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La Stampa Rassegna Stampa
16.03.2005 Le due piazze del Libano: come denigrare quella democratica
lo spiega Giuseppe Zaccaria

Testata: La Stampa
Data: 16 marzo 2005
Pagina: 9
Autore: Giuseppe Zaccaria
Titolo: «La linea dell'hamburger taglia in due il Libano - Gli Hezbollah: Damasco non ci ha mai invasi»
LA STAMPA di mercoledì 16 marzo 2005 pubblica un articolo dei Giuseppe Zaccaria sulla situazione libanese.
La divisione tra le due piazze del paese dei cedri è ricondotta dal giornalista, in modo semplicistico, basti pensare alla presenza nell'opposizione del partito socialista druso di Walid Jumblatt, a una frattura sociale: i poveri con i siriani, i ricchi contro.
Questi ultimi sono caratterizzati in modo denigratorio: pur essendo la parte favorevole all'indipendenza del paese sono ben lontani dall'essere patrioti, infatti "sono essenzialmente libanesi che si considerano europei nati nel luogo sbagliato".
Inoltre, sono ricchi, ma "burini": "girano su auto incredibilmente costose e vivono al di sopra dei propri mezzi".
Tra di loro sono da annoverare falangisti e "fascisti", cioè i seguaci del generale Aoun.
Fra gli sciiti, invece, "si trovano bande armate ed estremisti di ogni genere", qualificazione piuttosto eufemistica per l'esercito terrorista di Hezbollah.

Ecco l'articolo:

I siriani smantellano la sede dei servizi di sicurezza, gli «hezbollah» protestano dinanzi all’ambasciata americana perchè il Congresso ha appena inserito il loro movimento nella «lista nera». Il giorno dopo la manifestazione oceanica l’estenuante gioco del pendolo riprende, una buona notizia ed una cattiva, un passo verso la stabilizzazione apparente e due nella direzione del caos.
Non sono affatto allegri, i siriani. Il taxi che scarica il giornalista italiano in via Ramlet al Bagda, nel quartiere di Beau Rivage, provoca un’impennata dei mitra dei soldati di guardia e l’uscita dalla garitta di un rabbioso nugolo di spioni in ciabatte e canottiera. Via, non si può parlare con nessuno, minacce di arresto, nessun commento tranne quello del graduato più aggressivo:«Avranno tutto il tempo di rimpiangerci, questi akarit».
La parola araba si traduce con «bastardi», i siriani abbandonano il simbolo della loro influenza più oscura e portano via i ritratti di Assad padre e figlio guardando con rimpianto a ciò che si lasciano dietro. L’estetica non era certo fra le migliori qualità dei «Mukhabarat», abbigliamento a parte avevano scelto una delle zone più anonime della bellissima Beirut, un gruppo di palazzoni sul mare che ancora aspetta l’apertura del famoso centro di bellezza di «Ibrahim Hamdo - visagiste», come recita l’enorme insegna che campeggia su quello che è poi diventato un centro di torture.
Qualche chilometro più in là i soliti pullmann scolastici portano altre mandrie di studenti verso il sobborgo di Awkar, a Nord-Ovest, dove si trova l’ambasciata degli Stati Uniti. Anche questi sono giovani acconciati in foggia moderna, gridano forte come gli altri però ragazzi e ragazze si muovono su autobus separati: ecco forse una prima differenza visibile fra quelli di piazza dei Martiri e quelli dell’ambasciata, gli oppositori e i filo-siriani, la borghesia cittadina infiammata dalla morte dell’ex premier Hariri e le falangi periferiche ispirate dagli «hezbollah».
Qualche tempo fa il saggista Michael Young ha dato una descrizione perfetta della situazione libanese. Questo Paese, ha detto, è fondato su un paradosso: ammettere che è multiculturale e scriverlo nella Costituzione è stato come stabilire che è disunito e settario. Proprio il settarismo però gli ha permesso di rimanere il più democratico dei Paesi arabi perchè ha impedito la nascita del classici dispotismi mediorientali. Ma oggi è ancora così?
Nell’arco di pochi giorni quasi due milioni di persone (due terzi della popolazione libanese) sono scese in piazza per gli «hezbollah» o per le opposizioni e dunque la società sembra in procinto di dividersi in due blocchi indefiniti dove le posizioni politiche non rappresentano prolungamenti della fede nello spazio sociale. Li chiamiamo «filo-siriani» e «democratici» ma nè l’uno nè l’altro schieramento si riconoscono appieno in queste definizioni.
«Direi che le etichette possono valere solo per le ali più estreme di ciascun gruppo», spiega Ahmed Sahed Assan, docente di sociologia all’Université du Liban, «però essendo questi gruppi tutt’altro che omogenei certi caratteri finiscono per sovrapporsi. Ci sono cristiani maroniti coi «democratici» e cristiani maroniti con i «siriani», sunniti pro e sunniti contro, solo la massa sciita è chiaramente da una parte sola, quella degli "hezbollah"».
L’altra mattina Riva Mahri, una giovane fisioterapista incontrata nella manifestazione di piazza dei Martiri spiegava la sua idea in termini elementari: «Io sono stufa dei siriani che sfruttano il Libano, preferisco gli americani così almeno potremo sfruttarli noi». Di fronte all’ambasciata statunitense Hassan Khalil, studente sciita, peccava dello schematismo opposto: «I siriani non ci hanno invaso ma sono venuti su richiesta, per 29 anni ci hanno protetti da Israele, adesso ci si vuole imporre la civiltà americana degli hamburger e delle televisioni...». Il fatto che il ragazzo indossasse una vecchia giubba con su scritto «Colorado team» non rendeva la sua protesta meno convinta.
Nel tentativo di descrivere anti e filo siriani, allora, il criterio più realistico può riguardare provenienza e reddito. In generale chi rimpiange le truppe di Damasco appartiene alle classi meno abbienti, proviene dal Beirut Ovest o dal Sud del Libano, considera gli «hezbollah» armati una protezione contro interferenze esterne ed esce poco con le ragazze poichè la morale sciita si è fatta strada.
Gli altri, gli oppositori, sono essenzialmente libanesi che si considerano europei nati nel luogo sbagliato. In genere hanno viaggiato, hanno buone disponibilità economiche, sono essenzialmente libanesi che si considerano europei nati nel luogo sbagliato, girano su auto incredibilmente costose e vivono al di sopra dei propri mezzi, l’attivismo ed i miliardi del leader assassinato rappresentavano benissimo il loro obiettivo di vita, non coltivano il sogno americano perchè lo vivono già. Poi fra i «democratici» ci sono i falangisti ed i fascisti del generale Aoun, fra gli sciiti si trovano bande armate ed estremisti di ogni genere. Ma questi sono dettagli che il nuovo Libano non vorrebbe essere costretto ad analizzare.
A Hezbollah poi, Zaccaria dedica un trattamento piuttosto benevolo: un'intervista decisamante acritica allo sceikh Asheh Abdel Al Mayd Amar, capo della segreteria politica del gruppo.
Che ha modo di ripetere proclami del tipo "una resistenza disarmata non ha senso", senza contraddittorio.

