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La Repubblica Rassegna Stampa
28.02.2005 Intervista al dittatore ereditario della Siria
l'antisemita che parla di pace e appoggia i terroristi

Testata: La Repubblica
Data: 28 febbraio 2005
Pagina: 2
Autore: Nicola Lombardazzi - Alix Van Buren
Titolo: «Assad:»
Due pagine di intervista al presidente siriano Bashar al Assad hanno fatto
rumore a livello internazionale, e vengono citate anche da Debka.Ciò
malgrado, dobbiamo esporre alcune brevi considerazioni che possono servire
ai lettori come aiuto a comprendere, più ancora che a commentare questa
intervista.
1) Non si deve dimenticare che, caso pressoché unico, l' attuale presidente
è salito al vertice di uno degli stati-chiave del Vicino Oriente per un
diritto ereditario di stampo monarchico: suo padre Hafez, dopo decenni di
potere gestito con freddo cinismo e con una crudeltà che nessuno in Siria
potrà dimenticare, aveva deciso di lasciare la presidenza al figlio
maggiore, e, dopo la morte di questi, al figlio minore - appunto il
presidente oggi "regnante" di questa repubblica.
2) In lui erano state riposte molte speranze di cambiamento e di
ammorbidimento, grazie alla sua formazione accademica occidentale.Ad oggi,
egli non ha modificato altro che lo stile del padre, mentre la sostanza
autoritaria, anzi autocratica, è rimasta quasi intatta.
3) Quando il papa si recò a Damasco Bashar al Assad lo accolse ricordandogli
che gli ebrei sono "il popolo che uccise Gesù", e su questo versante il
presidente non ha mai impedito la messa in onda da parte della TV di stato
di serial e soap operas marcatamente antisemite, che basano la loro trama su
accuse di deicidio, di avvelenamento di pozzi, di sangue di bambini
cristiani o musulmani usato per impastare il pane azzimo, di congiure contro
l' umanità.
4) Sul piano politico, la Siria non ha mai riconosciuto la legittimità e la
sovranità dello stato del Libano, a suo tempo ricavato dalle potenze
coloniali vincitrici della prima guerra mondiale ritagliando un pezzo del
Crescente Fertile: questo è il fondamento istituzionale e politico della
presenza siriana nel Libano.
5) Quando, nella lunga intervista, Assad sottolinea le esigenze di stabilità
e di pace prima di poter lasciare il Libano, ed accusa Stati Uniti ed
Israele di essere all'origine dell' instabilità e della guerra civile,
dimentica la fase drammatica della presenza dell'OLP e delle sue scorrerie
di rapina che terrorizzarono per anni la popolazione libanese, e stragi
orrende come quella di Tal el Zaatar compiute dai siriani nei confronti dei
civili palestinesi in Libano.
6) Suonano quasi comiche le rivendicazioni di Assad della vocazione alla
lotta contro il terrorismo da parte della Siria, che vorrebbe liberarsi con
questo indimostrabile assunto della provatissime accuse di complicità e di
collusione in particolare con il terrorismo palestinese, ma non solo, e di
tolleranza esplicita verso gli Hezbollah che dal Libano colonizzato dalla
Siria uccidono cittadini israeliani. Il bersaglio sono i villaggi israeliani
vicini al confine, e l' evacuazione del Libano meridionale deciso dal
governo Barak notoriamente non ha modificato questo stato di cose.
7) "Da sessant'anni viviamo in una situazione di costante pericolo, decenni
di guerra, di ostilità" dice concludendo l' intervista Assad: ma non dice
perché. Non dice (ed i giornalisti che lo intervistano non glie lo
ricordano) che la Siria è stata con l' Egitto l' artefice prima e massima
della guerre del 1948, del 1967, del 1973 contro Israele, guerre di
annientamento e di sterminio secondo quanto era stato preannunciate
all'ONU.Quale meraviglia dunque che Israele, che dalle alture del Golan
veniva quotidianamente bersagliata, esiti prima di concludere una pace
difficile con la Siria?
