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Il Manifesto Rassegna Stampa
16.03.2005 Hamas è "resistenza", l'Urss non è mai stata antisemita
disinformazione e faziosità a tutto campo

Testata: Il Manifesto
Data: 16 marzo 2005
Pagina: 10
Autore: Michelangelo Cocco - Adriana Pollice - Joseph Halevi
Titolo: ««Con il ritiro da Gerico libereremo Saadat» - Uno sguardo sul dolore dell'altro oltre il muro - I soviet e gli ebrei»
IL MANIFESTO di mercoledì 16 marzo 2005 plaude alla "sfida" ( poi rientrata) di Abu Mazen a Israele: ovvero all'annunciata liberazione di Ahmed Saadat mandante dell'assassinio del ministro israeliano Rehavam Zeevi.
Saadat, per il quotidiano comunista, è stato ingiustamente demonizzato da Israele insieme ai "tanti "mostri" della seconda intifada", tra i quali presumibilmente anche gli organizzatori delle stragi suicide, che sono invece membri della "resistenza" palestinese, come alcune righe dopo vengono definite Hamas e Jihad islamica.

Ecco l'articolo di Michelangelo Cocco, "Con il ritiro da Gerico libereremo Saadat", a pagina 10:

È atteso per oggi il ritiro delle truppe israeliane da Gerico, ma tutte le eventuali mosse successive del governo Sharon - l'uscita da altre quattro città della Cisgiordania, la liberazione di detenuti - potrebbero dipendere dal braccio di ferro iniziato ieri con Abu Mazen sulla liberazione di un prigioniero eccellente, il segretario generale del Fronte popolare per la liberazione della Palestina Ahmed Saadat. Il presidente palestinese ha dichiarato che l'accordo che prevede l'uscita dell'esercito da Gerico implica che Saadat, che proprio in quella città è detenuto sotto controllo britannico, venga liberato. «Saadat uscirà di prigione quando Gerico sarà consegnata ai palestinesi», ha detto alla Reuters il successore di Yasser Arafat. «Era sulla lista dei ricercati, ma l'accordo che abbiamo con Israele dice che, quando l'esercito si ritirerà dalle nostre città, gli verrà concessa l'immunità - ha proseguito il capo dell'Anp. Perciò tornerà libero, gli israeliani ne sono consapevoli». Secca la reazione di Tel Aviv: «Valuteremo attentamente se c'è la possibilità di continuare con il processo di distensione dopo un messaggio così negativo e così contrario al nuovo clima che vorremmo vedere da parte di Abu Mazen», ha dichiarato il ministro degli esteri israeliano Silvan Shalom. Minaccioso il titolare della difesa, Shaul Mofaz, secondo il quale «se i palestinesi oseranno liberare Saadat, Israele lo catturerà più rapidamente di quanto possano immaginare».

Per Israele Saadat è uno dei tanti «mostri» della seconda intifada: è accusato di essere il mandante dell'omicidio - rivendicato dal braccio armato del Fplp - del ministro del turismo Rehavam Zeevi, rappresentante dell'estrema destra israeliana ucciso per «rappresaglia» dopo l'assassinio del popolarissimo Abu Ali Mustafa, segretario generale del Fplp colpito da un missile israeliano il 27 agosto 2001. Mai nessun gruppo palestinese aveva osato tanto e l'omicidio di Zeevi diede il via a una campagna di eliminazione sistematica dei leader e dei militanti del partito della sinistra palestinse (membro dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina, Olp) che, assieme ad Hamas è stato il gruppo più colpito dalle offensive israeliane. Lo stesso Saadat però non sembra credere alle parole di Abu Mazen. «Questi discorsi sul mio rilascio sono propaganda: vogliono far vedere che si stanno sforzando di farci liberare, ma in verità non possono. Abu Mazen non può nemmeno rimuovere questo citofono dal soffitto». Se Abu Mazen ha un disperato bisogno di ottenere da Israele delle concessioni che gli permettano di tenere a bada i gruppi della guerriglia, uno scetticismo simile a quello di Saadat semba destinato a dominare la maratona di colloqui tra le 13 fazioni palestinesi cominciati ieri pomeriggio nella capitale egiziana Cairo.

Poco prima dell'inizio Mohammed Nazal, portavoce di Hamas, ha dichiarato alla France presse che «non sarà possibile annunciare una tregua durante questi colloqui. Sarà possibile un periodo di calma di diversi mesi, ma non una tregua a lungo termine». Abu Mazen e il presidente egiziano Hosni Mubarak, uno dei principali sposor della riunione, spingono per una tregua lunga, almeno di un anno. Ma Hamas e Jihad islamica non sembrano disposti a concedere più di tre mesi. Troppo poco - secondo i gruppi della resistenza palestinese - quanto offerto finora da Israele, anzitutto sulla questione dei prigionieri, ma anche sul ritiro dalle città della Cisgiordanaia, promesso da Sharon ad Abu Mazen durante il vertice di Sharm el Sheik dell'8 febbraio scorso e di cui solo oggi dovrebbe vedersi la prima tappa.

