Guerra e pace secondo Sandro Viola Israele ha sempre la parte del cattivo
Testata: La Repubblica Data: 10 febbraio 2005 Pagina: 1 Autore: Sandro Viola Titolo: «Alleati per forza»
Sandro Viola ha una visione molto personale anche del processo di pace, distorta non meno di quella che egli ha sempre manifestata sul conflitto. In quello che dovrebbe essere un commento sull'incontro di Sharm, "Alleati per forza", pubblicato da LA REPUBBLICA mercoledì 9 febbraio 2005, Viola dimostra di percepire il ruolo di Israele con quella negatività che è una costante dei suoi articoli: "terrorismo e controterrorismo" è il modo in cui definisce quanto è avvenuto negli ultimi anni, proponendo ai lettori una assoluta e parallela identità fra quanto hanno fatto i terroristi palestinesi e quanto ha fatto lo stato d'Israele. "Le carneficine provocate dai kamikaze in Israele e dai carri armati d'Israele nelle città e nei villaggi" è un suo modo di rincarare la dose a beneficio di chi ancora non avesse capito bene: i kamikaze (di cui non cita la provenienza) sono come i carri armati, di cui invece cita la nazionalità. L'ultima tregua? E' fallita, si sa: "gli attentati di Hamas e le rappresaglie di Sharon la fecero saltare". Certo, se Sharon non avesse reagito e gli israeliani si fossero fatti massacrare restandosene tranquilli, la tregua durerebbe ancora oggi. Anche quando analizza i motivi del cambiamento di strategia politica da parte di Sharon, che da esponente di una destra legata ai coloni si è trasformato in un alleato della sinistra nello smantellare le colonie stesse, Viola non si smentisce: Sharon ora "vuole sopravvivere politicamente", non pensa ai destini d'Israele, alla pace, alla sicurezza, ma solo a sopravvivere politicamente lui stesso. Peccato che Viola non spieghi perché, se è questo l'unico suo motivo di agire, egli abbia scelto una strada che mette quotidianamente in pericolo quella sua sopravvivenza politica personale di cui, unicamente, egli si preoccuperebbe; una strada talmente irta di ostacoli che paiono insormontabili da costringerlo a schierarsi contro il suo partito e contro quei coloni che un tempo difendeva.Arafat, invece, pensava solamente alla propria sopravvivenza politica, senza strategie, senza una linea politica, senza ideali - ma questo Viola non si sogna neppure di dirlo.
Ecco l'articolo: PER prima cosa converrà non parlare d´un nuovo inizio, una ripartenza, del processo di pace. L´espressione "processo di pace" ? lo abbiamo visto in passato ? porta male, e in ogni caso la fine del conflitto israelo-palestinese è ancora lontana, lontanissima. A Sharm el Sheik s´è concordata una tregua, non altro. E se mai si fossero affrontati i nodi veri del conflitto, i confini del futuro Stato palestinese, Gerusalemme, il diritto dei profughi al ritorno, non ci sarebbe stato alcun accordo. Avremmo anzi assistito ad una nuova rottura. È anche vero però che dopo quattro anni e quattro mesi di scontri sanguinosi, di totale interruzione del dialogo tra i contendenti, la tregua di Sharm el Sheik rappresenta uno snodo significativo. La seconda Intifada è finita, ed è finita con la sconfitta di chi nella dirigenza palestinese ? a cominciare da Arafat ? aveva pensato che una fase di violenze avrebbe potuto accelerare la fine dell´occupazione e favorire una nuova, più vantaggiosa trattativa con i governi d´Israele. Un errore che i palestinesi hanno pagato con quasi quattromila morti, undicimila feriti, e tremende distruzioni di case, campi coltivati, infrastrutture. La tregua durerà? Una stagione che ha visto un così lungo susseguirsi di terrorismo e controterrorismo, le carneficine provocate dai kamikaze in Israele e dai carri armati d´Israele nelle città e villaggi di Gaza e della Cisgiordania, non si chiude dalla sera alla mattina. E infatti i precedenti non consentono eccessivi ottimismi. L´ultima tregua in Palestina, quella concordata due anni fa, durò appena cinquanta giorni. Poi gli attentati di Hamas e le rappresaglie di Sharon la fecero saltare, e Mahmud Abbas (nome di battaglia Abu Mazen) dovette dimettersi da primo ministro. Così, nessuno può credere che il vertice di Sharm el Sheik farà tacere da subito le armi. Spasmi, convulsioni, morti e feriti ce ne saranno, purtroppo, ancora. Hamas non ha forse già detto che la tregua proclamata ieri «impegna soltanto l´Autorità palestinese e non le formazioni della resistenza»? Ma il quadro del conflitto è in parte cambiato. A parlare per i palestinesi c´è adesso Abu Mazen, il quale da almeno vent´anni è convinto che la soluzione della contesa non possa essere altro che politica. Il risultato di reciproche concessioni, un compromesso. E infatti l´estate del 2000, avendo previsto che i costi d´una nuova rivolta sarebbero stati per i palestinesi disastrosi, e i benefici nulli, s´era opposto allo scatenamento dell´Intifada. La sua presa di distanza dalla linea Arafat era stata prudente, non clamorosa: ma agli occhi della diplomazia internazionale era bastata per indicarlo come il solo dirigente palestinese con cui sarebbe stato possibile, un giorno, negoziare.
