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La Stampa Rassegna Stampa
25.02.2005 Il ripiegamento siriano in Libano e l'offensiva diplomatica della Nato
ultimi sviluppi della situazione politica in Medio Oriente

Testata: La Stampa
Data: 25 febbraio 2005
Pagina: 8
Autore: Aldo Baquis - Maurizio Molinari
Titolo: «La Siria «arretra» dal Libano - L’offensiva della Nato stavolta è diplomatica»
LA STAMPA di venerdì 25 febbraio 2005 pubblica l'articolo di Aldo Baquis "La Siria «arretra» dal Libano", che riportiamo:
Sottoposta alla pressione congiunta di Stati Uniti, Francia e di diversi Paesi arabi - sull'onda emotiva provocata dall’assassinio a Beirut dell'ex premier libanese Rafic Hariri il 14 febbraio - la Siria ha annunciato ieri di aver deciso ulteriori ridispiegamenti dei circa 14 mila militari dislocati in Libano. Il viceministro siriano degli Esteri Walid Muallem ha precisato che «gli importanti ritiri effettuati finora e gli altri che avverranno in futuro saranno realizzati in accordo con il Libano e sulla base degli accordi di Taif», stipulati 16 anni fa.
La Siria non s’impegna dunque a un ritiro totale dal Libano (come richiede la risoluzione 1559 delle Nazioni Unite, di sei mesi fa) nè precisa i tempi dei suoi ridispiegamenti dalle zone centrali del Paese (in prevalenza cristiano-maronite e druse) verso la vallata delle Beqaa, la cui popolazione è sciita.
A Beirut le dichiarazioni di Muallem ha trovato l’immediata comprensione del premier Omar Karameh, secondo cui un ritiro non progettato in maniera meticolosa rischierebbe di destabilizzare il Paese. «Occorre evitare vuoti di potere» ha concordato il ministro della Difesa Abdel Rahim Murad, secondo cui i primi spostamenti di truppe siriane potrebbero essere questione di ore.
L’annuncio siriano è arrivato dopo che nei giorni scorsi nuovi e perentori appelli per un ritiro totale dal Libano delle forze siriane (entrate nel 1976, nel corso della guerra civile) erano giunti da George Bush e Jacques Chirac, nonché da re Abdallah di Giordania. Mercoledì, inoltre, è arrivato a Damasco il generale Omar Suleiman, capo dell'intelligence egiziana, con un messaggio personale di Hosni Mubarak al presidente siriano Bashar Assad.
Da più parti - in primo luogo dall’opposizione libanese - viene attribuita alla Siria la paternità dell’eliminazione di Hariri. Il leader druso Walid Jumblatt si è detto convinto che la «mente» di quell'attentato sia stato il generale siriano Rustom Ghazaleh, capo dell’intelligence siriano in Libano.
Un'altra pista seguita in Libano è che Hariri sia stato ucciso da un kamikaze palestinese (Ahmed Abu Adas) legato ad Abu Mussab al-Zarkawi. A collegare quest’ultimo all'attentato di Beirut sarebbe il tipo di esplosivo utilizzato. Secondo questa ipotesi gli assassini dello statista, addestrati in Iraq, sarebbero terroristi sunniti entrati in Libano passando per la Siria e poi fuggiti in Australia.
I primi risultati dell’inchiesta dovrebbero essere divulgati fra un mese ma già da due settimane nella capitale libanese si respira un'atmosfera di forte ostilità verso la Siria e la settimana prossima le forze dell’opposizione cercheranno di presentare in Parlamento un voto di sfiducia al governo Karameh. Esigono le dimissioni del Gabinetto (considerato succube di Damasco) e il licenziamento dei vertici dei servizi della sicurezza. Ieri, in un'intervista televisiva, un esponente dell’opposizione, Samir Franjyeh, si è detto insoddisfatto dalle dichiarazioni possibiliste che giungevano da Damasco. «Nel comunicato letto da Muallem - ha notato - manca la precisazione che quel ritiro sarà totale, da tutto il Libano».
In Israele gli sviluppi libanesi vengono seguiti molto da vicino. Secondo i responsabili della Difesa l’uccisione di Hariri è stata ispirata dalla Siria mentre sulla sua attuazione esistono ipotesi diverse. «Per quanto riguarda il Libano - ha notato ieri un portavoce governativo - noi abbiamo obbedito alle risoluzioni delle Nazioni Unite nel 2000, quando Ehud Barak completò il ritiro unilaterale e incondizionato. Ora tocca alla Siria fare altrettanto».
