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Il Foglio Rassegna Stampa
09.03.2005 Libano, Egitto, Iran: i fronti della lotta per la democrazia in Medio Oriente
le analisi di Carlo Panella e Tatiana Boutourline

Testata: Il Foglio
Data: 09 marzo 2005
Pagina: 2
Autore: Carlo Panella - Tatiana Boutourline
Titolo: «La forza e la debolezza di Assad - La seconda Repubblica di Mubarak - Scritte di libertà sui muri in Iran. Parola d'ordine: Referendum»
IL FOGLIO dimercoledì 9 marzo 2005 pubblica a pagina 2 dell'insero l'articolo di Carlo Panella "La forza e la debolezza di Assad", che riportiamo:
L’immensa manifestazione di ieri di Hezbollah a Beirut fa finalmente comprendere a chiunque, non soltanto agli osservatori esperti, quale sia la terribile portata del dramma che sta vivendo il Libano, con una mobilitazione popolare a favore della Siria, contrapposta, antagonista, a tutte quelle dei giorni scorsi, e forse più grande ancora di quelle spontanee dei ragazzi di piazza dei Martiri. Una manifestazione che inneggia a una dittatura feroce, come quella siriana, e addirittura all’occupazione militare del proprio paese da parte di un esercito straniero. Ma per Hezbollah e i suoi seguaci, i siriani non sono stranieri, ma soltanto arabi, e il regime baathista non è quell’argine all’integralismoche soltanto i giornalisti di Repubblica credono sia stato in Iraq, ma il migliore alleato del quartier generale della loro Rivoluzione islamica che ha già conquistato l’Iran. In piazza ieri a Beirut c’era la forza e la debolezza del regime di Bashar al Assad. La forza, perché si è visto che oggi in un paese arabo una dittatura feroce, sanguinaria, dall’ideologia figlia del nazismo, riscuote un consenso popolare immenso. Chi era in piazza ieri a Beirut, inneggiando alla Siria, guarda regolarmente alla televisione di Hezbollah situation comedy incui ebrei con barba e tefillim rapiscono
bimbi arabi, gli cavano gli occhi, li mangiano e impastano di sangue il loro pane azimo. Ma in piazza ieri c’era anche la debolezza della Siria, perché, a differenza del presidente egiziano Hosni Mubarak e come Saddam Hussein, Bashar al Assad sa che i duri e puri del suo regime fanno propria la forza di quei manifestanti e gli impediscono ancor più di introdurre elementi di riforma nel regime. Ma l’altra metà del Libano e il contesto internazionale impongono queste riforme. Lunedì, re Abdullah di Giordania, si è presentato alla televisione israeliana, con una scelta di campo che soltanto lui e Mubarak possono permettersi. Re Abdullah non soltanto ha chiesto alla Siria di obbedire all’Onu, ma ha anche prospettato un nuovo piano che porti tutti i paesi arabi a
riconoscere l’esistenza di Israele, man mano che i colloqui tra il presidente palestinese Abu Mazen e il premier israeliano Ariel Sharon daranno frutti. Re Abdullah,insomma, superando di slancio la stasi in cui sono impantanati i sauditi, si è proposto come leader di quei paesi arabi che sanno prendere atto dei cambiamenti democraticiin corso in Palestina e in Iraq, che sanno dialogare con Israele, che vogliono finire la guerra e farsi finanziare dagli Stati Uniti e dall’Europa la pace e lo sviluppo. Ma Bashar al Assad è prigioniero del suo regime che è nato per distruggere Israele e delle masse di Hezbollah che hanno lo stesso sogno. Di qui la sua impacciata crisi.