Dopo Gerico dovrebbe toccare a Tulkarem, forse venerdì, e poi a Qualqilya, Ramallah e Betlemme. Tutto ciò mentre però va avanti la costruzione del muro e oltre 7.000 prigionieri (una parte dei quali in regime di detenzione amministrativa, senza formali capi d'accusa) restano reclusi nelle carceri israeliane. Se Sharon già grida che nemmeno un cessate il fuoco, ma solo il disarmo delle milizie palestinesi potrebbe favorire la pace, i gruppi della resistenza non hanno nessuna intenzione - in un momento in cui la loro popolarità è in crescita rispetto al Fatah, il partito del presidente, sempre più debole - di dichiarare una tregua a lungo termine senza ottenerne nulla in cambio.
Una mostra fotografica a Napoli che presenta una visione del tutto unilaterale del conflitto israelo-palestinese, mostrando le sofferenze dei palestinesi, ma non quelle degli israeliani vittime del terrorismo.
Pretesto per una recensione altrettanto faziosa. Che è anch'essa il prodotto di uno "sguardo" incapace di cogliere il "dolore dell'altro", quando questo "altro" è israeliano.

Ecco l'articolo di Adriana Pollice, "Uno sguardo sul dolore dell'altro oltre il muro" a pagina 17 :

«Uno sguardo che cerca di trasmettere e condividere il dolore dell'altro, per riconoscere il proprio personale dolore di fronte ai contesti di guerra». Così Bruna Orlandi descrive la sua mostra fotografica Palestina la vita oltre il muro, a Napoli fino a sabato prossimo nella Sala delle Terrazze di Castel dell'Ovo (tutti i giorni dalle 10 alle 17.00, domenica fino alle 14, ingresso gratuito). Fotoreporter dal 1988, associata a Reporters sans frontières, Orlandi ha seguito il conflitto israelo-palestinese dal 2001, testimoniando l'occupazione dell'esercito israeliano nei territori palestinesi, il movimento internazionale di interposizione pacifica, la vita quotidiana a Gaza e nei villaggi arabi circondati dal muro. Il bianconero delle immagini in mostra a Napoli racconta in modo asciutto ed essenziale l'impatto sociale e ambientale di una barriera che, unita a stati d'assedio, continui coprifuoco e posti di blocco, ha compromesso l'accesso al lavoro, alla scuola, alla salute, alla libertà di movimento della popolazione civile. Così, le tre sale raccontano le case e le botteghe da cui i palestinesi sono stati cacciati, lungo vie che ricordano la desolazione di un paesaggio post bellico, eppure ancora abitato da una popolazione «fantasma», costretta a spostarsi lungo i tetti da un quartiere all'altro. Un microcosmo spezzato dal gigantesco muro, su cui - in una delle fotografie più incisive della mostra - un ragazzino prova ad arrampicarsi mentre un altro spia il mondo al di là della barriera di cemento. Oppure le file ai posti di blocco, dove un esercito super tecnologico e iper armato sorveglia il continuo passaggio di un popolo inerme.

Foto che mostrano piccole e grandi, comunque insensate, sopraffazioni quotidiane, le cui didascalie raccontano con precisione quante inutili frontiere e quante ore di infinita attesa rendono ogni attività praticamente impossibile, trasformando i territori in un universo concentrazionario. Persino i feriti e le ambulanze non sfuggono a tale vessazione, neppure i bambini con volti sofferenti su barelle sgangherate sono sottratti alla ferrea regola delle interminabili attese che si creano ai varchi, costituiti da strette porte girevoli controllate dall'esercito. E ancora l'impossibilità di ogni attività economica, dalla coltivazione degli olivi, letteralmente spianati dagli israeliani, ai greggi di ovini bloccati ai check-point, raccontano di un universo in cui il dominante punisce il dominato, rendendogli impossibile qualsiasi autonomia. Eppure le immagini mostrano anche la continua speranza, la ricostruzione delle abitazioni con le pietre recuperate delle case demolite, le brecce nel muro attraverso cui si continuano a mandare i figli a scuola, l'ostinazione nel coltivare piccoli fazzoletti di terra miracolosamente scampati alla devastazione che li circonda, bambini che attraversano il filo spinato per andare a giocare con il pallone.

