L'impossibile simmetria tra le vittime del terrorismo e i suoi autori proposta da Alberto Stabile
Testata: La Repubblica Data: 13 febbraio 2005 Pagina: 30 Autore: Alberto Stabile Titolo: «Ben, la figlia perfetta uccisa da un kamikaze - Latifa. Sette ragazzi perduti nell'Intifada»
LA REPUBBLICA di domenica 13 febbraio 2005 pubblica due interviste di Alberto Stabile a genitori di ragazzi morti nel conflitto israelo-palestinese: Ben Kfir, padre di Yael, uccisa a 20 anni in un attentato suicida, e , Latifa Abu Hamed, madre di Adel Muneim, ucciso dalle forze speciali israeliane perchè sospettato di far parte di Hamas e di aver compiuto "alcuni attentati".
Se il padre dell'israeliana uccisa nell'attentato parla di riconciliazione e attribuisce la responsabilità del conflitto alle leadership di entrambi i popoli, per la palestinese è l'occupazione a produrre la violenza terroristica. Una tesi smentita dai fatti: dopo gli accordi di Oslo, è stato il terrorismo a produrre la rioccupazione delle città palestinesi. La simmetria che si vuole istituire tra i due casi è poi smentita dal fatto che sia il figlio morto sia quelli in carcere di Latifa Abu Hamed sono accusati di attività terroristiche. L'israeliana, morta durante il servizio militare, stava invece difendendo il suo paese dall'aggressione del terrore (che è tale anche quando colpisce militari impegnati a proteggere i civili) Va poi sottolineato che l'alternativa posta da Stabile tra le posizioni pacifiste e critiche verso il governo espresse da Ben Kfir, da un lato, e la ricerca della vendetta, nella convinzione che gli arabi "capiscano solo la forza", dall'altro, è semplicistica. Infatti, quello di Kfir è un giudizio politico. Altri genitori di vittime del terrorismo formulano altri giudizi politici e ritengono necessaria l'autodifesa e la sconfitta militare del terrorismo. Il che non significa pensare che "gli arabi capiscano solo la forza" o inseguire vendette indiscriminate. Le loro opinioni, oltre che il loro dolore personale, meritano altrettanto rispetto di quelle di Ben Kfir.
( a cura della redazione di Informazione Corretta)
Ecco l'articolo sul padre israeliano: "Ben, la figlia perfetta uccisa da un kamikaze": Ashkelon. All´inizio cercavo la vendetta. Yael era stata uccisa a vent´anni, senza aver potuto neanche cominciare a vivere una vita che s´annunciava stupenda. Qualcuno doveva pagare per questo. Non mi bastava pensare che il giovane kamikaze palestinese era morto a sua volta. Altri erano ugualmente responsabili: quello che l´aveva reclutato, quello che aveva confezionato la cintura esplosiva, quello che l´aveva contrabbandata in Israele, quello che aveva infiltrato il terrorista, quello che aveva finanziato l´attentato. Sono stati tutti arrestati, 17 persone, l´intera catena. Ma la mancanza di Yael è così grande che, anche se fossero stati tutti impiccati, non potrebbe mai essere colmata». Infiniti percorsi può prendere il dolore di una perdita. Per Ben Kfir, 57 anni, ingegnere informatico, israeliano nato in Israele da una famiglia proveniente dalle province austro ungariche della Bucovina, non ci sarebbe stato nulla di più semplice, di più automatico, che cercare di consolarsi nutrendo la sua disperazione di padre con l´odio verso il nemico. In fondo, è proprio questo il frutto velenoso dell´ultima Intifada: l´aver portato la guerra nel cuore delle due popolazioni. Invece, Ben ha deciso di ragionare col suo dolore, di ascoltarlo senza diventarne succube. E alla fine, anziché la strada della vendetta ha scelto quella più difficile e impegnativa della riconciliazione. Invece di unirsi al coro del «tanto gli arabi capiscono solo il linguaggio della forza», ha preso la via della tolleranza, del dialogo e della pace. «Yael era una un ragazza stupenda, una leader naturale con una dote unica: aveva una mente affilata come un rasoio - racconta Ben, nel soggiorno della casa di legno in stile americano, che s´è costruito vent´anni fa davanti al mare di Ashkelon - Se volessi dirle dei suoi successi a scuola dovrei parlare a lungo. Le dico soltanto che prese la maturità con 96,9 su 100 che rappresenta uno dei voti più alti quell´anno in tutto il Paese. All´esame di ammissione agli studi universitari ottenne 765 su 800, e fu la prima fra diecimila studenti. Davanti a questi risultati, l´Esercito le stese un tappeto rosso sotto ai piedi e, soprattutto, le offrì la possibilità di cominciare il servizio militare dopo la laurea e non dopo la maturità come è d´obbligo per tutti i giovani israeliani. Lei era incerta, combattuta. Ci pensò su qualche giorno, poi venne e mi disse: "Ho capito che ho i mezzi per studiare tutto, dalla filosofia alla fisica. L´unica cosa che non so ancora è cosa farò nella mia vita. Prima faccio il servizio militare, poi deciderò"». «Nell´Esercito Yael fa il corso ufficiali, diventa capitano e viene mandata in un campo chiamato Scuola numero 7, proprio di fronte alla grande base di Tsrifin, appena fuori Tel Aviv, sulla strada per Ramle. Yael avrebbe dovuto finire i suoi due anni di leva nel febbraio del 2003. Avvicinandosi a quella scadenza manda i suoi curricula a varie università, chiedendo quale disciplina le venga consigliato di studiare. Il Politecnico di Haifa le risponde offrendole ciò che, ogni anno, offrono soltanto a cinque studenti: una borsa di studio completa della durata di cinque anni. La stessa settimana in cui Yael avrebbe dovuto rispondere all´offerta del Teknion di Haifa, il suo comandante, Kliman, la chiama e le dice che l´Esercito ha ancora bisogno di lei. E la prega di restare in servizio come militare di professione, nella stessa base. Yael non dormì per una settimana. Non sapeva decidersi. Volle prendersi una pausa. Andò a Eilat, frequentò un corso per sub e al suo ritorno mi disse: "Resto in servizio per un altro anno. Per due ragioni: la prima è che non sento di aver dato abbastanza all´Esercito; la seconda è che non so ancora cosa vorrò studiare"». «Il 9 di settembre del 2003 Yael finì di lavorare presto. Andò nella sua stanza, fece la doccia, si cambiò. Tornò in ufficio per scegliere una sua foto che sarebbe servita per un´occasione ufficiale, uscì dal cancello del campo alle cinque e mezzo e andò alla solita fermata ad aspettare l´autobus per Ashkelon. Quello è un momento speciale nella vita delle basi militari, l´ora in cui tutti escono per tornare a casa. Sulle facce di quei ragazzi si può leggere l´eccitazione. Yael è lì alla fermata, con un gruppo di colleghi. Arriva una macchina, scende un giovane terrorista di Hamas con addosso la cintura esplosiva e si fa saltare dietro al gruppo di soldati. Yael muore sul colpo, senza essersi accorta di niente. Altri otto ragazze e ragazzi muoiono con lei. Molti altri sono feriti, 18 di questi molto seriamente. Ho incontrato tre di loro, cinque mesi fa. Non sono ancora guariti». «Quel giorno ero qui, a casa, con due amici, musicisti russi che insegnano nella scuola dove studiò Yael. La tv era accesa, ad un certo punto: breaking news. Attentato a Tsrifin. Vedo le immagini della base militare, la fermata dell´autobus, le ambulanze, la rete metallica e, dietro la rete, l´edificio dell´ufficio di Yael. Tutti nel campo dovevano aver saputo che c´era stato un attacco. Nessuno si