazione più occidentale, quello britannico. Nasce la prima tv commerciale all news dell'islam con l'obiettivo (poi dimenticato) di diventare autosufficiente in 5 anni. «Per la prima volta - sostiene Valeriani - il pubblico arabo può vedere trasmissioni di vero giornalismo investigativo, servizi che raccontano la realtà dalla parte della popolazione, dall'ultima Intifada passando per i conflitti in Afghanistan e Irak. Inoltre assiste a dibattiti con centralini aperti e ospiti provenienti dalla società civile. E vede telegiornali con notizie in tempo reale e approfondimenti puntuali». Insomma, un successo che in breve raggiunge un pubblico di 35 milioni persone in tutto il pianeta. Ma l'emiro cosa ci guadagna? «Dal punto di vista economico poco, ma si dice che il Qatar, grazie ad Al Jazeera, oggi compare sulle mappe geografiche. Ed è diventato un fedelissimo alleato di Washington, che dopo l'11 se ttembre non vede più di buon occhio l'Arabia Saudita, patria di Al Qaida. Non dimentichiamo che nella guerra in Iraq nel 2003 i jet Usa decollavano da portaerei alla fonda nel Qatar». Al Jazeera dunque strumento di diplomazia, anche se la sua linea non è filoccidentale? «Si, è un esempio di moderna diplomazia. La redazione, però, nonostante l'immagine che ne abbiamo, ha una pluralità di posizioni politiche e la direzione, anche su pressione degli Usa, è cambiata con un direttore più morbido. In ogni caso deve fare i conti con un pubblico che non ama molto l'occidente. Quanto all'accusa di aver fatto da megafono ai terroristi, è pur vero che nessuna tv commerciale rifiuterebbe un video di bin Laden o il filmato di un ostaggio».
Il successo di Al Jazeera e del suo azionista di maggioranza hanno costretto i governi della regione a correre ai ripari giocando sullo stesso terreno: qualità e informazione. Grazie a finanziamenti governativi sauditi, kuwaitiani, giordani, bahreiniani e libanesi nel 2003 è nata Al Arabiya, l'Araba. «Sono stati assunti giornalisti e tecnici di Al Jazeera per dar vita a una concorrente temibile che ha gli stessi format, anche se con una linea più filo occidentale. Tanto che in Iraq sono rimasti solo i loro corrispondenti, mentre quelli di Al Jazeera sono stati espulsi, e lo stesso Bush utilizza Al Arabiya per parlare al pubblico islamico». Ma il futuro della «scatola di fiammiferi nel deserto del Qatar», come l'ha ribattezzata lo stizzito presidente egiziano Mubarak, è incerto. La proprietà infatti vorrebbe cedere l'anno prossimo la sua creatura e pare che abbia già trovato acquirenti sauditi. Arriva la normalizzazione? «È un rischio, anche se la scomoda Al Jazeera ha tracciato punti di non ritorno. Ad esempio è positivo l'effetto che ha avuto sul costume islamico la presenza in video di giornaliste preparate e grintose e delle loro ospiti in rubriche femminili. Oggi - conclude Valeriani - il pubblico si è abituato a determinati standard. N on so se la democrazia può arrivare dalle parabole, ma i fermenti in Libano e le elezioni in Iraq sono indicatori di cambiamenti». Comunque vada a finire, la stagione di Al Jazeera ha aperto una strada tra integralismo e democrazia, trasformando i telespettatori da sudditi a consumatori attenti alle notizie. Che chiedono di diventare cittadini.
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