Il nuovo Medio Oriente: Libano e Iraq approndimenti e anlisi di Rolla Scolari e Carlo Panella
Testata: Il Foglio Data: 11 marzo 2005 Pagina: 1 Autore: Rolla Scolari - Carlo Panella Titolo: «Nuova Beirut - nuovissimo Iraq»
IL FOGLIO pubblica in prima pagina l'articolo di Rolla Scolari "Nuova Beirut", che riportiamo: Beirut. Omar Karame, premier libanese appena riconfermato a guidare il governo di transizione in Libano, ha detto ieri che vuole dare vita a un esecutivo di unità nazionale. Si era dimesso soltanto dieci giorni fa, ma la maggioranza ha proposto nuovamente il suo nome. La mossa è stata da tutti giudicata un duro colpo per l’opposizione che aveva ottenuto, grazie alle proteste di piazza, la sua caduta. "Se vedranno in me un ostacolo sono pronto a farmi da parte", ha detto Karame ieri, aggiungendo che se non sarà formato un governo in tempi brevi, è possibile un rinvio delle elezioni, previste a fine maggio. L’opposizione, per quanto indebolita dal forte impatto mediatico della manifestazione indetta martedì da Hezbollah e dalla nomina del premier, non sembra voler trattare. Ha fatto sapere che, se tutte le sue condizioni non saranno accettate, soprattutto il completo ritiro delle forze siriane dal paese prima del voto, non entrerà a far parte del governo. Ieri mattina presto, la piazza dei Martiri, quartier generale dell’opposizione in strada, era vuota. La forte pioggia ha tenuto lontano tanti ragazzi che solitamente passano la notte tra le tende, ma certamente il colpo della rinomina di Karame ha scoraggiato molti. C’è chi si chiede sulla stampa internazionale se la cosiddetta Rivoluzione dei Cedri non si sia già prosciugata senza aver ottenuto nulla e se la Siria non abbia finora scherzato, ridispiegando le sue truppe sul territorio senza però aver alcuna intenzione di ritirarle, come già successo più volte in passato. "L’opposizione continuerà, si può esserne certi – dice al Foglio Denise Ammoun, storica e giornalista libanese e corrispondente per i settimanali francesi Le Point e La Croix, collaboratrice del libanese Magazine – c’è una congiunzione di forze internazionali che non si ripeterà un’altra volta e l’opposizione sa che deve approfittarne". Spiega, seduta in un caffè dallo stile americano nel quartiere di Hamra, che la speranza degli organizzatori delle manifestazioni di piazza dei Martiri era quella di ottenere un governo neutro, composto da tecnocrati: non accetteranno l’esecutivo che inizierà a formarsi all’inizio della settimana prossima. Vogliono il ritiro totale dei soldati di Damasco prima delle elezioni. "Rimettere al potere qualcuno che è stato forzato a dare le dimissioni significa dire ‘chi se ne frega’ all’opposizione". Eppure, dice, la Siria non è in una posizione di forza, è all’angolo: le pressioni internazionali su di lei sono troppo forti. Quelli dell’opposizione continueranno ad andare avanti con le loro richieste, non accetteranno elezioni con questo governo e tutto sarà posticipato". Il premier designato, Omar Karame, ha detto che vuole un esecutivo di unità nazionale ma l’opposizione non vuole partecipare al governo. La crisi sembra dunque inevitabile. La piccola giornalista, autrice di una mastodontica e dettagliatissima storia del Libano in due tomi (Histoire du Liban contemporain), il secondo appena uscito per Fayard, è una grande conoscitrice della politica del paese levantino e nei suoi articoli fotografa con attenzione il fenomeno libanese dell’opposizione pluralistica. Davanti a una tazza di caffè turco e a un panino al formaggio racconta come questa nuova forza politica non si aspettasse la rinomina di Karame. "L’opposizione ha una strategia globale, che ora deve rivedere: è necessario capire se vuole andare verso il vuoto istituzionale, e quindi la crisi, o verso il negoziato". Certo, dice, quello che gioca a suo favore è avere dalla sua parte il presidente americano George W. Bush e tutta la comunità internazionale. Non esclude che i membri dell’opposizione possano voler "provocare la crisi per arrivare a un cambiamento". Per quanto riguarda la Siria, spiega Ammoun mentre fuori dal caffè il traffico della capitale aumenta e le strade di Hamra si riempiono di studenti universitari in pausa pranzo, è una prima assoluta che Damasco abbia parlato di ritiro. "Il discorso del presidente Bashar el Assad è stato eccellente, lui è stato molto abile. Ora bisogna vedere quali promosse manterrà". Ripete che l’opposizione resta multiconfessionale e che continuerà a portare avanti le sue richieste e le sue idee. "E’ pluralistica, ma solida e non è scoraggiata; le ultime svolte politiche potrebbero rafforzare il suo spirito: per il momento i suoi membri hanno uno scopo comune, dopo le elezioni si vedrà". Oggi i partiti filosiriani hanno indetto una manifestazione a Tripoli, nel nord del paese, sabato a Nabatieh, nel sud. Lunedì tocca di nuovo alla piazza dei Martiri. E anche se siamo nel pieno della crisi e del vuoto di potere, "non si andrà verso una guerra civile", come profetizza allarmisticamente la stampa internazionale, tranquillizza Ammoun. Le condizioni sono molto diverse da quelle del 1975, lo slogan da entrambe le parti è "il dialogo". E quello di Carlo Panella, "Nuovissimo Iraq": L’accordo