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Il Manifesto Rassegna Stampa
15.03.2005 L'ideologia e i pregiudizi al posto dei fatti
il Medio Oriente secondo il quotidiano comunista

Testata: Il Manifesto
Data: 15 marzo 2005
Pagina: 11
Autore: Maurizio Matteuzzi - Ali Rashid - Michele Giorgio
Titolo: «Il pacifista Sharon si siede sul Muro - Vicini ad Aziz - In Libano la carica di Jumblatt»
IL MANIFESTO di martedì 15 marzo 2005 pubblica a pagina 11 un articolo di Maurizio Matteuzzi, "Il pacifista Sharon si siede sul muro".
La tesi di Matteuzzi è espressa nelle prima frase, "Ariel Sharon, il nuovo uomo di pace, pretende tutto dai palestinesi ma concede molto poco, anche se fa molto fumo che in tanti giurano sia arrosto".
Il resto dell'articolo è un lungo corollario a questo assunto. I fatti, o a la loro versione distorta, vi sono considerati esclusivamente come pezze d'appoggio a una tesi precostituita.
Così l'annunciato ritiro israeliano da 24 insediamenti illegali non è altro che "fumo" perchè "tutti" gli insediamenti sono "illegali", la richiesta della definitiva rinuncia al terrorismo da parte di tutti i gruppi palestinesi "gela" gli sforzi di Abu Mazen, come pure quella, avanzata da Peres, della rinuncia al "diritto al ritorno" dei profughi del 48.
Anche l'opposizione dei coloni alla politica di Sharon non è che uno specchietto per le allodole, che consente al premier di passare per moderato.

E' evidente che fatti e logica cedono il terreno, nell'analisi di Matteuzzi, all'ideologia e al pregiudizio.
Occorre comunque ricordare quali siano le "pretese" che Sharon avanza nei confronti dei palestinesi: che le diverse fazioni rinuncino al terrorismo e, quindi, ad essere armate.
Che questa sia una precondizione per un trattato di pace duraturo tra Israele e il futuro Stato palestinese è piuttosto evidente: gruppi armati non controllati dallo Stato potrebbero sempre violare, altrimenti, gli impegni da esso assunti. Che il disarmo dei gruppi terroristici costituisca altresì una precondizione perchè lo stesso Stato palestinese non corra il rischio di precipitare nell'anarchia armata e nella guerra civile dovrebbe essere altrettanto evidente.
Ma non è scontato che questo interessi al MANIFESTO.

Ecco l'articolo:

Ariel Sharon, il nuovo uomo di pace, pretende tutto dai palestinesi ma concede molto poco, anche se fa molto fumo che in tanti giurano sia arrosto. Nella riunione del governo israeliano di domenica Sharon, dopo avera incontrato il segretario dell'Onu Kofi Annan in visita a Gerusalemme, ha annunciato lo smantellamento di 24 insediamenti nei territori palestinesi - senza dire però quando e che ne sarà degli altri 81 sorti con i fondi governativi negli ultimi 10 anni - che lo stesso rapporto governativo aveva definito «totalmente illegali». Ma ieri ecco Sharon ufficializzare il percorso definitivo del Muro dell'apartheid, che incurante delle proteste dei palestinesi e della «comunità internazionale», conferma il taglio in due di Gerusalemme e di Betlemme così che la parte orientale e araba della città; Maale Adumim, il più grande insediamente israeliano nella Cisgiordania; e la tomba di Rachele possano rimanere all'interno di Israele. «Questa è una politica di fatti compiuti e non di negoziati», ha reagito il negoziatore palestinese Saeb Erekat. Ma il De Gaulle israeliano non si fermerà certo per le proteste dei palestinesi. Ci sarebbe anche la «comunità internazionale» che un'infinità di volte ha dichiarato illegali sia gli insediamenti israeliani in Cisgiordania e Gaza - tutti - sia, l'anno scorso per voce della Corte internazionale dell'Aja, il muro della vergogna, ingiungendo - invano - allo Stato ebraico di ritirarsi dentro i confini del'67 e di abbattere la «barriera difensiva». E allora? Come ha risposto ieri Kofi dopo aver incontrato a Ramallah Abu Mazen (poi Abu Ala) e aver manifestato un certo ottimismo per «l'opportunità di rilanciare il processo di pace, applicare la roadmap e puntare al giorno non lontano in cui uno stato palestinese sarà creato accanto a quello israeliano», lui e l'Onu non possono fare molto di fronte al sistematico rifiuto di Israele di inchinarsi alle risoluzioni 242 e 338 nonché a quelle sul ritorno dei profughi palestinesi del `48: «Noi siamo solo parte del Quartetto» (con Usa, Ue e Russia), «non gli attori principali». Una risposta che non è piaciuta alle centinaia di palestinesi che si sono ammassati davanti ai cancelli della Muqata durante il colloqui con Abu Mazen per protestare contro la sua decisione di non andare a vedere di persona cosa sia e cosa significhi il muro. Ancora. Oggi Abu Mazen andrà al Cairo per incontrare i 13 gruppi palestinesi e cercare di strappare una tregua con Israele. Gli egiziani hanno proposto che la tregua duri un anno e Hamas, il gruppo in più forte ascesa (un sondaggio lo dà al 32% contro il 36% di al-Fatah), si è detto disposto a sospendere le sue azioni armate - ma a condizione, improbabile, che Israele liberi gli 8 mila prigionieri palestinesi - e a partecipare alle prossime elezioni in Palestina. Ed ecco Sharon che ieri ha gelato gli sforzi di Abu Mazen: «Il cessate il fuoco a cui i palestinesi stanno lavorando non è una soluzione», ci vuole «lo smantellamento» dei gruppi «militanti» non i negoziati e la loro cooptazione. A dargli una mano ecco il compagno laburista Shimon Peres, attualmente vice-premier: Abu Mazen deve mostrarsi un «leader politico responsabile e lungimirante» e costringere i palestinesi «a rinunce dolorose» su un altro dei nodi di fondo: quello del ritorno dei profughi cacciati da Israele nel `48.

