Sul Medio Oriente la crisi tra Europa e Stati Uniti non è chiusa l'analisi di Emanuele Ottolenghi
Testata: Il Foglio Data: 22 febbraio 2005 Pagina: 2 Autore: Emanuele Ottolenghi Titolo: «L'alleanza (quasi) impossibile tra Bush e Bruxelles in medio oriente»
IL FOGLIO di martedì 22 febbraio 2005 pubblica un'analisi di Emanuele Ottolenghi sui rapporti transatlantici, e in particolare sulle divergenze relative al Medio Oriente, dal conflitto israelo-palestinese alla minaccia nucleare e terroristica iraniana. Divergenze che permangono e che non permettono di considerare chiusa la crisi delle relazioni tra Europa e Stati Uniti manifestatasi con la guerra in Iraq.
Ecco l'articolo: Dopo tre anni di relazioni tese, i rapporti transatlantici sembrano in ripresa. Ma al di là della retorica, che da novembre è più conciliante, resta la sostanza della politica internazionale, che divide più che unire le sponde dell’Atlantico. Bush discuterà di sei argomenti, su cui i vecchi alleati rischiano di dividersi ancora di più che in passato: Cina, Kyoto, Corte criminale internazionale, Iran, Siria e Iraq e processo di pace. L’argomento che più preoccupa gli americani è l’intenzione europea di rimuovere l’embargo sulla vendita di tecnologia militare alla Cina. Per gli Stati Uniti, la vendita di tecnologia europea alla Cina potrebbe ridurre lo svantaggio militare cinese rispetto ad americani e alleati nel sud est asiatico. La Cina si sta riarmando e minaccia i suoi vicini, non solo Taiwan. La preoccupazione americana sembra però non registrare simpatia in Europa. La crisi non è imminente, anche se la decisione europea sull’embargo potrebbe avvenire già durante la presidenza lussemburghese, ma il problema di fondo è spiegarne il motivo: si tratta, come dicono gli europei, di sostituire una politica inefficace con un "codice di condotta" più rigoroso che non permetterà in pratica alcun trasferimento di tecnologia sofisticata alla Cina? O di un messaggio politico simbolico a Pechino che ne incoraggerà l’atteggiamento bellicoso? Siamo di fronte a un’Europa che vive il suo rapporto con la Cina in maniera puramente mercantilistica? O di un’Europa che mira a consolidare una cooperazione strategica con la Cina in funzione antiamericana, puntando a realizzare la visione del presidente francese Jacques Chirac di un mondo multipolare? La disputa è un sintomo e merita una diagnosi approfondita. Non si tratta infatti di divisioni dovute a divergenze tattiche ma di natura normativa. L’Europa, pur condividendo alcune delle preoccupazioni americane, rimane fondamentalmente un potere dedito allo status quo e alla stabilità. L’America è invece diventato un potere sovversivo, dedito alla promozione di valori libertari rivoluzionari nel mondo. Con tutta la cordialità dei toni e delle forme, la sostanza della politica estera americana nei prossimi quattro anni rimarrà quella indicata nei due discorsi di Bush – quello inaugurale e quello dello Stato dell’Unione – pronunciati di recente. Le promesse americane non vanno incontro all’avversione strategica degli europei per l’uso della forza, né all’internazionalismo europeo così incline a sostenere l’Onu, nonostante la perdita di prestigio dell’organizzazione dopo il suo comportamento in Iraq (Oil-for-food), in Sudan (reticenze e ritardi), in Congo (pedofilia e prostituzione), nella risposta alla Tsunami (inefficienza e sprechi) e in difesa dello status quo in aree del mondo dove domina la tirannia e la corruzione. Gli americani punteranno a smantellare quest’ordine, gli europei lo difenderanno a oltranza. Lo stesso vale per altre due questioni importanti, che indicano disaccordo ma non causeranno per il momento gravi dissidi: Kyoto e la Corte criminale internazionale. Questi dossier dividevano Europa e America prima di Bush e continueranno a farlo senza mettere a rischio la relazione transatlantica. Semmai, è l’effetto cumulativo di queste e altre più urgenti questioni a preoccupare. Sul medio oriente la crisi è evidente. La distensione israelo- palestinese minimizza il disaccordo transatlantico su modalità e priorità, ma qualsiasi intoppo riporterà quei dissapori alla ribalta, specie in un anno in cui l’America sarà più preoccupata di Iran, Iraq e Siria che di Palestina e non intenderà aggiungere pressioni a un primo ministro israeliano che di grattacapi politici ne ha già abbastanza, con una fragile coalizione, un’agguerrita opposizione al disimpegno. Gli europei non hanno ancora capito che cosa ha creato questo momento di fragile opportunità: pur riconoscendo a fatica che la morte di Yasser Arafat (da loro sostenuto fino all’ultimo) sia stata un’importante svolta, non si rendono conto che è stata innanzitutto la strategia militare di Ariel Sharon a ricreare l’orizzonte politico che Arafat e la sua Intifada avevano invece distrutto. Quando ci saranno ostacoli, l’Europa riprenderà a far (e invocare) pressioni su Israele mentre gli americani manterranno la stessa posizione degli anni passati. Ma sarà su Siria, Iran e in misura minore Iraq che la relazione transatlantica rischia di rompersi. Per ora Europa e Stati Uniti sono d’accordo sulla necessità di impedire all’Iran di acquisire una potenza nucleare. Ma gli europei stanno già creando il terreno per dar la colpa agli americani per il prevedibile fallimento della strategia diplomatica della troika di puntare al dialogo con l’Iran attraverso una politica di sole carote e niente bastoni. Quando quell’approccio fallirà l’Europa dovrebbe adottare l’atteggiamento americano e premere nel Consiglio di sicurezza per un regime efficace di sanzioni. Dovrebbe sostenere eventuali operazioni di polizia nel Golfo Persico e di possibile sabotaggio delle installazioni nucleari in Iran. Invece non farà altro che dare la colpa agli Usa per non aver fatto aperture diplomatiche e commerciali a Teheran e si rifiuterà ancora una volta di contemplare la strada della forza. All’incompetenza e incapacità di agire europea seguirà l’inevitabile "unilateralismo" americano, ovvero la strada della forza, cui si opporrà l’ostruzionismo europeo all’Onu e altrove. La crisi irachena aspetta di ripetersi, non in arabo ma in persiano questa volta. Infine c’è la Siria. Il regime di Damasco è coinvolto nella guerriglia e nel terrorismo in Iraq. Occupa il Libano e coopera con l’Iran. Per l’America la resa dei conti è vicina e l’attentato contro l’ex premier Rafiq Hariri a Beirut potrebbe rivelarsi un’ottima occasione. Ma in Europa tutti punteranno i piedi. Nessuno vuole mettere a rischio il dialogo (e i lucrativi rapporti commerciali) con l’Iran, di cui la Siria è alleato. Nessuno vuole accendere una nuova miccia in medio oriente. E nessuno comprende come soltanto contenendo Damasco – con il suo appoggio al terrorismo palestinese e a Hezbollah, la milizia proiraniana ora attiva nel tentativo di sabotare Abu Mazen – si può stabilizzare l’Iraq, metter pressione su Teheran e facilitare il processo di pace tra Israele e palestinesi. Invece, Francia per prima, l’Europa non sembra disponibile a mettere Hezbollah sulla lista delle organizzazioni terroristiche e farà di tutto per impedire che la Siria sia la prossima tappa della centounesima aviotrasportata. Abbracci, cordialità e calorose strette di mano a Bruxelles. Ma la crisi non si chiude. Semmai aspetta di essere riaperta. Forse in maniera irreversibile. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.