Ieri Israele ha ricevuto per la prima volta la visita del segretario generale della Nato, Jaap de Hoop Scheffer che ha incontrato il premier Ariel Sharon, i ministri Silvan Shalom (Esteri) e Shaul Mofaz (Difesa) e ha tenuto una conferenza in un istituto universitario di Tel Aviv. Ai dirigenti israeliani de Hoop Scheffer ha confermato che la Nato intende stringere la cooperazione militare con Israele. Ma per ora non si parla di un ingresso dello stato ebraico nella Nato. In un’intervista al quotidiano Haaretz, de Hoop Scheffer ha insistito sul concetto che la Nato non ambisce a fungere da «agente mondiale». La forza d’interposizione nei Territori resta dunque un progetto remoto, la cui realizzazione dipende da un previo assenso del Quartetto (Usa, Russia, Ue, Onu) e dalla firma di un accordo preciso fra israeliani e palestinesi. Se poi le due parti chiedessero alla Nato di inviare truppe, la richiesta sarebbe valutata.
Sempre da LA STAMPA, l'articolo di Maurizio Molinari "L’offensiva della Nato stavolta è diplomatica":

La visita del Segretario generale Jaap de Hoop Scheffer in Israele svela un nuovo slancio dell'Alleanza Atlantica verso il Medio Oriente nell'intento di proiettare stabilità e sicurezza dal Marocco all'Afghanistan. Sono due i pilastri dell’iniziativa della Nato, di cui il presidente americano George W. Bush ha discusso con i leader europei a Bruxelles. Il primo è il dialogo mediterraneo con Egitto, Giordania, Israele, Tunisia, Algeria, Marocco e Mauritania. Sulla carta il processo è iniziato, per iniziativa degli alleati europei, nel 1994 ma il salto di qualità in realtà è avvenuto solo nel 2004 allorchè fu deciso di avere riunioni a livello dei ministri degli Esteri con ognuno di questi Paesi. L'altro pilastro è frutto del summit della Nato a Istanbul dello scorso giugno, allorché venne lanciata un'analoga iniziativa di cooperazione con i sei Paesi che fanno parte del Consiglio di cooperazione del Golfo (Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Oman e Arabia Saudita). In totale le due iniziative sommano 13 Paesi compresi nell'area del «Grande Medio Oriente» considerato dalla Casa Bianca il teatro della guerra al terrorismo dopo l'11 settembre, ovvero tutti tranne gli «stati canaglia», Iran e Siria, l'Autorità palestinese perché ancora non è formalmente uno Stato, la Libia del colonnello Gheddafi con cui i rapporti restano in bilico, l'Iraq e l'Afghanistan perché si tratta di teatri di guerra vera e propria sui quali la Nato è già presente in altre forme (un centro di addestramento truppe a Baghdad, la missione di pace dell'Isaf a Kabul). Alessandro Minuto Rizzo, vice Segretario generale responsabile del dossier Medio Oriente, ha già visitato 12 dei 13 Paesi ed è ora in partenza per l'Egitto mentre Scheffer dopo Gerusalemme ha in programma tappe in tutte le capitali interessate. Ciò che è in discussione con questi Paesi è la sottoscrizione di accordi di partnership sul tema della sicurezza.
Il modello a cui si rifanno è la «Partnership for peace» che la Nato ha avuto o ha ancora con stati dell'Est, dei Balcani e in genere dell'ex Urss. «In questo caso tuttavia non c'è all'orizzonte l'adesione piena e neanche accordi in qualche maniera comparabili - spiega Minuto Rizzo - ma l'intenzione è di lavorare per realizzare nel tempo un ampio spazio di sicurezza e stabilità in una regione scossa da forti tensioni». Tre dei 13 Paesi, Kuwait, Qatar e Israele, hanno già sottoscritto a Bruxelles tali accordi che l'ambasciatore Usa alla Nato, Nicholas Burns, ha definito di partnership militare e ciò significa protocolli di cooperazione su formazione degli ufficiali, consultazione a livello di intelligence e partecipazione a manovre militari congiunte per migliorare l'interoperabilità.
Uno dei risultati concreti sarà, la prossima settimana, la partecipazione per la prima volta di cinque ufficiali arabi a un corso di addestramento Nato nella scuola di Stavanger, in Norvegia. Altri ufficiali, arabi e israeliani, sono attesi allo Staff College che la Nato ha a Roma. Sebbene questi passi siano stati compiuti senza troppo clamore, hanno una duplice importanza: da un lato sono una cornice normativa nella quale Usa ed europei lavorano insieme per la sicurezza del Medio Oriente, dall'altro gettano le basi di una solida cooperazione con le nazioni della regione, creando meccanismi che aiutano la lotta al terrorismo.
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