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La Stampa Rassegna Stampa
09.02.2005 Un'analisi scorretta del vertice di Sharm el Sheik
da Igor Man

Testata: La Stampa
Data: 09 febbraio 2005
Pagina: 3
Autore: Igor Man
Titolo: «Gli oltranzisti sono stanchi»
LA STAMPA di mercoledì 9 febbraio 2005 pubblica un commento di Igor Man al vertice di Sharm el Sheik. Già il titolo, "Gli oltranzisti sono stanchi", e l'impianto generale dell'articolo sono scorrettti, in quanto equiparano il terrorismo e la dura risposta ad esso decisa dal governo israeliano come "oltranzismi".
Numerose sono poi le singole scorrettezze riscontrabili nel testo.
"La vulgata vuole" scrive Man "che a Camp David Arafat abbia «bruciato» la pace più grande e generosa che gli offrivano Clinton e Barak. Sia come sia..."
Si noti che Man, prudentemente, non si impegna a confutare la tesi della responsabilità di Arafat nel fallimento dei negoziati di Camp David. Tale confutazione, infatti, risulterebbe impossibile, perchè ormai si dispone di documenti e testimonianze che rendono evidente la verità (si vede in proposito il libro di Barry e Judith Colp Rubin "Arafat").
Man si limita invece a squalificare la verità storica definendola "vulgata", anche se, almeno in Italia, non è certamente stata la maggioranza dei commentatori e degli ossrvatori del conflitto mediorientale a farla propria e a diffonderla.
E' falso comunque che ad Arafat sia sempre stato offerto soltanto un "patto leonino", è falso che i colpi inferti a Israele al terrorismo abbiano indotto Sharon a riprendere i negoziati. E' vero anzi il contrario: è la sconfitta del terrorismo a riaprire i negoziati.
I termini utilizati da Man, inoltre sono spesso scorretti: "prigionieri politici" per indicare terroristi incarcerati in seguito a fatti di sangue, "organizzazione assistenziale, divenuta nel tempo una pistola alla nuca del primo esercito della Regione" per indicare Hamas, in realtà dedita alla strage di civili.
Ecco l'articolo:

«È l’ora dell’ottimismo», ha detto la Signora Condoleezza in Israele ma si è guardata bene dal recarsi al vertice di Sharm el-Sheikh. Forse gli Stati Uniti stanno tornando al realismo di Kissinger già sfrattato dall’avventuroso universalismo di Bush, chissà. Un fatto, tuttavia, è certo: gli Stati Uniti hanno finalmente compreso che il «punto d’appoggio» per sollevare il Medio Oriente da una troppa lunga disgrazia intrisa di sangue, contagiosa, è la Palestina. E’ nel cuore antico del mondo, là dove fiorì la Buona Novella, la chiave della pace. La Terra Santa è piccola ma grande abbastanza per due popoli di Dio, «due Stati democratici in pace, spalla a spalla», come ha detto la Signora Condi riprendendo il concetto espresso nelle ultime settimane da Dabliù, il presidente che alla lettura di Clausewitz preferisce la Bibbia. Sempre nel solco del realismo che convinse Nixon, il grande presidente mariuolo, a spedire Kissinger in Cina, la signora Condi ha detto chiaro d’aspettarsi «decisioni forti» da Israele. Il segretario di Stato in tailleur grigioperla (forse non sartoriale) non ha specificato cosa intendesse per «decisioni forti» che, per altro, sono facili da riconoscere nelle dichiarazioni del premier Sharon e del primo ministro palestinese Abu Mazen (che ha pregato i giornalisti di dimenticare il suo nome di battaglia, Abu Mazen, appunto, per quello anagrafico: Mahmoud Abbas). Inopinatamente facondo, Sharon ha persino parafrasato Rabin, mentre Abbas «non più atti di violenza dall’una e dall’altra parte», ha scandito richiamando l’attenzione «di tutti» sulle sofferenze del suo popolo: centinaia di prigionieri politici, disoccupazione. E’ troppo presto per dire con Mubarak: «la ruota della pace si è rimessa in moto», ma a certi livelli politici anche gli atti formali (strette di mano, discorsi) acquisiscono una straordinaria valenza. Nel simbolismo della buona volontà spicca il ritorno degli ambasciatori di Egitto e di Giordania a Tel Aviv, fa premio l’invito a Washington di Bush a Sharon, a Mahmoud Abbas, per la prossima primavera.
E’ troppo presto per dire che dopo quattro anni bestiali la seconda intifada sia finita, e che «se ci fosse stato lui», cioè Arafat, una tregua come questa di Sharm el-Sheikh ce la saremmo sognata. Certamente Arafat voleva la pace ma una pace «in buona e dovuta forma», non un patto leonino e questo finché ha vissuto gli è stato proposto. La vulgata vuole che a Camp David Arafat abbia «bruciato» la pace più grande e generosa che gli offrivano Clinton e Barak. Sia come sia, va ricordato che Arafat è stato un tattico straordinario, ma un pessimo stratega e questo perché è sempre rimasto un rivoluzionario, un Garibaldi mediorientale, cioè la negazione della politica. Ma è anche vero che se, oggi, Sharon, sinceramente pensiamo, offre un ramoscello d’ulivo al successore di Abu Ammar, questo suo gesto è dettato soprattutto dal pragmatismo, da una lucida diagnosi della situazione. Ancorché possente militarmente, Israele cominciava a soffrire più del previsto la anomala «guerra d’attrito» fatta di terroristi suicidi e degli attacchi estemporanei delle varie «brigate» covate da Hamas. Con questa organizzazione assistenziale, divenuta nel tempo una pistola alla nuca del primo esercito della Regione, bisognerà fare i conti. Fin da adesso. Il dottor Abbas è riuscito a strappare una tregua agli oltranzisti (anch’essi terribilmente stanchi), ma quanto potrà durare se le aperture di Sharon dovessero per un motivo qualsiasi chiudersi? Di più: accetterà Sharon la prudenza (obbligata) di Abbas nel gestire l’attuale preambolo a un disseppellimento della Road Map? Riuscirà Sharon a chiedere «il giusto peso» alla controparte per scansare il pericolo che al doppiopetto del dr. Abbas qualcuno appenda la lettera Q, infamandolo come Quisling?
Codesti interrogativi si intrecciano con i tormenti di Sharon: la resistenza dei coloni a sgomberare «la terra promessa», i malumori dell’esercito; il «no» alla divisa, alla guerra di un numero non indifferente di giovani chiamati alle armi. Paradossalmente Israele, Paese democratico monitorato da una stampa davvero libera, poderosamente armato, scientificamente avanzato eccetera incontra più difficoltà dei palestinesi. Costoro si possono rifugiare nel «vittimismo», Israele no. Epperò, una volta ancora ricorderemo Ben Gurion, questo mezzo Cavour, mezzo Garibaldi, quando proclamò la Palestina «terra di miracoli».
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