Sempre di Panella è l'articolo, "La seconda Repubblica di Mubarak "
La primavera libanese che deve ancora fiorire e maturare (e che rischia sempre la guerra civile), con tutta probabilità, non sarà l’avvenimento democratico più importante dell’anno per il mondo arabo. Soltanto l’autunno infatti porterà la vera, grande svolta mediorientale, al Cairo. A settembre gli egiziani voteranno per la presidenza della Repubblica e, per la prima volta in un paese arabo a dittatura regnante, sarà una elezione pluralista. In questi due termini – dittatura regnante ed elezione pluralista – è compresa tutta l’eccezionalità dell’avvenimento. E’ indubbio infatti che il presidente Hosni Mubarak sia un dittatore che governa con leggi di emergenza entrate in vigore nel 1981. Ma è altrettanto indubbio che proprio nel momento in cui stava dando l’ennesimo colpo di vite contro le spinte democratiche, con il provocatorio arresto del deputato Ayman Nour, leader di al Ghad, con accuse risibili, lo stesso Mubarak è stato costretto da pressioni esterne a fare marcia indietro, a promettere di modificare la Costituzione e a correre per l’ennesimo mandato (che sicuramente vincerà), confrontandosi con avversari in elezioni libere. Mubarak, in questo modo, accende la miccia che travolgerà il regime nasseriano che regna in Egitto dal 1952. Non soltanto perché, come dice il giurista Ibrahim Darwish, cambiando il meccanismo delle presidenziali, dovrà ora cambiare
tutta la Costituzione, ma soprattutto perché il 30-40 per cento dei voti che andrà complessivamente ai suoi avversari imporrà, con la sua massa critica di opposizione emersa, l’avvio di un processo riformatore. Ma proprio impedire il processo riformatore è stato il programma di Mubarak, da quando ereditò il potere da Anwar el Sadat, ucciso perché aveva riconosciuto legittimità allo Stato degli ebrei. Quella scelta di Sadat minava le basi ideologiche del regime fondato da Nasser e Mubarak ne prese atto, congelandola, non facendo né la guerra, né la pace con Gerusalemme, mantenendo l’Egitto in uno stato totale di immobilità politica, sociale ed economica. Quando il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, ha lanciato il suo piano di riforme per il Grande medio oriente al G8 di Savannah, Mubarak aveva così risposto picche. Ma soltanto dopo pochi mesi, ecco che ora lo mette in pratica, ecco che al Ahram, giornale di regime, parla di "seconda Repubblica". Naturalmente è soltanto l’inizio, ma Mubarak ha dato il segnale dal più grande paese arabo del mondo: abbandona la linea autoritaria, svolta di 180 gradi, prende atto della crisi del regime e tenta le riforme. Fa quello che Assad non sa fare.
Di Tatiana Boutourline, "Scritte di libertà sui muri in Iran. Parola d'ordine: Referendum":
Ayandé dar azadie", il futuro è nella libertà. Sono ricomparse a migliaia le scritte sui muri e gli imbianchini del Comune di Teheran sono già stati mobilitati per cancellarle. Il conto alla rovescia per la celebrazione del No Ruz è già iniziato e le autorità non tollereranno distrazioni. Gli imbrattatori segreti sono stati avvisati, ma la voglia di primavera degli iraniani potrebbe presto dimostrare di saper resistere a una colata di calce. Apparivano apatici, disillusi e stanchi, i nemici del regime fiaccati da anni di paura, di repressione e di abbandono. Non più. Si respira nell’aria, echeggia nelle conversazioni e nei blog, monta nelle leggende metropolitane. Saranno state le promesse di libertà del presidente George W. Bush, o le minacce alle installazioni nucleari, saranno state le piazze di Kiev e di Beirut, ma anche a Teheran cresce l’attesa, una speranza ancora immotivata, ma abbastanza immotivata da trasformarsi in presagio. Accade così che ogni evento produca la sua contro-versione e in questa cosmogonia della rivoluzione di velluto: l’incendio alla moschea di Teheran, l’esplosione di Bandar Daylan, i voli di ricognizione dei satelliti spia stranieri, sarebbero tutti segnali che la Repubblica islamica sia prossima a morire. Ma al di là del chiacchiericcio che domina il dibattito ben oltre le consuete diatribe elettorali, ci sono altri sintomi di insofferenza a turbare il sonno dei potenti di Teheran. Tour elettorale per il candidato riformista Mostafa Moin. Tappa prevista per il comizio: l’università di Isfahan. L’incontro si apre con l’inno della Repubblica islamica. Le autorità universitarie danno il buon esempio e iniziano a cantare. Nella sala però gli studenti non rispondono al coro. C’è silenzio, poi si leva un altro inno, il nazionalista "Ey Iran". I ragazzi della tradizionalista
