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Il Foglio Rassegna Stampa
11.02.2005 L' Arabia in America: jihad e antisemitismo propagandati dal Regno saudita
che finge di riformarsi, ma resta il campione del fondamentalismo islamico

Testata: Il Foglio
Data: 11 febbraio 2005
Pagina: 1
Autore: Christian Rocca - Carlo Panella - Giulio Meotti
Titolo: «Riad esporta il jihad negli States. Il catalogo è questo - Non c’è svolta - Egemonie culturali»
IL FOGLIO di venerdì 11 febbraio 2005 pubblica a pagina 1 dell'inserto un articolo di Christain Rocca sulla propaganda jihadista finanziata dall'Arabia Saudita negli Stati Uniti, "Riad esporta il jihad negli States. Il catalogo è questo"
Milano. E’ bello credere alle favole. Una
di quelle che amiamo di più riguarda l’Arabia
Saudita. Nell’illusione fabiesca, il regno
dei Saud è "un paese arabo moderato", "un
alleato dell’occidente", "un promotore di
un piano di pace per il medio oriente". Negli
anni della Guerra fredda i sauditi sono
stati un baluardo all’espansione dell’impero
sovietico, ma oggi sono soltanto i principali
fomentatori dell’odio antioccidentale e
del fondamentalismo islamico.
Su incarico di un’agenzia indipendente
del governo americano, il centro studi Freedom
House ha pubblicato un rapporto di
novanta pagine con le prove di questo disegno
saudita e della politica di penetrazione
fondamentalista nel cuore degli Stati Uniti.
Il rapporto comincia a scuotere l’Amministrazione
Bush, che fin qui non ha mai inserito
il regno saudita nella lista dell’asse del
male, limitandosi a qualche scappellotto,
come nel discorso dello Stato dell’Unione.
Ma anche i Democratici, specie i clintoniani,
si lasciano spesso ammaliare dalla ricca
macchina di pubbliche relazioni saudita.
Negli ultimi giorni questa straordinaria
agenzia di pierre con sede a Riad ha conquistato
anche i giornali italiani che non
hanno risparmiato spazio per lodare un improbabile
nuovo corso saudita. Così la Conferenza
contro il terrorismo di Riad diventa
una cosa seria, le prime elezioni amministrative,
parziali e non libere, l’avvio della
democrazia. Ieri, sul Corriere della Sera,
Magdi Allam ha segnalato una presunta
svolta moderata dei sauditi a proposito dei
testi scolastici. Nessuno può davvero confermare
la riforma dei libri di testo nelle
scuole del regno, ma le pubblicazioni del
governo saudita in distribuzione in occidente
restano quelle che Nina Shea, la direttrice
del Centro che ha scritto il rapporto,
ha definito "di tipo nazista".
Il Center for religious freedom di Freedom
House ha condotto un’indagine sui libri
e sugli opuscoli editi dall’Arabia Saudita,
e distribuiti dalla sua ambasciata a
Washington, che si trovano a disposizione
dei fedeli in decine di moschee americane
a Los Angeles, New York, Oakland, Chicago,
Houston e Washington. Il rapporto ha
analizzato 200 pubblicazioni in arabo e, in alcuni casi, in inglese, urdu e cinese, per gli
arabi e i musulmani emigrati negli Stati
Uniti.
Già nelle primissime pagine di ogni opuscolo
c’è scritto che l’America è "la casa degli
infedeli". Il codice di comportamento che
Riad consiglia ai musulmani in America impone
queste regole: "Dissociatevi dagli infedeli,
detestateli per la religione che professano,
abbandonateli, non contate mai sul loro
appoggio, non esprimete loro la vostra
ammirazione e opponetevi a oltranza,
conformemente alla legge islamica". Il consiglio,
spiegano questi testi che circolano
nelle moschee americane, è un precetto religioso.
Chi non lo segue diventa un apostata,
colpevole di tradimento: "Su questo punto
c’è consenso, chiunque aiuti gli infedeli
contro i musulmani, non importa quale tipo
di sostegno presti, diventa un infedele". Questa
è la stessa ideologia religiosa con cui al
Zarqawi giustifica le quotidiane stragi di civili
iracheni.