In questo teatrino piuttosto avvilente, i coloni oltranzisti fanno la parte dei cattivi in commedia così che Sharon e Peres possano sbandierare tutta la coraggiosa valenza gaullista della loro politica. Ieri sera gruppi di coloni ultrà hanno inscenato una gazzarra bloccando Tel Aviv, mentre quelli di Gaza sono stati confortati da una delegazione di ebrei americani che li hanno incoraggiati a tenere duro e hanno garantito che in luglio, al momento del ritiro, loro arriveranno in migliaia per impedire il ritiro.

Una notizia incoraggiante c'è ed è la lettera scritta a Sharon da 250 studenti liceali israeliani per dire che «la politica di occupazione è immorale e contrasta con i principi della democrazia», per cui la loro «coscienza» e il «senso civico», li «costringe a rifiutare l'arruolamento» nonostante la prospettiva certa del carcere. La lettera ha suscitato subito una vasta eco in Israele. Ma la sinistra alla Peres si è subito dissociata dall'iniziativa dei 250 studenti mettendola sullo stesso piano delle minacce dei militari ultrà di ribellarsi all'ordine di sgombro e accusando i coraggiosi refusnik di «fare il gioco della destra».
Al Rashid, Primo segretario della delegazione dell'Anp in Italia, sempre a pagina 11 lancia un appello, "Vicini ad Aziz", in favore del leader del "movimento palestinese per la cultura e la democrazia" detenuto in Israele con gravi accuse di terrorismo.
Rashid garantisce ai lettori del quotidiano comunista che Aziz è innocente, che è sottoposto a tortura, che è ricattato, che chi testimonia che ha partecipato all'uccisione a sangue freddo di un soldato israeliano è "disposto" a dire il falso. Chi ignora il carattere democratico di Israele e i controlli che vi sono esercitati sull'operato dei diversi poteri può anche credergli sulla parola.
La completezza dell'informazione non richiederebbe però di dare spazio anche alla posizione delle autorità israeliane che accusano Aziz?

Ecco l'articolo:

Il movimento palestinese per la cultura e la democrazia, nato quattro anni fa, ha fatto un grande sforzo per dare cittadinanza alla cultura della democrazia e della non violenza, praticandola in luoghi difficili e in condizioni avverse e sfavorevoli. Il movimento ha avuto maggiore radicamento nel campo profughi di Tulkarem, un luogo tra i più sfortunati al mondo, grazie al lavoro straordinario di un valoroso compagno che molti di voi hanno conosciuto. Nella sede del movimento e dell'associazione Kufia, dopo il lavoro, l'insegnante che tutti conoscono come Aziz ogni giorno trascorreva tutte le ore che restavano della sua giornata insieme ai giovani e ai vecchi del campo a parlare di democrazia, di storia, di lotta non violenta che sottrae i ragazzi alla disperazione e li salva dalla rassegnazione, aiutandoli a incanalare la rabbia nel ragionamento, nel gioco, nello studio e in mille iniziative creative che mitigano il dolore e lasciano filtrare un barlume di luce.