città di turchese cantano e gridano, coprono ogni altro rumore e tengono in alto cartelli che recitano "Elezioni no! Referendum si’", "Pane, uguaglianza e libertà". Accoglienza gelida anche per il ministro della Sanità Pezeshkian in visita all’università di Mashad. Il ministro è l’ospite d’onore di una cerimonia studentesca, ma anche stavolta i ragazzi non sono in vena di convenevoli. Ci sono altri cartelli, altri slogan, altre grida. Un gruppo guadagna il palco e costringe l’ospite malcapitato a una fuga precipitosa. Pezeshkian furibondo affida un commento all’agenzia Ilna: "Quelli non erano veri studenti, dicono di volere la democrazia e poi disturbano una cerimonia e mi buttano addirittura fuori!". Irruenza giovanile e maleducazione o segno dei tempi che cambiano? Il quotidiano "Khorasan Daily" ha citato en passant notando che "azioni di disturbo di questo tenore non si erano mai verificate in passato". Ma non sono solo gli studenti che disturbano. Cinquecento tra intellettuali, dissidenti, giornalisti, studenti, artisti hanno affidato a una lettera avvelenata la loro insofferenza per il sistema. E’ qualcosa in più dell’ennesima petizione per il rinnovamento. I firmatari non si limitano a chiedere aperture e promesse sul rispetto dei diritti civili. La sentenza è già stata pronunciata e la lettera è un duro atto d’accusa in cui si denuncia l’incompetenza della leadership iraniana e s’invoca la democrazia
come unico antidoto alla crisi sociale, economica e morale in cui versa il paese. "Ventisei anni di Repubblica islamica – si legge nel documento – sono stati talmente disastrosi che adesso l’unità, l’indipendenza e il futuro della nazione risultano minacciati". Citano i sondaggi, la bassa affluenza
alle urne e sanciscono: "Noi, i firmatari di questa petizione, abbiamo raggiunto la conclusione che la dirigenza di questo paese sia incapace di discernere gli interessi nazionali e abbia perso la credibilità, l’autorità e la competenza per governare". L’interesse della petizione risiede nella composizione degli aderenti: hanno sottoscritto l’Ufficio per il consolidamento dell’unità, una delle maggiori organizzazioni studentesche, il Fronte popolare, il Partito del popolo iraniano del dissidente assassinato
Dariush Foruhar, il Partito nazionale iraniano e un gruppo di movimenti religiosi nazionalisti. Ma è di particolare rilevanza la firma di un nutrito numero di bazari e businessmen solitamente fedeli alle
gerarchie religiose o refrettari al cambiamento. "E’ la prima volta dall’avvento della rivoluzione islamica che così tanti iraniani di estrazione tanto diversa si uniscono per firmare un documento di questa portata, nota da Parigi il dissidente Ali Keshtgar. "Non soltanto invocano la separazione dei poteri e la certezza del diritto, ma sottolineano che le elezioni sono un procedimento di selezione tra fedelissimi del regime, dicono che, anche se eletto con un massiccio mandato popolare, anche se sarà
sostenuto da un Parlamento, il prossimo presidente non potrà essere altro che una figura di coordinamento per gli organi non eletti dello Stato". La parola d’ordine per chi non si riconosce nel sistema ormai è solo: referendum. Il 13 marzo a Washington sarà riunito "il Consiglio di coordinamento per la fine del regime islamico", preludio di un futuro "Consiglio dell’opposizione iraniana", che ricomporrà le fratture tra monarchici, liberali, socialisti e nazionalisti. E mentre l’Amministrazione americana dibatte la necessità di ampliare il sostegno alle forze liberali e democratiche iraniane attraverso la programmazione radiofonica e televisiva di Voice of America, Radio Farda e tutte le emittenti della diaspora che trasmettono dalla California, gli iraniani si dividono sull’opportunità di accettare l’aiuto americano. Ci sono coloro che rifiutano di intaccare le credenziali nazionaliste con l’ombra di connivenze che riportano a galla antichi fantasmi e coloro che vanno ripetendo che per rovesciare il regime questo e altro dovrà essere consentito, che gli iraniani temono
di essere colpiti da un raid, ma temono ancora di più l’abbandono e la difesa a spada tratta della gauche caviar della sempre emergente e mai apparente democrazia islamica iraniana
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