Le regole saudite per il musulmano in occidente
sono una specie di manuale di arruolamento
dei terroristi, un’arma micidiale
perché assemblata nelle nostre città approfittando
della libertà di pensiero e di
culto. I libri distribuiti nelle moschee americane
forniscono le istruzioni dettagliate
per costruire, parole testuali, "un muro di risentimento"
tra il musulmano e l’infedele:
"Non salutare un cristiano o un ebreo per
primo", intima il manuale, al massimo rispondere
con un semplice "a te".
"Non augurare mai all’infedele le buone
feste", sarebbe una bestemmia più grave
"del bere alcol, dell’omicidio, della fornicazione".
Questo significa che fare gli auguri a
un non musulmano è apostasia, reato da punire
con la morte. Ancora: "Non diventare
mai amico dell’infedele a meno che l’obiettivo
sia la sua conversione"; "Non imitare
mai l’infedele"; "Non lavorare mai per l’infedele".
Non ci si può vestire come un infedele,
gli uomini non devono indossare abiti
di seta, le donne mai i pantaloni.
I sauditi forniscono anche le regole sul
trattamento del personale domestico infedele:
"Le vostre donne non devono stare lontane
dalle domestiche infedeli, ma non devono
trattarle come tratterebbero una donna
islamica. Devono odiarle per la grazia di
Allah". Queste regole razziste e fomentatrici
di odio sono contenute in un libro la cui
copertina recita "Saluti dal Dipartimento
Culturale" dell’ambasciata saudita di Washington.
Il libro è edito dal governo di Riad.
In un altro libro pubblicato dal governo
saudita, e distribuito in una moschea di Dallas,
si legge: "Per un musulmano non è giusto
aiutare i non credenti né chiedergli aiuto,
perché sono loro i nemici, non fidatevi…".
In un’altra pubblicazione si legge che
se le relazioni tra musulmani e non musulmani
fossero armoniose non ci sarebbe
"lealtà né inimicizia, non ci sarebbe più
jihad né lotta per il lavoro di Allah sulla terra".
L’America è un nemico, si legge, perché
è un paese regolato da leggi e non dalla sharia.
Alcune di queste pubblicazioni invitano
a non prendere la cittadinanza finché gli
Stati Uniti saranno guidati da infedeli e prescrivono
di lottare per creare uno Stato islamico.
L’altro obiettivo del musulmano è "la
distruzione dello Stato di Israele". Gli ebrei
sono "peggio delle scimmie", una forza corruttrice
"dietro il materialismo, bestialità, la
distruzione della famiglia e la dissoluzione
della società". I Protocolli dei savi di Sion
sono raccontati come se fossero un fatto appurato
e non come un falso storico quale sono.
Le pubblicazioni saudite in America obbligano
le donne a portare il velo, a vivere separate dagli uomini e a non accettare alcuni
impieghi e ruoli.
In questi documenti, si legge nel Rapporto
di Freedom House, i musulmani che professano
la tolleranza sono condannati come infedeli.
Un libriccino di 140 pagine distribuito
dall’ambasciata saudita si apre con una fatwa
contro gli islamici che sostengono non sia giusto
condannare ebrei e cristiani come infedeli:
"Chi pone dubbi sulla loro infedeltà non
lascia dubbi sulla sua". Un’altra fatwa stabilisce
che il musulmano che avvia un genuino
dialogo interreligioso, e "chiunque crede che
le chiese siano case di Dio", è esso stesso "un
infedele". Cosicché il musulmano moderato
pecca di apostasia e merita la morte. "Uccidere
a sangue e prendere i soldi" ai musulmani
omosessuali e agli eterosessuali che
hanno rapporti fuori dal matrimonio "è legale".
Il musulmano che si converte, dice uno
degli opuscoli, "deve essere ucciso".
L’ideologia razzista wahabita è ben spiegata
in tutte le pubblicazioni a disposizione
dei fedeli. Per i musulmani ci sono due reami:
la casa dell’Islam, cioè i paesi islamici,
e la casa degli infedeli (o della guerra), il resto
del mondo. I musulmani all’estero, spiega
il governo saudita, si devono comportare
come se si trovassero oltre le linee nemiche.