Molti di noi hanno dedicato attenzione, aiuto e viva speranza al suo impegno. Colgo l'occasione per ringraziare il sindaco di Terni, la provincia di Roma, la provincia di Napoli, le comunità montane dell'Umbria e del Molise, l'Arci, la Cgil Fp del Lazio, la Fiom e la comunità montana di Omegna, i giovani comunisti di Napoli e molte donne e uomini che ci hanno aiutato a realizzare i programmi di adozione a distanza, il progetto di apicoltura, la cooperativa di donne per l'allevamento degli ovini, i corsi per il doposcuola e il tempo libero, i campi estivi per ragazzi israeliani e palestinesi organizzati insieme ad associazioni israeliane progressiste. Aziz ha saputo gestire queste attività dimostrando a tutti l'alto significato dell'impegno politico al servizio della comunità e dando alla lotta un significato positivo e costruttivo, fondato sulla vita e non sulla morte.

Il mese scorso ho sentito spesso Aziz, che a Ramallah, Bir Zeit e Tulkarem aveva organizzato manifestazioni per la liberazione di Giuliana Sgrena.

Aziz è stato arrestato 10 giorni fa e da allora si trova nel carcere di Kishom. Secondo il suo avvocato, Mahagneh, e secondo il comitato contro la tortura in Israele, Aziz è sottoposto a torture fisiche e psicologiche definite «di inusuale violenza persino per Israele», i servizi di sicurezza israeliani vogliono strappargli una confessione in cui dovrà ammettere di essere a capo di una cellula terroristica della Jihad islamica, altrimenti diffonderanno un'accusa infamante contro di lui sorretta dalla testimonianza di persone pronte a giurare il falso e a dichiarare che Aziz ha partecipato all'uccisione a sangue freddo di un soldato israeliano. È chiaro che lo scopo è sgretolare la credibilità e l'impegno di Aziz.

È la riprova che i pacifisti veri sono i nemici più temibili per i guerrafondai.

Ad Aziz deve andare tutto il nostro sostegno ela solidarietà di chi crede nella pace e nella giustizia e di chi ha ancora la forza di indignarsi per la bassezza di chi usa il ricatto contro le persone oneste, forte solo dei suoi muscoli, della sua ignorante arroganza, della cattiveria gratuita.

Chi volesse esprimere la sua solidarietà ad Aziz, può farlo inviando fax o e-mail al governo israeliano attraverso l'ambasciata in Italia (tel. 0636198500, fax 0636198555, e-mail info-coor@roma.mfa.gov.il). Per informazioni sui progetti di Kufia, potete scrivere all'indirizzo paolag18@tin.it).

*Primo segretario della delegazione dell'Anp in Italia
Sempre a pagina 11 IL MANIFESTO pubblica un pezzo sul Libano. Un'intervista di Michele Giorgio a Walid Jumblatt.
Il quotidiano comunista, a proposito della manifestazione di Hezbollah, era sicuro: in piazza c'era almeno un milione di persone.
L'opposizione libanese, però, non incontra le sue simpatie, ragion per cui quando scrive delle sue manifestazioni riscopre la prudenza: il milione di libanesi in piazza all'ultima manifestazione per chiedere il ritiro siriano c'era solo "secondo alcune fonti".
Giorgio ci informa poi del fatto che a quest'ultima manifestazione hanno partecipato anche "militanti di movimenti di estrema destra che chiedevano a gran voce la liberazione di Samir Geagea, il famigerato capo delle Forze Libanesi e responsabile di gravi massacri".
A parte il silenzio sui legami tra Geagea e la Siria durante la guerra civile libanese è interessante notare come per i "militanti di estrema destra" cristiano-maroniti il consenso popolare non valga come legittimazione, a differenza di quanto avviene, per il giornalista del MANIFESTO, nel caso di Hezbollah, forse in virtù del carattere "progressivo" dell' antisemitismo nazista di questa organizzazione.