Ecco il testo:

«La resistenza popolare non si sconfigge per decreto - dice lo "sceikh" Asheh Abdel Al Mayd Amar, capo della segreteria politica. - Ci aspettavamo questa decisione e ne attendiamo molte altre, non ci fa alcuna impressione. Il nostro è un movimento di resistenza nazionale appoggiato da tutti. Abbiamo rapporti chiari con lo Stato, rappresentanti in Parlamento, abbiamo difeso il Libano da Israele e ogni altra influenza esterna».
Anche quella della Siria?
«Non ci ha mai invasi, giunse chiamata dal governo e sollecitata dalla comunità internazionale. La Banca Mondiale ha concluso che lo spaventoso deficit dell’economia non dipende da appropriazioni siriane ma dall’incredibile corruzione della classe politica libanese».
Oggi il Paese è spaccato.
«Siamo stati i primi a dichiararci contro le manifestazioni, vogliamo che si riprenda il dialogo anche per far capire agli Usa che il Libano è unito nell’aspirazione alla sovranità. E’ inutile guardare le piazze con un occhio solo. E’ una suddivisione falsa come falso è dire che le opposizioni fanno il gioco degli Usa. I libanesi di ogni parte vogliono finalmente la piena indipendenza e l’avranno senza bisogno di nuovi «patronages».
Si vota a maggio e nessuno sa valutare la vostra forza.
«Non rilasciamo tessere di appartenenza, ma rappresentiamo la maggioranza degli sciiti che sono un terzo del Paese, circa un milione e mezzo di persone».
Fra cui gruppi armati.
«Che resteranno, una resistenza disarmata non ha senso».
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