Nella casa degli infedeli si può vivere soltanto
per acquisire conoscenza del nemico,
fare soldi da impiegare successivamente
nel jihad contro gli infedeli oppure per fare
proselitismo e convertire qualcuno all’Islam.
Un altro libro dice che "per essere veri
musulmani bisogna prepararsi ed essere
pronti per il jihad di Allah. E’ un dovere del
cittadino e dello Stato".
Le copie del Corano che si trovano nelle
moschee americane sono quelle wahabite,
le uniche che contengono nei primi versetti
parole di odio e di condanna dei cristiani
e degli ebrei. L’estremismo wahabita è
un culto golpista nato 250 anni fa, una setta
religiosa certo minoritaria nel mondo
musulmano ma che grazie ai soldi del petrolio
si è diffusa velocemente. In occidente
ha già posto le basi per dirottare la religione
islamica. Gli studi come questo di
Freedom House aiutano l’occidente a rendersene
conto.
Carlo Panella spiega perchè, nosnostante le elezioni e la conferenza sulla lotta al terrorismo, quella dell'Arabia Saudita "Non è una svolta":
Roma. Le elezioni di ieri a Riad hanno
interrotto il circolo virtuoso che si era
aperto nei paesi musulmani l’anno scorso
con le elezioni presidenziali in Afghanistan
e poi era continuato in Palestina e in
Iraq. Quelle dell’Arabia saudita, infatti,
non sono state elezioni, ma una farsa che
dà il segno della totale incapacità di riformarsi
che immobilizza il regno, dell’inadeguatezza
della sua classe dirigente e purtroppo
anche della debolezza di ogni voce
alternativa. Al lento cammino verso la democrazia
iniziato a Kabul, Ramallah e Baghdad,
Riad contrappone oggi l’arroganza
di un potere patriarcale che non è disposto
a mettere in palio neanche un oncia di potere,
neppure nei consigli circoscrizionali.
Si è votato infatti non per i consigli comunali
e circoscrizionali, ma per la metà dei
seggi di ogni consiglio e non hanno potuto
esprimersi tutti gli elettori, perché le donne
sono state escluse dalle consultazioni.
Alla fine poi ha votato la metà della metà
dei maschi, perché il meccanismo prevedeva
che l’elettore s’iscrivesse volontariamente
alle liste e così hanno messo la
scheda nell’urna soltanto 140 mila persone
su un bacino potenziale di 470 mila.
Lo schema riformista della casa reale
saudita prevede che soltanto la popolazione
maschile possa scegliere la metà dei
consiglieri comunali e circoscrizionali, ieri
della capitale, nelle prossime settimane
delle altre province; l’altra metà viene naturalmente
nominata dall’alto: direttamente
dal governo. L’esecutivo peraltro
non esiste quale istituzione, perché nel
paese ci sono soltanto la Corte e la famiglia
reale: non c’è infatti un Parlamento né alcuna
struttura statuale. Tutto il potere nel
paese è in mano a una sola famiglia, quella
dei Banu Saud, composta da circa 5-
6.000 principi, fratelli e cugini. Per darsi un
vernissage democratico, dopo la guerra
contro l’Iraq del 1991, la famiglia reale ha
deciso la creazione di un Majlis al Shura,
una sorta di Consiglio della Corona. Ma tutti
i suoi 106 membri sono di nomina reale
e naturalmente non hanno nessun potere,
se non vagamente consultivo.
Il quadro è sconfortante: è difficile comprendere
se sia più grave che nel 2005 i
sauditi non se la sentano di fare votare le
donne o se non osino mettere neanche in
palio l’elezione dell’intero consiglio comunale
di Riad, ma soltanto della sua metà.
Questo, in un paese in cui non c’è libertà di
stampa, di riunione, di coscienza e di opinione,
in cui i poteri della "Polizia per la
repressione del Vizio e della Tutela della
Virtù" sono assoluti e in cui quindi i risultati
elettorali sono totalmente predeterminati.