Di "estrema destra" anche i sostenitori dell'"ex capo di stato maggiore, generale Michel Aun, fuggito in Francia nel 1990 dopo essersi opposto con i suoi soldati all'accordo di Taef che ha messo fine alla guerra civile che aveva insanguinato il paese tra il 1975 e il 1990" (scompaiono da questa sommaria biografia alcuni particolari: Aoun è andato in esilio dopo che Beirut era stata cannoneggiata per mesi da siriani, la guerra civile è stata alimentata per anni dai siriani).

L'intera intervista è condotta con domande molto critiche, che giungono a mettere in dubbio la razionalità o il disinteresse delle posizioni politiche di Jumblatt ("Lei usa toni molto duri nei confronti del capo dello stato, sembra più uno scontro di carattere personale che un confronto politico") del quale per altro è evidente il tentativo di delegittimazione ( "Jumblatt è stato per quasi trent'anni un fedele alleato di Damasco e un amico della causa palestinese. Le sue posizioni sono cambiate radicalmente nei mesi scorsi e da quando Hariri è stato assassinato, ha puntato sempre l'indice contro Damasco").

Jumblatt è stato certamente un "signore della guerra" che ha insanguinato il Libano, un amico dei terroristi e un propagatore di odio anti-israeliano: per noi questo è vero sempre. Le nostre riserve sul personaggio non valgono a giorni alterni come quelle de IL MANIFESTO, che lo apprezza quando tratta con Hezbollah e lo critica quando entra in rotta di collisione con Damasco.
Ciò che però deve essere segnalato in questo articolo è la difesa capziosa e cocciuta, che contempla anche attacchi di sapore "staliniano" ai "deviazionisti", dello status quo libanese.
E, con esso, della guerra infinita che Hezbollah , Brigate al Aqsa, Jihad islamica e Hamas vogliono essere liberi di muovere a Israele operando dal Libano e dalla Siria.

Ecco l'articolo:

Centinaia di migliaia di libanesi ¡un milione secondo alcune fonti - hanno affollato ieri piazza dei Martiri e l'intero centro di Beirut, ad un mese esatto dall'attentato in cui hanno trovato la morte Rafik Hariri e altre 16 persone. Giunti da ogni parte del paese, cristiani e musulmani assieme, per chiedere la Haqiqa, la verità, sull'assassinio dell'ex premier. Non sono mancate, come previsto, accuse da parte dei rappresentanti dell'opposizione al presidente Emile Lahud e al procuratore generale Adnan Addum. Nelle strade, tra la persone di ogni età e classe sociale che sventolavano migliaia di bandiere libanesi, c'erano però anche i militanti di movimenti di estrema destra che chiedevano a gran voce la liberazione di Samir Geagea, il famigerato capo delle Forze Libanesi e responsabile di gravi massacri. Altri inneggiavano all'ex capo di stato maggiore, generale Michel Aun, fuggito in Francia nel 1990 dopo essersi opposto con i suoi soldati all'accordo di Taef che ha messo fine alla guerra civile che aveva insanguinato il paese tra il 1975 e il 1990. Proprio Aun si prepara a tornare in Libano. Lo ha annunciato ieri lui stesso in una conferenza stampa tenuta a Parigi, aggiungendo che potrebbe partecipare alle elezioni di maggio. L'opposizione si sente più forte dopo la manifestazione di ieri e il suo principale esponente, il leader druso Walid Jumblatt, si è detto soddisfatto e ha annunciato nuove mobilitazioni in nome della «verità» e del ritiro dei siriani dal Libano. Jumblatt è stato per quasi trent'anni un fedele alleato di Damasco e un amico della causa palestinese. Le sue posizioni sono cambiate radicalmente nei mesi scorsi e da quando Hariri è stato assassinato, ha puntato sempre l'indice contro Damasco. Lo abbiamo intervistato nella sua residenza, Mukhtara (un castello del XII secolo), sullo Chouf, dove vivono la maggioranza dei drusi libanesi.

A un mese dall'assassinio di Rafik Hariri, le varie formazioni dell'opposizione sembrano aver raggiunto il loro obiettivo principale: il ritiro delle truppe siriane dal territorio libanese. Nonostante ciò continuate le proteste e tenete sotto pressione il presidente Emile Lahud.

