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La Stampa Rassegna Stampa
09.02.2005 Sharon e Abu Mazen annunciano il cessate il fuoco
le analisi di Fiamma Nirenstein e Maurizio Molinari

Testata: La Stampa
Data: 09 febbraio 2005
Pagina: 2
Autore: Fiamma Nirenstein - Maurizio Molinari
Titolo: «Dopo fiumi di sangue lo spiraglio di una nuova era - Mubarak schierato tra i vincitori -In cerca del nuovo ordine»
LA STAMPA di lunedì 9 febbraio 2005 pubblica un'analisi di Fiamma Nirenstein sulla svolta del vertice Sharm el Sheik, dove dopo quattro anni di guerra è stato proclamato un cessate il fuoco tra israeliani e palestinesi.
Ecco l'articolo, "Dopo fiumi di sangue lo spiraglio di una nuova era":

Chi era già stato a Sharm nel 2000, quando i palestinesi e gli israeliani si incontrarono per l’ultima volta prima della tragica esplosione dell’Intifada del terrorismo, non poteva, ieri, non commuoversi. C’è voluto un fiume di sangue prima che uno spiraglio si riaprisse. Allora dall'aeroporto fino alla zona degli alberghi si potevano vedere al vento e al sole le bandiere egiziana, giordana, palestinese e americana: Ehud Barak che andava all’incontro ormai molto scoraggiato, non vide lungo la strada neppure una bandiera bianca e celeste con la Stella di David. Al primo ministro israeliano fu persino tolto il telefonino all’ingresso della sala della riunione. Stavolta invece le bandiere israeliane garrivano insieme a quelle del mondo arabo, uguale alle altre, e a Sharon sono stati attribuiti gli stessi onori dei Raiss arabi, pare con l’attivo interessamento di Abu Mazen. Gentile e sorridente è il costume mediorentale quanto è crudele e aggressivo quando all’improvviso il deserto si rivolta e morde. Adesso si tratta di comprendere quando le molte promesse di pace, la promessa di Abu Mazen di «cessare ogni atto di violenza» e di Sharon di «cessare ogni azione militare» potranno, vorranno essere mantenute. Di buono c’è che nelle stanze degli incontri da cui i giornalisti sono stati rigorosamente tenuti fuori, si è parlato intensamente di come gestire lo sgombero da Gaza decidendo che non sarà più unilaterale come Sharon aveva deciso quando dall’altra parte c’era Arafat. Stavolta a fronte di un capo palestinese che riceve la fiducia israeliana, lo sgombero sarà gestito in collaborazione, con la mallevadoria egiziana. Di buono c’è anche che pare che lo sgombero di cinque città palestinesi dovrebbe svolgersi nel brevissimo tempo di tre settimane. Hebron, Shkem e Jenin sono città che gli israeliani ritengono ancora nidi di terrorismo molto pericolosi, tanto da sconsigliare per adesso lo sgombero.
Di buono ci sarebbe la promessa che Abu Mazen ha ripetuto pubblicamente: un potere, una legge, un’arma. Sarebbe la promessa di gestire con mano forte e diretta la repressione del terrorismo. Ma qui ci sono molti «se» e «ma»: Abu Mazen è in un corpo a corpo con la sua riforma, sia il potere che la legge che la forza ballano fra gruppi diversificati e in conflitto. Ciò non significa che alla fine non possa farcela. Ma, e qui il problema si affaccia particolarmente minaccioso, i due capi di Hamas Khaled Mashal, che gestisce la sede dell’organizzazione a Damasco, che Mahmoud Zahar, di Gaza, che avevano fino a poche ore prima dichiarato di essere favorevoli all’incontro, sottintendendo un impegno ad astenersi da atti di violenza, subito dopo hanno dichiarato di non sentirsi vincolati a nessun cessate il fuoco, dal momento che a loro parere nessun risultato positivo era uscito dal vertice.