Ma forse l'immagine che meglio racconta il conflitto mostra il territorio, privo di qualsiasi presenza umana, attraversato dal muro. Un «paesaggio lunare» la cui unica presenza è una striscia di cemento che serpeggia nel territorio, spaccandolo in modo del tutto arbitrario, simbolo stesso del potere israeliano, a cui - nella sala successiva - i pacifisti palestinesi si ribellano dandogli la scalata armati di sole funi, un'ascesa simbolica di chi non china la testa di fronte all'arroganza dell'occupante.
L'Urss non è mai stata antisemita, lo prova la sconfitta che ha inferto al nazismo.
Un sofisma che consente a Joseph Halevi, nell'articolo "I soviet e gli ebrei", a pagina 12, di passare completamente sotto silenzio i molti fatti che comprovano l'esistenza di un antisemitismo sovietico.
Dai progetti di deportazione di Stalin alla pubblicistica dell'era Breznev, per fare solo due esempi.

Ecco l'articolo:

Ho letto con ritardo, dovuto allo stato di tristezza nella quale mi hanno immerso ciò che è accaduto alla nostra cara Giuliana Sgrena e la morte di Nicola Calipari, l'ottimo articolo di K. S. Karol sull'Unione sovietica e gli ebrei del 4 febbraio. Vorrei aggiungere alcune note nella stessa direzione delle osservazioni di Karol. Mio padre Eliezer Halevi già Hurwitz, apparteneva, nella Palestina del mandato britannico, al personale politico dell'Achdut ha-Avodà, partito sionista cruciale per la formazione dello stato di Israele, nonché, attraverso le formazioni militari Palmach da esso controllate, colpevole dell'espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi e della distruzione e cancellazione di interi villaggi arabi.

Di cultura russa e yddish mio padre proveniva dalla Bessarabia zarista. Rybnitza, la sua città natale, fece poi parte della republica sovietica di Moldavia. In quella zona il regime zarista aveva imposto agli ebrei una specie di residenza obbligatoria e i pogrom erano molto frequenti. Durante l'appoggio occidentale agli eserciti bianchi contro l'Armata rossa nel periodo della cosiddetta Guerra civile, mio padre e la sua famiglia sopravvissero a pogrom antisemiti causati oltre che dai bianchi anche dalle forze di invasione rumene e polacche.

Secondo i suoi racconti, essi si salvarono grazie al tifo petecchiale che fece scappare la soldataglia entrata in casa e grazie al fatto che alla fine l'Armata rossa di Trotzki riuscì a cacciare bianchi e invasori dalla città instaurando il soviet. Emigrato poi in Palestina e diventato un attivista del movimento sionista mio padre non trasformò mai lo scontro con il movimento comunista circa il sionismo in una negazione del ruolo svolto dai bolscevici nel por fine al ciclo dei pogrom.

Nel 1966, quando io già vivevo in Italia lontano dai miei, Eliezer venne inviato dal suo partito israeliano come delegato al famigerato congresso di unificazione Psi-Psdi (avendo fatto la campagna d'Italia nell'Ottava Armata britannica e avendo sposato nel 1945 mia madre Mazal Hasson, ebrea italo-sefardita di Lucca, mio padre parlava molto bene l'italiano che divenne la nostra lingua di famiglia). Ricordo ancora come a un pranzo durante il congresso un bolso quanto altolocato dirigente socialdemocratico, «riformista» dunque, espresse simpatia a mio padre per aver vissuto in Russia durante la Guerra civile ed aver subito le angherie antisemitiche dei... . bolscevici! «No mai!» rispose perentoriamente Eliezer spiegando poi come fossero andate effettivamente le cose.

I genitori e un fratello di mio padre rimasero in Urss a Rybnitza. Nel 1939 i miei nonni paterni per ordine delle autorità sovietiche vennero trasferiti a Tashkent nell'Asia centrale. Pochi al mondo sanno di questa vicenda, cioè del traferimento alla vigilia del conflitto mondiale di migliaia di ebrei dalle zone limitrofe alla frontiera occidentale dell'Urss verso l'Asia centrale sovietica. Tuttavia la diversità nel tipo di vita era tale che i miei nonni paterni chiesero il permesso di poter rientrare a Rybnitza cosa che fecero poco prima dell' invasione nazista dell'Urss. Essi morirono esattamente come nella descrizione di Karol: «La Wehrmacht faceva delle retate in grande scala degli ebrei e li uccideva». A scoprirlo fu il fratello di mio padre che combattè nelle file dell'Armata rossa dalla lontana Orel fino a Vienna.

E come ben capì Churchill quando ancora i nazisti avanzavano nel territorio dell'Urss, «l'Armata rossa sta(va) strappando le budella dal ventre dell'esercito tedesco». I «riformisti» lo vogliono occultare e scordare, io, anche come persona di origine ebraica, assolutamente no.
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