Se "per la Siria l' accordo con Israele è una scelta strategica", come
afferma Assad, la domanda è se le condizioni di questo accordo, le garanzie
del suo rispetto, saranno tali da assicurare la pace al confine
settentrionale di Israele.
Israele, come ha già fatto con l' Egitto e la Giordania, e come avrebbe
fatto con il Libano nel 1982 se il presidente libanese non fosse stato
assassinato da un palestinese venuto da Damasco alla vigilia della firma del
trattato, accetterà una percentuale di rischio connessa ad ogni accordo di
pace, ma non potrà sottoscrivere un patto suicida.

Ecco l'intervista:

DAMASCO - Bashar al Assad, il presidente siriano, è nettissimo: «Saremo noi il prossimo obiettivo d´Israele e della Casa Bianca? Era già tutto scritto da tempo. L´Iraq era il primo passo. Poi sarebbe toccato all´Iran e alla Siria. Ma non è detto che le cose vadano così». In queste terre e di questi tempi è possibile ogni sorpresa. Eccolo qui il raìs che Washington vorrebbe mettere sotto scacco, e Israele minaccia d´attaccare: il giovane presidente al Assad, erede di quell´Hafez al Assad che l´Occidente appellava Sfinge di Damasco, Bismarck del Medio Oriente per la «feroce intelligenza» (diceva Kissinger) con cui studiava abili mosse sullo scacchiere mediorientale, e che ora sorride benedicente da un ritratto incorniciato nello studio privato del palazzo presidenziale. Questa è la prima intervista concessa dopo la crisi di Beirut e gli ultimatum pronunciati da Washington.
Cinque anni al potere non hanno cambiato Bashar al Assad: bella faccia, baffetti, due occhi che sembrano indulgenti. Un giovane dottore prima avviato a una carriera di oftalmologo, e poi diventato presidente suo malgrado: catapultato al potere a 34 anni alla morte del padre, nel luglio 2000. Oculista, avrà la vista più aguzza, si dissero i pretoriani del partito Baath, e per accomodare la sua giovane età modificarono i termini previsti dalla Costituzione. Educato in Europa, abbraccerà la modernità, si dissero i siriani, e infatti lo acclamarono.
Signor presidente, gli Stati Uniti alzano il tono delle accuse, Israele minaccia un blitz. Lei è a capo di un Paese a volte definito "Stato canaglia". Che effetto le fa?
«Nonostante le apparenze, non mi sento affatto isolato. È vero, i rapporti euro-atlantici si vanno ricucendo a nostre spese. A prima vista, però. Infatti restano molte differenze su alcuni punti cardine, ad esempio le scelte internazionali, la stabilità. E l´Europa sa che il nostro primo interesse è la stabilità. Sa che noi possiamo collaborare nella lotta al terrore, perché sappiamo farlo: lo abbiamo combattuto negli anni Settanta e Ottanta. Già altre volte Washington ci ha imposto isolamento e sanzioni. E ogni volta il cerchio attorno a noi non s´è chiuso. Se però mi chiedete se io mi aspetti un attacco armato, beh lo vedo arrivare dalla fine della guerra all´Iraq. È da allora che sale la tensione».
E adesso? Siamo alla resa dei conti con Washington?
«Non lo credo, per ora siamo alle schermaglie. Certo, il linguaggio della Casa Bianca, letto in controluce, lascia presagire una campagna simile a quella che ha preceduto l´attacco all´Iraq. Ci imputano la responsabilità morale della morte dell´ex premier libanese Hariri. Però la polemica sull´attentato di Beirut è stata molto montata. È innegabile: c´è stata una falla nell´intelligence. Ma pochi ricordano che i nostri servizi hanno lasciato da tempo la capitale. Se avessimo davvero ucciso Hariri, per noi equivarrebbe a un suicidio politico. Infatti, al di là dei principi etici e umani, la domanda d´obbligo è questa: a chi giova? Alla Siria certo no».