La nostra lotta comune continua perché è essenziale sapere tutta la verità sulla morte di Hariri, che, a mio avviso, i servizi segreti libanesi e siriani stanno nascondendo, e ottenere le riforme istituzionali necessarie per il futuro democratico del nostro paese. A ciò si aggiunge l'imperativo della rimozione di Lahud dal potere: sino a quando ci sarà lui alla presidenza non potrà esserci speranza per il nostro paese.

Lei usa toni molto duri nei confronti del capo dello stato, sembra più uno scontro di carattere personale che un confronto politico.

Non è così, perché qui si sta decidendo il futuro dell'indipendenza del Libano e gli scontri personali sono marginali. Lahud deve andare via e subito. A confermare questa urgenza è stato il suo discorso di sabato scorso. E' rimasto in silenzio per un intero mese sull'attentato ad Hariri e nel momento in cui tutti si aspettavano da lui segnali positivi e informazioni sulle indagini, è sceso in campo per lanciare avvertimenti minacciosi all'opposizione. Un capo dello stato deve essere neutrale e Lahud non lo è.

Lei ha avuto rapporti stretti con la Siria negli anni passati. Da dove nasce la sua animosità nei confronti di Damasco

La Siria ha svolto un ruolo importante nel nostro paese ma avrebbe dovuto ritirare i suoi soldati e i suoi agenti segreti già da lungo tempo perchè i libanesi hanno il diritto di vivere in libertà e indipendenza. Damasco non ha compreso che i tempi sono cambiati e ha insistito nel voler controllare la vita politica libanese. Gli emendamenti voluti dalla Siria alla nostra costituzione allo scopo di estendere il mandato a Lahud (lo scorso settembre, ndr) sono stati l'elemento scatenante della rabbia popolare e solo oggi Damasco comincia a capire gli errori commessi. L'inizio del ridispiegamento dei soldati siriani è un passo nella giusta direzione ma il ritiro dovrà essere completato prima delle elezioni (previste a maggio, ndr) altrimenti gli elettori non potranno esprimersi liberamente.

Allo stesso tempo il Libano è spaccato, a giudicare dalla partecipazione alle manifestazioni, di diverso segno politico, di questi ultimi giorni

La nostra società è democratica e ognuno può e deve esprimere liberamente le sue posizioni politiche. Invito però i giornalisti ad aspettare le elezioni per parlare di maggioranza e minoranze.

Lo schieramento delle forze di opposizione è molto vario, accanto a partiti e gruppi progressisti ci sono anche movimenti di destra che in passato hanno applaudito alla occupazione israeliana del Libano e ora chiedono l' applicazione della risoluzione Onu che, oltre al ritiro siriano, prevede anche il disarmo di Hezbollah. Lei si è più volte espresso contro la 1559 e a favore dell'accordo di Taef. Come concilia le sue posizioni con quelle della destra?

Il mio punto di vista è chiaro, dobbiamo collaborare pienamente con l'Onu ma la soluzione della crisi libanese passa solo attraverso l'accordo di Taef. Hezbollah non può essere disarmato perchè è un movimento di resistenza all'occupazione (israeliana). Senza dubbio ci sono divergenze nello schieramento dell'opposizione, nessuno può negarle. Ma adesso è il momento di raggiungere due obiettivi fondamentali: il ritiro siriano e l'accertamento della verità sull'assassinio di Hariri. Su ciò l'accordo è totale. In futuro ognuno farà le sue scelte nel rispetto delle regole democratiche.

Nel corso del suo recente tour all'estero, lei ha mostrato un atteggiamento più flessibile nei confronti del premier Karame, che ha cominciato le consultazioni per la formazione di un governo di unità nazionale. Ha detto, secondo le agenzie di stampa, che bisogna dargli una «possibilità». E' possibile immaginare l'ingresso dell' opposizione nel nuovo esecutivo?

Non credo. Karame avrà una possibilità di successo solo se annuncerà una svolta vera, se accoglierà le nostre principali richieste. Non faremo mai parte di un governo che non sta facendo nulla di serio per arrestare i responsabili dell'assassinio di Hariri e che non ha ancora rimosso dall'incarico i responsabili dei servizi di sicurezza. In realtà ci prepariamo a dare battaglia a Karame, sino ad ottenere il cambiamento che i libanesi desiderano.
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