raggiunto ieri tra i partiti curdi iracheni e la "lista sciita" per la formazione del governo guidato da Ibrahim Jaafari dimostra l’elevato livello di maturità raggiunto ormai dalle forze politiche di Baghdad e dintorni. Il problema più difficile della trattativa riguardava infatti lo status di Kirkuk, la cui definizione è fondamentale per l’orgoglio curdo (la considerano la loro vera capitale), che è però considerata città araba dagli iracheni (ma solo perché Saddam ha letteralmente deportato con la violenza 100 mila suoi abitanti curdi, sostituendoli con arabi) e ha nel suo territorio i più antichi pozzi di petrolio del paese, da cui si estrae la metà della produzione complessiva. Per complicare ulteriormente il quadro, la Turchia negli ultimi mesi ha più volte avvisato che considera proprio interesse nazionale impedire che Kirkuk diventi capitale del Kurdistan, anche perché vi vive una consistente minoranza di turcomanni. Le trattative tra curdi e "lista sciita" (che comprende anche il partito turcomanno) sono andate tanto per le lunghe che ieri mattina Iyyad Allawi aveva annunciato un suo viaggio in Giordania per verificare con re Abdullah (che nei prossimi giorni si recherà in visita da George W. Bush) se era possibile un suo rientro in gioco quale premier, come figura di mediazione, nonostante il suo scarso successo elettorale, dopo una rottura tra curdi e "lista sciita" che pareva ormai inevitabile. Ma un mancato accordo tra le forze che controllano l’80 per cento del Parlamento su Kirkuk darebbe un segnale politico grave di disunione delle forze politiche nazionali e questo ha convinto i due partiti curdi (Puk e Pdk) a dare ennesima prova di prudenza. Nella serata di ieri è stato così raggiunto un accordo di governo che in realtà rappresenta un netto ridimensionamento delle posizioni curde. L’intesa infatti prevede solo il rientro nella città dei 100 mila curdi che erano stati deportati da Saddam (in genere nelle zone più malsane del sud) e affida la soluzione definitiva dello status della città ai lavori della Costituente (che aprirà solennemente le sue sedute il 16 marzo, data non casuale, perché è il 17° anniversario della strage di Hallabija, in cui Alì il chimico, uccise con i gas 4-5 mila curdi). "Per quanto riguarda Kirkuk – hanno spiegato il curdo Fuad Masoum e lo sciita Ali al Dabagh – abbiamo deciso di risolvere la questione in due fasi: nella prima, il nuovo governo si è impegnato a normalizzare la situazione della città, la seconda, che riguarda l’annessione di Kirkuk al Kurdistan, sarà lasciata aperta fino alla redazione della Costituzione". Naturalmente l’intesa riguarda anche tutti gli altri aspetti, sia istituzionali sia di "programma costituzionale", che, come ha dichiarato il portavoce dell’Alleanza degli iracheni uniti, Yawad al Taki, "saranno affrontati nei prossimi due giorni con i dettagli del documento politico". La presidenza della Repubblica sarà sicuramente affidata al segretario del Puk (e membro dell’Internazionale Socialista) Jalal Talabani, mentre il segretario del partito sciita Dawa, Ibrahin Jaafari, sarà il primo ministro. Il fatto che un curdo, per di più una personalità di rilievo come Talabani, assurga alla più alta carica del nuovo Iraq è l’ennesimo segnale forte che si irradia da Baghdad a tutto il medio oriente, e rappresenta visivamente la fine definitiva del panarabismo. Con questa scelta infatti l’Iraq indica di non essere più una "nazione araba", ma di essere uno Stato federale e multietnico. Un messaggio eversivo per la Siria e l’Iran (che perseguitano i loro curdi) e anche uno stimolo e un messaggio rassicurante per la Turchia (che temeva un contagio irredentista curdo che non si è mai verificato). Talabani è molto apprezzato ad Ankara proprio per la sua moderazione ed è un forte garante di stabilità e unità nazionale. Nessun problema – nonostante l’allarme isterico dei mass media internazionali politically correct – sul tema della sharia, su cui i curdi hanno più volte detto di non intendere fare alcuna concessione all’ala integralista, peraltro minoritaria, dell’alleanza sciita sostenuta dal grande ayatollah Ali al Sistani. Nonostante le pressioni che vengono da ambienti fondamentalisti – il Wall Street Journal riferisce anche da parte di alcune influenti donne irachene – la futura Costituzione non si baserà sulla sharia, ma – come anticipato dai due partiti curdi – sul diritto internazionale, anche se sicuramente vi sarà esplicitato l’impegno a non violare la Legge coranica. Il problema del recupero dei rappresentanti sunniti alla vita politica, dopo il fallimento del loro tentativo di boicottare le elezioni, sarà infine affrontato nella composizione del nuovo governo. La loro presenza, come ministri, come più volte anticipato da Bagher al Hakim, leader dello sciita Sciri, sarà infatti proporzionale al peso che i sunniti hanno nel paese e non ai loro parlamentari eletti. Riportiamo anche la notizia di due gravi atti terroristici in Iraq Kamikaze contro una moschea sciita a Mosul: 30 vittime (25 feriti). A Baghdad, un commando di al Zarqawi ha assassinato il capo di una commissariato di polizia e due agenti a un posto di blocco Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.