Facciamo il nome dei sospetti?
«Io non voglio criminalizzare nessuno né anticipare giudizi. Ai primi posti nell´immaginario mediorientale ci sono Siria e Israele. Ma se volete vi dico questo: in Libano esistono gruppi in grado d´organizzare azioni di quella portata. Se n´è vista più d´una in questi anni: l´assassinio di Hobeika (ex capo delle milizie cristiane ucciso nel 2002, ndr), l´autobomba contro un esponente di Hamas. Ma aspettiamo i risultati dell´inchiesta».
Bush ha detto che la palla adesso è nel vostro campo. Ha messo a punto un elenco di richieste: la piena applicazione della risoluzione Onu 1559, e cioè il ritiro delle truppe siriane e dell´intelligence dal Libano, elezioni a Beirut senza interferenze. Presidente, lei come risponde?
«Ci sono due risposte: la prima è che il nostro referente è l´Onu, da cui proviene la risoluzione 1559. La rispetteremo come ogni altra risoluzione, giusta o sbagliata. È in corso una missione, verrà stilato un rapporto. La seconda risposta è che le nostre truppe ripiegheranno lungo le frontiere con la Siria, ma schierate sul versante libanese. Del resto, l´ultimatum di Washington è piombato con scarso tempismo: per il 60 per cento delle forze il ritiro era già iniziato dal 2000. Vedete, farle stazionare all´estero non è nel nostro interesse: comporta un alto prezzo, sia in termini economici sia politici. Però la posta in gioco è altissima: tocca il cuore della stabilità del Libano e delle nostre frontiere».
Già, ma l´opposizione libanese ribatte che il troppo è troppo: ospiti invitati, siete rimasti troppo a lungo?
«Non per piacere. È vero, siamo stati dieci anni più del previsto. ma osservate la storia recente: la guerra civile è finita nel 1990; si trattava di ricostruire l´esercito, di riedificare il Paese su basi laiche e non confessionali: questo ci chiedeva l´accordo di Taif, con la clausola che i due governi avrebbero concordato in un secondo momento il ritiro definitivo. Quel che non si prevedeva era il protrarsi dell´occupazione israeliana nel Sud del Libano, fino al 2000. E c´erano in quei giorni speranze di pace per l´intera regione, Invece oggi eccoci qui, con la guerra che infuria ai confini. Vedete quelle montagne fuori della finestra? Ebbene nell´82 Israele arrivò fin lì, a una manciata di chilometri da Damasco. Sotto il profilo tecnico, il rimpatrio può avvenire entro l´anno. Però, sotto il profilo strategico, ciò accadrà soltanto se otterremo garanzie serie. In una parola: la pace».
Le piazze di Beirut hanno dichiarato un´intifada pacifica. Presidente, non teme una nuova Ucraina?
«No, chi si aspetta l´Ucraina nel Paese dei cedri s´illude. Vedete, il Libano è complesso, bisogna saperlo interpretare. È una società per certi versi tribale, frazionata fra comunità che spesso si sono scontrate fra loro nella storia. Gli alleati di oggi sono i nemici di ieri, e i sodalizi mutano di stagione in stagione, tanto più adesso in campagna elettorale. Ma se qualcuno dall´esterno volesse attizzare le fiamme, ogni scivolata può avere conseguenze disastrose. Il Libano però non è che un pretesto. Il vero obiettivo di Washington è un altro».
Quale?
«È l´Iraq, una guerra che noi non abbiamo mai accettato. Washington ci accusa di scarsa collaborazione, di alimentare la guerriglia. Ma in verità ci chiedono di rimediare ai loro tanti errori: la dissoluzione dello Stato, delle forze militari. Il problema è l´assenza di un progetto globale. L´unico piano vincente è quello che coincida con i desideri degli iracheni».