fa vivo. Aspetto che Yael mi chiami. Lo faceva sempre dopo ogni attentato ovunque succedesse, anche dove lei non avrebbe avuto motivo di trovarsi. Chiamava per farmi qualche domanda stupida, cosa stessi cucinando per cena o qualcosa del genere. Chiamava soltanto per farmi sentire la sua voce. Ma quel giorno non chiamò». «La chiamai io, al cellulare, ma non ebbi risposta. Feci il numero del suo ufficio, ma era sempre occupato. Seppi dopo che il suo comandante, dopo aver saputo che era morta, per paura di parlarmi aveva dato ordine di sollevare le cornette dei telefoni per non rispondere alle telefonate. Restai solo in casa. Stava facendo buio. Verso le nove uscii sulla veranda e notai due silhouette nel giardino. Pensai che fossero ladri. Accesi la luce. Erano due ufficiali in divisa. "Perché siete venuti adesso? - chiesi loro - Vi aspetto dalle sei e un quarto". Uno dei due cominciò a gridare: "Come lo sai? Chi te l´ha detto?". Gli risposi: "Non c´è bisogno che qualcuno me lo dica"». «Per un´intera settimana questa casa è stata sommersa di gente, parenti, amici, conoscenti, vicini, centinaia di persone che non so chi siano. A migliaia sono venuti, ma appena la settimana è passata la casa è rimasta vuota. Tranne che per la responsabilità che ho verso le persone care ancora in vita e i tre o quattro amici che mi hanno aiutato a tenere la testa fuori dall´acqua, non trovo altra ragione per continuare a vivere». «Misi un annuncio funebre sui giornali per ringraziare tutti quelli che avevano partecipato al nostro lutto. L´annuncio si concludeva con queste parole: l´avvicinarsi della pace verso di noi sarà di qualche conforto. Sei settimane dopo ricevetti una lettera da Kfar Saba, la lettera di Hagit, una madre che aveva perso il figlio nell´Esercito. Mi disse che aveva visto l´annuncio e voleva parlarmi. Mi feci forza e la chiamai. Parlammo per due ore, di molte cose e tra l´altro del Forum delle famiglie in lutto, il Circolo dei genitori per la pace, la riconciliazione e la tolleranza. Mi disse che il Forum avrebbe tenuto un seminario la settimana successiva non lontano da Latrun, a Neveh Shalom, un villaggio dove convivono arabi ed ebrei. La mia prima reazione fu contraria. Non sono adatto a riunioni affollate, dissi ad Hagit. Mi rispose che se mi fossi sentito a disagio avrei potuto andarmene in qualsiasi momento. Non me ne andai e decisi di entrare a far parte del Forum che è composto da 700 israeliani e 700 palestinesi che hanno perso qualche caro nel conflitto. Chi il padre, chi il figlio, chi il fratello, chi il marito». «Noi crediamo che la pace sia già qui. Non importa se si chiama Accordo di Ginevra, o Road Map, o Proposta Clinton o Intesa di Taba. Sono ipotesi più o meno tutte uguali, ci può essere la differenza di un chilometro in una certa suddivisione territoriale o dell´uno per cento in un´altra. È un trattato quasi finito ma non ancora formulato perché entrambe la parti non hanno leadership tanto coraggiose da fare le scelte che vanno fatte e forzare le rispettive minoranze che s´oppongono ad accettarle. Non siamo profeti, noi del Forum, ma siamo sicuri che la pace prima o poi verrà. Nell´attesa parliamo con i giovani che saranno soldati in un anno o due, andiamo nelle scuole, incontriamo il pubblico, raccontiamo le nostre storie e diciamo ai nostri ascoltatori che nessun problema può essere risolto con la forza. Basta guardare all´Iraq di oggi». «Abbiamo aperto un numero verde, Hallò Shalom, che in due anni ha ricevuto più di 500mila chiamate e raccolto quasi due milioni di conversazioni tra israeliani e palestinesi. E devo dire che i due terzi