In queste elezioni dunque non c’è stata
libertà di propagada né di voto. Quale
futuro possa avere un paese che inizia in
questo modo il suo cammino riformista, è
facilmente pronosticabile.
E’ anche facilmente pronosticabile la
continuazione della crescita impetuosa del
terrorismo, perché queste elezioni fasulle
arrivano a pochi giorni dal fallimento clamoroso
di una grande conferenza mondiale
contro il terrorismo, organizzata a Riad,
che, nelle intenzioni della casa reale saudita,
avrebbe dovuto dare il segno dell’impegno
del paese, almeno in questo campo.
I delegati, provenienti da più di 50 paesi,
hanno approvato la proposta saudita per la
creazione di un centro internazionale per
il controterrorismo. L’organizzazione dovrà
"scambiare e trasmettere informazioni in
tempo reale, con modalità compatibili con
la velocità degli eventi, e dovrà prevenire
gli attentati del terrorismo prima che questi accadano"
Il bilancio delle perdite di Riad su questo
terreno è infatti pericolosamente in
crescita e le notizie settimanali di un qualche
scontro a fuoco con gruppi di jihadisti
s’intervallano con quelle di attentati da
questi portati a termine. Ma anche quella
conferenza ha avuto lo stile fondamentalista
del "made in Riad": l’unico paese della
regione che è riuscito a contenere il terrorismo,
Israele, è stato infatti rigidamente
lasciato fuori dai lavori. La sua esclusione
è dovuta non soltanto al fatto che per i sauditi
Israele "non esiste", ma soprattutto all’impegno
che proprio i sauditi hanno sempre
sviluppato per impedire che in sede
Onu si arrivasse a una definizione giuridica
del concetto di terrorismo, accusando
Israele di esserne la centrale. Dopo ogni
attentato in Arabia saudita, il reggente Abdallah
ha sempre accusato "agenti sionisti"
di esserne gli autori. Ogni accordo concluso
all’interno delle Nazioni Unite è stato
così boicottato proprio dai sauditi, che
parificano l’azione dei terroristi alla Osama
bin Laden a quella di Israele nei Territori.
Nel corso della conferenza questa
stessa posizione è stata difesa dalla Siria,
mentre i padroni di casa annuivano, e il
tutto si è risolto con un impegno sul piano
puramente tecnico, di banale circolazione
d’informazioni D’altronde Israele, durante
le operazioni compiute contro l’Intifada
delle stragi, ha scoperto l’esistenza di pagamenti
di Fondazioni islamiche saudite
per 135 milioni di dollari a famiglie di assassini
suicidi palestinesi. Nel giugno del
2004, Lee S. Wolowsjy, del Council for Foreign
Relations dell’Amministrazione
americana, al termine di un accurata indagine,
ha denunciato: "E’ spiacevole e
inaccettabile che, dall’11 settembre 2001,
non abbiamo saputo di un solo donatore
saudita o gruppo di supporto di terroristi
che sia stato pubblicamente punito".
Giulio Meotti descrive gli effetti nelle università americane delle "Egemonie culturali" dell'"educazione saudita" e del radicalismo si sinistra anti-israeliano, antiamericano e antisemita.
Ecco l'articolo:

Roma. Quanti palestinesi hai ucciso?
chiede il professore allo studente ex militare
israeliano. Appena la notizia cominciò
a circolare, il documentario è stato visionato
da molti politici, dal ministro israeliano
per le questioni della Diaspora, Natan
Sharansky, e dal presidente della Columbia
University, Lee Bollinger. Da allora "Columbia
Unbecoming", questo il titolo del
film, è diventato un caso diplomatico. Dopo
il New York Times, la Cnn gli ha dedicato
un lungo servizio. Sono quaranta minuti di
testimonianze in cui alcuni studenti della
Columbia raccontano le loro esperienze
d’intolleranza accademica e di discriminazione
antisemita. La domanda iniziale era
di Joseph Massad, il docente alla Columbia
di origine giordana che ha minacciato gli
studenti del suo corso: niente tolleranza
per chi tentasse di negare le "atrocità israeliane".