Anche sull´altro versante della contesa c´è qualcosa di diverso rispetto agli anni scorsi. C´è un Ariel Sharon, infatti, che ha ormai bruciato i ponti con l´estrema destra e il partito dei coloni. Deciso ad operare il ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza, e convertito almeno a parole, dopo una vita di rifiuti categorici, all´idea d´uno Stato palestinese. Il paragone che molti azzardano con De Gaulle, portato al potere dai partigiani dell´"Algérie française" e poi divenuto il liquidatore della colonia, è incongruo. Non era stato De Gaulle a portare i "pieds noirs" in Algeria, mentre è stato Sharon a farcire i Territori occupati di colonie ebraiche. Lui, non altri, è stato per un trentennio l´idolo dei coloni. Ma resta che la sua visione del conflitto, i suoi progetti per sopravvivere politicamente, sono cambiati. La tregua di Sharm el Sheik è infatti importante, se non è addirittura vitale, anche per lui. Le destre e i coloni sono in rivolta, il momento dello sgombero degli insediamenti a Gaza potrebbe assumere lineamenti da guerra civile, e un ritiro sotto il fuoco di Hamas e degli altri gruppi estremisti palestinesi significherebbe la catastrofe. Per questo, il suo interesse è oggi quello di sostenere Abu Mazen: di evitare qualsiasi mossa che impedisca al presidente palestinese di tenere sotto controllo, in particolare a Gaza, i suoi oppositori interni. Mentre due anni fa Sharon aveva fatto l´esatto contrario. Non voleva il piano di pace detto road map: così, ogni violazione anche minima della tregua concordata con Bush e Abu Mazen ad Akaba, gli servì da pretesto per sferrare rappresaglie durissime nei Territori. Il che fornì un alibi al terrorismo integralista, condusse all´uscita di Abu Mazen dalla scena, e inceppò il piano di pace. Oggi, invece, è prevedibile che Sharon farà il possibile perché il consenso che il successore di Arafat sta faticosamente costruendo, a Gaza e in Cisgiordania, attorno alle sue posizioni moderate, non si sfaldi. Se saranno gravi, le inevitabili violazioni della tregua da parte palestinese riceveranno sì una risposta militare, ma di dimensioni tali da non compromettere l´avvicinamento di queste settimane e gli impegni di Sharm el Sheik. Ci si può insomma aspettare che sotto l´assedio delle rispettive e violente opposizioni interne, con la loro vicenda politica (e forse la loro stessa vita) a repentaglio, Sharon e Abbas decidano almeno nel breve termine di sostenersi l´un l´altro.
Senza parlare dell´apporto che verrà dal di fuori. Apporto economico immediato all´Autorità palestinese, appoggio diplomatico, invio di tecnici militari (come l´americano generale Ward) per collaborare al mantenimento della tregua. Non è la prima volta, certo, che al capezzale del conflitto israelo-palestinese si vedono tante e ansiose presenze. Ma la situazione irachena, i primi accenni d´un migliore rapporto tra Europa e America, le dichiarazioni della signora Rice tra Gerusalemme e Ramallah, inducono a credere che la pressione internazionale sarà stavolta più decisa e costante che in passato. Tutti dicono che è un momento di grandi speranze, per il Medio Oriente, e quindi non è il caso di fare i pessimisti ad oltranza. Ma una cosa conviene ricordarla. Abu Mazen è diverso da Arafat, è uomo di parola, è un politico paziente. Come negoziatore, è il meglio che ci si potesse aspettare. Ma la cornice entro la quale egli vede la soluzione del conflitto è la stessa che aveva in mente Arafat. I confini del ?67, Gerusalemme Est capitale palestinese, ritorno (sia pure in numero assai ridotto, simbolico) dei profughi. E su questa strada la tregua di Sharm el-Sheik costituisce sì e no il primo passo. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla direzione de La Repubblica. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.