delle telefonate provengono dai Territori perché noi, qui, possiamo dire ciò che vogliamo, siamo liberi di pensare come vogliamo, ma temo che lo stesso non sia per l´altra parte. Sì, all´inizio volevo la vendetta. La vendetta è un sentimento molto naturale. Ma poi ho pensato, se vado ed uccido un palestinese o mando qualcun altro ad uccidere un palestinese che ci guadagno? Comunque Yael non tornerà più e in cambio avrò solo la vendetta dell´altra parte. Così la vendetta non finirà mai e andrà avanti per sempre. Loro fanno questi terribili attacchi terroristici in Israele e noi uccidiamo i loro leader. Loro sparano i missili su Sderot e noi entriamo a Gaza. E poi loro sparano ancora i loro Kassam e noi entriamo nuovamente, così da quattro anni restiamo sempre a Gaza. Senza aver capito che la situazione non cambia, perché la risposta non è nella forza». «Oggi ci sono nuove musiche nell´aria. Abbiamo la speranza, ed è questa la cosa più importante. I terroristi suicidi si fanno saltare perché non hanno speranza, perché sentono che la situazione è così brutta che persino la morte è migliore. Ma se hai la speranza, vuol dire che hai qualcosa da perdere». E quello sulla madre palestinese: "Latifa. Sette ragazzi perduti nell'Intifada": Ramallah Latifa Abu Hamed ha 58 anni, un marito, Mohammed, quasi completamente cieco e sei figli maschi, fra i 32 e i 19 anni, richiusi nelle prigioni israeliane. Il suo cuore è gonfio di rancore. La vita non è stata generosa con lei. Nel giugno del ´91 il figlio maggiore, Adel Muneim, di 25 anni, fu ucciso dalle unità speciali dell´Esercito. Per due volte, in dieci anni, gli israeliani le hanno distrutto la casa. «Ma oggi - dice, serrando i pugni sulla veste tradizionale delle donne beduine - ho un solo desiderio: i miei figli stanno invecchiando in carcere. Vorrei abbracciarli prima di morire». è questo, oggi, un sogno molto diffuso tra le famiglie di Gaza e della West Bank. L´Intifada armata non è stata soltanto un enorme bagno di sangue. Almeno ottomila giovani palestinesi, più o meno coetanei dei figli di Latifa, oltre a un migliaio di adolescenti sotto ai 16 anni, sono finiti nelle prigioni israeliane, chi con pesanti accuse, chi senza processo, in base a provvedimenti di «detenzione amministrativa» della durata di sei mesi rinnovabili all´infinito. Ad accendere la speranza di Latifa e di migliaia di madri come lei è stato Abu Mazen quel giorno, mancava poco alla sua elezione, in cui il futuro presidente dell´Autorità Palestinese incontrò migliaia di donne in un grande ristorante di Ramallah. Disse, allora, Abu Mazen che la rinuncia alle armi avrebbe riaperto la via del negoziato e il negoziato avrebbe spianato la strada verso la libertà per «i fratelli imprigionati». Seduta su uno dei due divani che di giorno sono riservati agli ospiti e di notte si trasformano in talamo per lei e il marito, Latifa aspetta che la promessa si compia. La casa, tra i vicoli fangosi del campo profughi di Amari, alle porte di Ramallah, ha una sua storia. Nel ´93 venne distrutta dalle ruspe israeliane, con tutto quello che c´era dentro. «Ne costruimmo un´altra - racconta Mohammed - , ma tre anni fa venne demolita anche quella. Così siamo tornati qua, dove nel frattempo, altri avevano costruito. Siamo ospiti, non siamo più padroni di niente». Nel salottino gelido, addossato alla cucina, c´è il frigo, un televisore giapponese e una stufa elettrica che emana un calore blando. Sul muro di fronte si apre quella che doveva essere la stanza dei figli. Cuscini e materassi sono ammonticchiati l´uno sull´altro lungo una parete. Nessuno da anni ci dorme più in