A proposito dell´ostilità verso l´invasione dell´Iraq, sarebbero molti i giovani del suo paese che passano il confine per andare a combattere contro gli americani. La Casa Bianca vi imputa di non controllare a sufficienza la frontiera. È così?
«No, che non è così. Quei confini porosi sono un pericolo anche per noi: da lì arrivano armi, contrabbandieri e manovalanza del terrore. Con i nostri mezzi è impossibile controllare cinquecento chilometri di sabbia senza una strada. Se avessimo potuto sigillarli, l´avremmo fatto ai tempi di Saddam, quando infiltrava Tir carichi di tritolo per farli esplodere nelle nostre piazze. Perciò io ho chiesto aiuto agli americani».
Proprio agli americani?
«Sì, ho ricevuto un inviato del Pentagono, ne ho parlato col Dipartimento di Stato. Ho chiesto visori notturni e sistemi radar, più o meno la stessa tecnologia che loro usano ai confini col Messico. Ho persino proposto in ottobre la creazione di pattuglie miste, siriane e americane».
Cosa le hanno risposto?
«Sto ancora aspettando».
E poi c´è il grosso scoglio di Hezbollah. Voi non avete mai nascosto il sostegno a un´organizzazione che Washington definisce terrorista. Israele vede la sua mano dietro l´attentato di venerdì a Tel Aviv. Sono nuove durissime accuse indirizzate a Damasco.
«Se vogliamo parlare di terrore, allora cominciamo col dire che Hezbollah è un movimento nato per combattere in Libano l´invasione israeliana nel 1982. Il suo raggio d´azione è limitato al territorio libanese. Non colpisce in Israele, a differenza di gruppi come la Jihad islamica. È anche un partito politico, con 11 deputati in Parlamento. Perciò non si può liquidarlo, mescolandolo nel calderone del terrore. Non a caso l´Europa è restia a includerlo nell´elenco dei gruppi terroristici. Lo stesso Hariri stava mediando con la Ue per evitarne l´inclusione».
La Jihad islamica appunto ha rivendicato da Damasco l´attentato a Tel Aviv. Israele vi considera implicati.
«È un´accusa inutilmente ingiuriosa. La Siria non c´entra affatto. L´ufficio della Jihad islamica qui è chiuso da anni. Restano alcuni esponenti politici, sono stati espulsi da Israele. Ma noi, a nostra volta, dite, dove dovremmo espellerli?».
Il nuovo governo palestinese si è affrettato a esprimere alla Siria la propria solidarietà. È il segno di una nuova intesa fra Damasco e i vertici palestinesi? Per vent´anni, prima che lei fosse presidente, Arafat era stata persona non grata sul suolo siriano. Cos´è cambiato?
«Io avrei voluto incontrarlo. Ma poi c´è stato l´assedio alla Muqata, lui non poteva viaggiare. Adesso lavoriamo in stretto contatto con il presidente palestinese Abu Mazen. Appena eletto è venuto a Damasco. Abbiamo una priorità: ricomporre l´unità fra le diverse fazioni palestinesi, proprio per scongiurare pericolose derive. Perciò, vedete, è fuor di luogo additare la Siria come una forza destabilizzante».
Il primo ministro Sharon pretende da lei una dimostrazione della sua volontà di pace. E nella prima intervista a un giornale arabo, si è definito lui stesso un uomo di pace.
«Perdonate se sorrido. Detto ciò, per la Siria l´accordo con Israele è una scelta strategica. Sharon dice di non credere alla sincerità delle mie offerte, ma allora perché non verificare? I parametri della pace li conosciamo già. Basta sedersi e negoziare».
Suo padre, il presidente Hafez al Assad, sosteneva di voler lasciare in eredità la pace. Di recente è venuto fuori che nel 2000 l´intesa era quasi conclusa. Come andarono le cose?
