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Il Foglio Rassegna Stampa
11.03.2005 Discutere sul terrorismo (facendo tacere le voci scomode) per non combatterlo
la vera funzione della conferenza internazionale di Madrid

Testata: Il Foglio
Data: 11 marzo 2005
Pagina: 1
Autore: un giornalista
Titolo: «Don Ferrante a Madrid s'arrovella sulla parola»
IL FOGLIO di venerdì 11 marzo 2005 pubblica a pagina 1 dell'inserto l'articolo "Don Ferrante a Madrid s'arrovella sulla parola "terrorismo" ", che riportiamo:
Madrid. Per ricordare l’anniversario della strage di Atocha, che fece centinaia di vittime a Madrid un anno fa, il governo spagnolo ha indetto una conferenza internazionale su "Democrazia, terrorismo e sicurezza". Lo spirito che pervade il summit è di forte ostilità alla politica di guerra al terrore lanciata dall’Amministrazione americana, e questo, vista la scelta di José Luis Rodríguez Zapatero di ritirare precipitosamante il contingente militare dall’Iraq, è comprensibile. Un po’ meno ragionevole, anche da quel punto di vista, è il dibattito piuttosto paradossale che si è svolto sulla definizione del terrorismo.Al centro delle polemiche che si sono svolte nel gruppo di lavoro che si occupava di "Risposte internazionali al terrorismo" sono state le idee di parte ebraica. Sono state contestate le parole dell’ex capo del Mossad,
secondo cui Yasser Arafat "ha appoggiato e fomentato il terrorismo", e persino il Centro Simon Wiesenthal, perché sostiene che gli attentati suicidi sono crimini contro l’umanità. Invece, secondo l’egiziano Abdel Moneim Said Ali, "non bisogna confondere il terrorismo con la resistenza". Anche la proposta del canadese Fen Hampson, che dirigeva il seminario, di considerare terroristico qualsiasi attacco contro popolazioni civili, indipendentemente dalle motivazioni, è stato messo in dubbio da quelli che si domandano in che categoria includere gli attentati ai coloni ebrei nei territori, che sono civili ma, secondo i palestinesi, spesso sono armati. Poi ritornano, ovviamente, i soliti riferimenti al "terrorismo di Stato" e al "diritto a resistere all’occupazione" tanto cari agli odiatori di Israele e dell’America. Si potrebbe andare avanti a lungo a elencare le sottigliezze classificatorie che sembrano rendere così difficile definire il terrorismo. Nella letteratura italiana c’è un famoso personaggio, peraltro spagnolesco, il Don Ferrante dei Promessi sposi che sembra essere stato preso a modello dagli "esperti" radunati nella capitale spagnola. Don Ferrante, ferrato nella filosofia aristotelica, viveva a Milano durante la pestilenza raccontata da Alessandro Manzoni. Applicando le sue categorie di analisi, si convinse che la peste non era né sostanza né forma, non si prestava alla suddivisione della materia in acqua, terra e fuoco, e quindi non poteva che essere effetto di un’influenza astrale. Così non prese alcuna precauzione e morì di peste, come dice Manzoni, "come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle". Con tutto il rispetto, sembra che la domanda posta dal segretario dell’Onu Kofi Annan a Madrid, quella di definire con precisione il terrorismo, in modo da poterlo poi dichiarare fuori legge, segua un po’ la logica dello sfortunato eroe manzoniano. La pretesa giuridicista e classificatoria di trasformare un fenomeno reale, storico e politico, in un concetto è di per sé fuorviante. Sarebbe lo stesso se si volesse trasformare altri processi politici, la democrazia, la guerra, la libertà, in concetti costruiti sulla logica formale. I matematici, che di questa materia s’intendono, dopo essersi a lungo arrovellati su come definire la loro disciplina, hanno concluso che è matematica quella che la maggior parte dei matematici considera tale. Forse per il terrorismo bisognerebbe applicare la stessa visione pragmatica, e quindi necessariamente imprecisa, ma che permette di agire invece d’imbrigliarsi in discussioni