quella stanza. Degli otto figli maschi avuti da Latifa, oltre a due femmine, in casa c´è rimasto soltanto Jihad, 20 anni, che, inquieto e distante, vigila sulla nostra conversazione muovendosi su e giù come un leone in gabbia. Latifa e Mohammed hanno alle spalle una vita da profughi. «Avevo un anno - racconta la donna - quando scoppiò la guerra del ´48. La mia famiglia viveva da sempre nel villaggio di Sawafir, vicino ad Ashkelon, ma in pochi giorni dovemmo scappare verso Gaza, dove ci sistemarono nel campo per rifugiati di Nusseirat, vicino a Khan Yunis. "Non vi preoccupate, è questione di qualche settimana", ci dissero, "forse un mese, due al massimo". Rimanemmo a Nusseirat fino al 1967 e diventammo profughi per sempre». Piccola, grassottella, Latifa lascia trasparire nel suo racconto una tensione a malapena domata e puntualmente tradita da improvvise impennate nel tono di voce e da quelle mani chiuse perennemente a pugno, abbandonate sulla veste chiara. «Ci trasferimmo qui ad Amari nel ´67, dopo la guerra, per un motivo semplicissimo: a Gaza non c´era lavoro e qui invece ce n´era». Mohammed fa il manovale. Guadagna quanto basta per non dipendere totalmente dai sussidi delle organizzazioni umanitarie. Un anno prima, il 15 giugno del 1966, «il giorno della Naqba», la sventura, come chiamano i palestinesi il giorno in cui si celebra la proclamazione dello Stato d´Israele (15 giugno 1948) era nato Yussef, il primogenito, e Latifa qualche mese dopo è nuovamente incinta. Quando scoppia la prima Intifada (dicembre 1987) la famiglia è ormai completa. Padre, madre, due figlie femmine, Palestina e Hoda, ed otto figli maschi. E i maschi, cresciuti con dentro la rabbia dei campi profughi, sono lì in prima fila a tirare le pietre contro i soldati israeliani, l´incarnazione di quello che Latifa definisce «il peccato dell´occupazione». A turno i più grandi, Nasser, Nasr, Shariff, vengono arrestati e dopo qualche mese rilasciati, ma questo si ripete per cinque volte. Finchè Nasser, che tra i fratelli è sicuramente il più autorevole, non viene condannato a dieci anni per «security offenses», attentato alla sicurezza dello Stato, sabotaggio, propaganda sovversiva. Rilasciato nel 2003 il giovane trova moglie e mette al mondo un bambino. Ma quando il bimbo non è ancora nato, viene arrestato di nuovo e stavolta condannato assieme ai fratelli Nasr e Sharif a vari ergastoli. Difficilmente vedrà il figlio che non ha mai conosciuto. Nel frattempo, però, la prima Intifada di Latifa e dei suoi figli volge in tragedia. Un giorno d´aprile del ´91, quando gli accordi di Oslo sono ancora troppo lontani per far sperare in un periodo di pace, Adel Muneim viene ucciso in quella che ha tutte le caratteristiche di un´esecuzione mirata. «Adel - dice la madre - era molto religioso. Quel giorno, un venerdì, era andato a pregare alla moschea al Aqsa. Di ritorno, a Ram, s´era fermato in un ristorante per mangiare qualcosa in compagnia d´alcuni amici. Stava per salire sull´autobus per Amari quando sono arrivate le forze speciali (le cosiddette unità arabizzanti) ed hanno ucciso lui e uno dei suoi compagni». è probabile che Adel Muneim fosse sospettato di far parte dell´ala militare di Hamas e d´aver compiuto alcuni attentati. Per sua madre e i suoi fratelli è, comunque, un «martire», un figlio di cui andare fieri. Quando, alla fine del 2000 esplode la seconda Intifada, i sette figli maschi di Latifa sopravvissuti sono tutti liberi e combattivi. Ramallah è uno dei centri di maggior tensione. Qui ci sono le istituzioni palestinesi da difendere dalla rioccupazione. Qui c´è il quartiere generale di Al