Parlando poi del massacro avvenuto
nel 1975 da parte dei terroristi palestinesi
nella scuola di Ma’alot, in cui furono
massacrati a freddo ventuno alunni israeliani,
Massad usò queste parole: "Alcuni
giovani civili morirono nello scontro a fuoco".
Sempre nel documentario, uno dei più
illustri islamisti del paese, George Shaliba,
a una ragazza ebrea disse che non poteva
vantare diritti sulla Palestina perché non
aveva "occhi abbastanza semitici". La frase
preferita di un altro docente denunciato
nel film è che "il palestinese è il nuovo
ebreo e l’ebreo il nuovo nazista". Secondo
Martin Kramer, editorialista e fellow al Washington
Institute, sono le ore più buie per
la Columbia University. "Aspettiamo di essere
accusati di maccartismo, ma questo
viene dall’altro lato", ha detto Noah Liben,
ricercatrice coinvolta nel progetto del documentario.
L’ambasciatore israeliano negli
Stati Uniti, Daniel Ayalon, ha appena
cancellato un incontro con il presidente
della Columbia. Il New York Sun riporta le
parole di un altro antropologo della Columbia,
Mahmood Mamdani, che in aula ha
paragonato jihadisti e neocon e definito
"da squatters" il trattamento riservato ai
palestinesi. Un altro, Hamid Dabashi, ha
detto che "Israele va smantellato". Poche le
voci di dissenso. C’è la denuncia dello storico
Richard Bulliet, per il quale i corsi
universitari sono appiattiti su una "prospettiva
postmodernista e postcolonialista".
Niente spazio per i neri schiavi in
Mauritania, per i Bahai iraniani, le stragi
nel Darfur e i cristiani in Iraq.
E’ un fenomeno che riguarda in generale
gli studi mediorientali, ormai succubi
dell’"educazione saudita", come l’ha definita
la National Review. In questi giorni è
scoppiato il caso di Ward Churchill, il docente
di studi etnici dell’Università del Colorado
che di fronte a 1.700 studenti ha paragonato
i lavoratori sepolti sotto le Twin
Towers a tanti "piccoli Eichmann". Molto
più serio il caso che sta montando alla Florida
Atlantic University, dove l’Organizzazione
degli studenti islamici ha chiesto all’amministrazione
di separare i musulmani
dagli studenti ebrei, di obbligare quest’ultimi
a portare un "drappo" d’indentificazione
e di rimuovere i nomi giudaici dagli
edifici. A Miami, secondo il reportage di
Frontpage Magazine, insegnano Mustafa
Abu Sway, di cui sono provati i legami con
Hamas, e Khalid Hamza, che ha elogiato
pubblicamente il terrorismo suicida palestinese.
E’ la stessa università che ha invitato
a parlare un imam, Siraj Wahhaj, finito
nella lista dei cospiratori per il primo attentato
al World Trade Center del 1993, e in
cui il famoso sceicco cieco Abdel Rahman,
arrestato per lo stesso attentato, figura tra
gli speaker. A Stanford insegna Joel Beinin,
cresciuto in un kibbutz e oggi in prima fila
nell’attaccare l’imperialismo israeliano. Al
Jazeera l’ha chiamato a parlare contro il
"regime fantoccio" di Allawi.
La Columbia University alla fine di gennaio
ha organizzato un convegno sintomatico
del clima che si respira nei Middle East
Studies: Mark Cohen ha dato addosso al
monoteismo ebraico; Massad ha spiegato
che Sharon è come Goebbels e che "la soluzione
dei due Stati vuole il suicidio palestinese",
e Ilan Pappe, docente ad Haifa
e considerato il Chomski israeliano, ha dipinto
uno Stato d’Israele così demograficamente
in crisi da cercare in Perù e nelle
valli indiane le dieci tribù ebraiche disperse.
"Immaginiamo un mondo in cui la
maggioranza non è più compromessa con il
razzismo israeliano", così ha concluso la
serata Massad. C’è anche un problema di
egemonia culturale. Un recente studio della
Santa Clara University sui college americani
stima che nelle scienze sociali e
umanistiche il rapporto tra docenti democratici
e repubblicani è di sette a uno.
Trenta a uno, per il Wall Street Journal,
nelle facoltà giuridiche.
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