«Andarono così: il presidente Clinton chiamò mio padre al telefono. Lo convocò a un vertice a sorpresa. Gli disse, vieni, vedrai, sarai soddisfatto. Aveva ricevuto assicurazioni dal premier israeliano Barak. Clinton incontrò mio padre a Ginevra. L´accordo era sulla restituzione del Golan a eccezione di una fascia larga cento metri lungo il Lago di Tiberiade. All´ultimo istante Barak si tirò indietro. Fu preso dal timore prima di salire a bordo dell´aereo che doveva condurlo al vertice. Capì che Israele non era pronto alla pace, che lui non aveva un sostegno politico alle spalle. E invece la Siria era pronta. Già con Rabin avevamo sfiorato la pace. Poi Rabin è stato ucciso, e con lui le speranze».
Per Israele la ripresa dei negoziati deve avvenire senza precondizioni. È una proposta accettabile?
«Bisogna prima intendersi sul significato del termine «precondizioni». Che cosa vuol dire? che si può avviare un dialogo purché non si riparta dai risultati del 1994 e del 2000? Beh, se è così, allora come vogliamo definirla se non una precondizione? Per la Siria, lo ripeto, la pace è una scelta strategica. Per Israele, invece, cambia di governo in governo».
L´America le rimprovera di non essere al passo coi tempi, di non adeguarsi alla trasformazione democratica del Medio Oriente.
«La rapidità è un concetto del tutto soggettivo. La verità è che abbiamo compiuto passi importanti. I nostri problemi si chiamano riforma burocratica e amministrativa, modernizzare un enorme carrozzone, cambiare la mentalità della gente, sostituire la creatività alla dedizione, estirpare la corruzione, che ha radici profonde. Ma come per ogni grande rivoluzione servono anni, almeno una generazione. Serve l´aiuto della comunità internazionale. E più di tutto mi preme conservare la stabilità sociale e politica del Paese. La modernizzazione può comportare un alto costo a scapito di ampi strati della popolazione».
Ma qual è la condizione dei diritti umani?
«Potrei rispondervi che è meglio che ad Abu Ghraib e a Guantanamo, però è soltanto una facile battuta. Potrei dirvi dei mille e più prigionieri politici liberati, delle nuove riviste. Ma lo ammetto: abbiamo regole severe. Da sessant´anni viviamo in una situazione di costante pericolo, decenni di guerra, di ostilità di Paesi pronti a rovesciare i nostri regimi, anni di terrore. Non possiamo permetterci leggi normali. Almeno per ora».
Lei ha un rapporto ambivalente con gli oppositori. Li accoglie, ma li controlla.
«Riguardo ai dissidenti, io sono un uomo dalla mentalità molto aperta. Però non posso consentire che creino problemi. Non sono qui come un impiegato, devo occuparmi del mio Paese. Se a Hyde Park qualcuno attacca la regina, non succede niente. Ma se qui ad esempio qualcuno per strada inveisce contro i cristiani, il giorno dopo potrebbe scoppiare una guerra civile. Mi direte: è libertà di parola, ma così naufraga il Paese».
Signor presidente, cosa teme di più in questi giorni?
«Il pensiero di quest´America armata che oggi si comporta come una superpotenza priva di visione. Nessuno dei problemi che nel 2001 hanno portato all´attentato contro le Torri gemelle e poi alla guerra contro Saddam è stato risolto. Anzi, alcuni si sono aggravati, e la questione della stabilità più di tutti. Da Damasco a Gerusalemme fino a Islamabad e a Kabul si estende un unico lungo fronte di reclutamento del terrore. L´ultimo attentato in Siria è di poche settimane fa, sulle montagne del Libano si sono insediate cellule di al Qaeda, persino l´Italia era finita nel mirino».
Ma voi cosa potete fare contro il terrorismo?
«Io ho offerto a Washington il nostro aiuto. Prima o poi si accorgeranno che siamo la chiave della soluzione. Siamo essenziali per il processo di pace, per l´Iraq. Vedrete, forse un giorno gli americani verranno a bussare alla nostra porta».
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