Fatah, di cui i sette fratelli, a sentire la madre, fanno parte. Oggi, dopo quattro anni di guerriglia e mentre si apre uno spiraglio di pace, a Latifa sono rimasti sei ritratti sotto vetro incorniciati in un unico quadro. «Questo è Sharif - comincia indicandoli uno per uno con il dito - 26 anni, rinchiuso nel tribunale di Beer Sheva, condannato a quattro ergastoli per una sparatoria in cui sono stati uccisi dei soldati israeliani. Sharif non ha riconosciuto la legittimità del tribunale. Ha rifiutato l´avvocato e noi crediamo che sia innocente, come gli altri fratelli». «Nasser ha 30 anni - continua indicando la foto di un giovane in giacca e cravatta - l´accusano d´aver ucciso cinque israeliani e l´hanno condannato a cinque ergastoli. è nella prigione di Ashkelon e mi hanno detto che stasera una tv israeliana trasmetterà un´intervista che gli hanno fatto come portavoce dei prigionieri». «E questo è Nasr, 32 anni - la foto mostra un giovane con la barba - anche lui ad Ashkelon, condannato a sette ergastoli. Tutti e tre sono stati arrestati tre anni fa, ma non ci hanno mai permesso di vederli, tranne che in tribunale». Facciamo notare che devono essere stati accusati di reati molto gravi per collezionare così tante sentenze di carcere a vita. Latifa si limita a rispondere che lei non crede a quelle accuse. «Gli israeliani sono quelli che hanno in mano tutto. Possono far credere tutto quello che vogliono». Non è finita. Islam, 19 anni, è stato arrestato nel giugno del 2004, «ma il processo è stato sempre rinviato». Mohammed, 23 anni, è rinchiuso in una prigione del sud. Ha due ergastoli sulle spalle per una sparatoria con vittime israeliane. Basil, 25 anni, è a Ofer. Arrestato nel febbraio 2004, «di lui non sappiamo niente, ci vorrà un anno o due per poter cominciare a capire qualcosa». Ma la violenza, chiediamo a Latifa, era proprio una scelta obbligata? «Tu - risponde - puoi parlare ai tuoi figli, cercare di aprirgli gli occhi, ma poi sono loro che vivono e vedono ogni giorno sulla strada gli arresti, le violenze, gli abusi, le uccisioni dell´occupazione. Detto questo è giusto negare ad un madre il diritto di vedere i propri figli, come succede a me negli ultimi quattro anni? Io voglio dire basta a tutto questo. Vogliamo vivere una vita decente, vogliamo avere un futuro migliore. Abu Mazen sta facendo il suo meglio per voltare pagina e per questo tutti lo appoggiano». C´era anche lei, Latifa, quel giorno all´incontro del successore di Arafat con le donne palestinesi. «Gli ho detto: nessuno come noi madri cui sono stati tolti i figli può desiderare la pace». L´obiezione è semplice: non è vero che tutti i palestinesi appoggiano i tentativi del nuovo Raìs. «Anche Hamas - risponde Latifa - vuole riavere i suoi figli prigionieri, anche Hamas vuole la fine dell´occupazione. Non credo che sarebbero stati sparati quei missili e quei colpi di mortaio se gli israeliani, il giorno prima, non avessero ucciso due giovani palestinesi. Se si fermano gli israeliani, anche Hamas si fermerà». In un angolo, Mohammed annuisce in direzione delle voci. Dovrebbe essere operato per gravi lesioni alla retina, ma se l´intervento non dovesse riuscire perderebbe anche quel venti per cento di vista che gli è rimasto. Entrambi sembrano aver accettato il loro destino da profughi. «Qui ad Amari c´è ancora molta gente che ha le chiavi della casa che è stata costretta ad abbandonare, le carte, i certificati catastali. Saremo liberi solo quando avremo il nostro Stato. Ma per me il sogno è quello di poter rivedere i miei figli prima di morire». 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