sofistiche che hanno un aspetto esterno insopportabilmente scolastico, e una natura reale profondamente elusiva. Il terrorismo c’è, e in Europa nessuno dovrebbe saperlo meglio della popolazione di Madrid che un anno fa ne ha subito le devastanti conseguenze. Si può scegliere di combatterlo o di definirlo, come Don Ferrante doveva decidere se proteggersi dalla peste o preoccuparsi di inserirla nelle sue caselle mentali. La definizione non è la premessa alla lotta, è la sua alternativa. I terroristi che hanno fatto saltare in aria i treni di pendolari nelle stazioni di Madrid volevano che la Spagna si ritirasse dall’Iraq, e la Spagna di Zapatero lo ha fatto. Perché non aveva chiaro se quelli fossero terroristi, mancando una definizione "scientifica", o perché non sapeva che cosa volessero? Ora, per definire il proprio impegno contro il terrorismo (o per spiegare a posteriori il suo disimpegno), la Spagna organizza una stucchevole ricerca filologica e giuridica, non come premessa, ma in alternativa a un impegno politico. L’America, che ha una cultura più pragmatica, quando è stata assalita dal terrorismo con gli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono, non si è arrovellata a cercare definizioni. Ha cercato le centrali del terrore e ha combattuto e combatte per distruggerle dovunque. Agli esperti riuniti a Madrid, come a un moderno Don Ferrante, questo modo di agire appare grossolano, poco rispettoso di categorie logiche e giuridiche che sono invece tanto utili a procrastinare o eludere l’azione. Combattere il terrore con convegni e risoluzioni è senza dubbio più elegante che sporcarsi le
mani in difficili azioni militari o in complesse iniziative politiche. Ma porta a morire imprecando alle stelle, e questo le vittime di Atocha non lo meritano.
Sugli ospiti sgraditi e di fatto messi nelle condizioni di non partecipare alla conferenza, "Quegli invitati scomodi lasciati a casa":
Madrid. Per questa prima Conferenza internazionale su democrazia, sicurezza e terrorismo il premier spagnolo, José Luís Rodriguez Zapatero, voleva fare le cose in grande. Per questo il parterre degli invitati era prestigioso e studiato apposta per raccogliere esperti "di diverse inclinazioni" sul tema. L’obiettivo sotteso all’incontro, patrocinato dal gruppo editoriale Prisa, era la promozione del fiore all’occhiello della politica estera di Zapatero: quell’"alleanza di civiltà" che, nelle intenzioni del governo, dovrebbe costituire l’alternativa alla strategia americana per il medio oriente. Tra gli altri, erano stati invitati anche quattro esperti di terrorismo islamico: Yigal Carmon, direttore del Middle East Media Research Institute (Memri), David Horowitz, editorialista di Front Page Magazine, Daniel Pipes, fondatore del Middle East Forum e studioso di tutti i fenomeni connessi con l’islamismo radicale, e Bat Ye’or, ebreaegiziana rifugiata in occidente dopo essere stata minacciata di morte dagli integralisti. Il copione però prevedeva che si parlasse di "cause", "povertà", "aggressività occidentale" e soprattutto che non si utilizzasse mai l’aggettivo "islamico" accoppiato al termine "terrorismo": il qualificativo corretto doveva essere "internazionale". Qualcuno deve poi essersi accorto che la presenza dei quattro poteva risultare scomoda. Secondo i siti di informazione online, Confidential digital e Libertad digital, e l’emittente radio Cadena Cope, l’organizzazione ha comunicato a Carmon di non essere disposta a pagare il viaggio né a lui né ala sua assistente; a Pipes è stata cambiata per quattro volte la data del suo intervento (così ha rinunciato); a Horowitz si è spiegato che non era il caso di dire che i terroristi uccidono in nome di Allah. A Bat Ye’or, invece, il comitato organizzativo non ha garantito la scorta personale e ha declinato
ogni responsabilità sulla sua incolumità. Bat Ye’or è rimasta a casa.
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