Invece ad esempio un’altra cosa buona che solo i massimalisti non vedono è un approccio realistico al problema dei prigionieri: è stata costituita una commissione comune per decidere sulla liberazione dei prigionieri. I palestinesi si dicono delusi dai novecento liberati, mentre nei corridoi si mormora che non avevano mai pensato di raggiungere subito un simile risultato. Adesso chiedono la liberazione di tutti i prigionieri di prima dell’accordo di Oslo, ma fra loro ci sono personaggi con molto sangue israliano sulle mani; inoltre Abu Mazen ne fa una questione di principio, perché di fatto si tratta del suo pegno politico agli estremisti delusi. Sharon lo capisce e cerca di seguire l’indicazione americana di non destituirlo di autorità agli occhi della sua gente. Tuttavia, i più sanguinosi attacchi terroristi sono ferite ancora aperte, e Sharon deve rispondere alla sua costituency sull’unico terreno su cui anche agli occhi della destra può ancora vantare meriti, quello della sicurezza.
Di buono al summit c’è stato soprattutto il coraggioso, scoperto impegno dei leader, che giocano la loro vita e il loro ruolo storico nella promessa della pace. Ariel Sharon ieri ha di nuovo sfidato la destra e 150mila settler con frasi piene di coraggio, tornando ripetutamente allo sgombero, dicendo che Israele ha imparato ad avere a che fare col dolore di rinunciare ai propri sogni, e chiedendo lo stesso ai palestinesi. Si è messo di fronte ad Abu Mazen all’altezza degli occhi, descrivendo il rischio che ad opera di estremisti corre il programma di pace da ambedue le parti. «Questo è il giorno in cui il processo si muove di nuovo per portare pace al Medio Oriente». Due Stati per due popoli, fine delle sofferenze dei palestinesi, Sharon non si è risparmiato niente di ciò che la destra non dice mai. Abbas ha fatto lo stesso, chiamando violenza la violenza, impegnandosi in prima persona a fermarla. E Mubarak, che sa che lo aspettano molte responsabilità, le ha addirittura allargate dicendo che la pace fra palestinesi e israeliani può rappresentare l’inizio di un’era nuova per tutto il Medio Oriente, e che lui sta al centro del processo. Ma nell’ombra restano i grandi problemi su cui si deve ancora metter mano: la ripresa degli attentati da parte di Hamas, della jihad islamica e l’ingerenza ormai palese degli Hezbollah (non a caso ieri la Rice da Roma ha minacciato la Siria di sanzioni se non cesserà di aiutare gli Hezbollah). Ma altrettanto importante l’enfasi che, accettando ambedue le parti l’idea della ripresa della Road map, pure Abu Mazen mette sulla sua ripresa in vista di una soluzione definitiva. Sharon invece vede la cosa suddivisa in tre fasi: sgombero, verifica della situazione della sicurezza, e infine ripresa della Road map con una soluzione definitiva in vista. I temi più scottanti, ovvero quello dei profughi, di Gerusalemme e dei confini del ‘77 per ora non sono neppure sull’agenda. Ne abbiamo ancora da remare.
Un altro articolo di Fiamma Nirenstein, "Mubarak schierato tra i vincitori" analizza il ruolo del raìs egiziano:
Hosni Mubarak è un grande vincitore di Sharm el-Sheik: chiamato all’appello inaspettamentente da Bush nel suo discorso sullo Stato dell’Unione quando indicava la via della democratizzazione del Medio Oriente, ha risposto da suo pari. Il Raiss egiziano, che è sempre molto attivo quando si tratta di ribadire che l’Egitto è il primo dei Paesi Arabi, ieri ha ribadito ancora una volta il suo ruolo chiave. Infatti ha tenuto a battesimo la promessa di pace fra palestinesi e israeliani. Insomma Mubarak sarebbe incaricato di dimostrare che la via della pace è anche quella della democrazia nel mondo arabo, e viceversa, ma forse il ruolo gli piace solo se giocato come vuole lui, ovvero soprattutto sul terreno della democrazia altrui, per esempio quella palestinese. Mubarak, l’anno scorso tuttavia aveva dato vita a una riforma parlamentare di una certa rilevanza mettendosi al passo col nuovo discorso pubblico mediorentale che già da un anno e mezzo ripete come un mantra il tema «riforme», ma è anche un sostenitore di quella che viene chiamata «stabilità» per dire conservazione del vecchio regime. Dalla morte di Sadat nel 1981 uno «stato di emergenza» proclamato allora e anche l’effettiva presenza di un integralismo islamico molto aggressivo crea l’alibi per mettere continuamente sotto processo e in prigione dissenzienti democratici come Saad Eddin Ibrahim, Nawal Sadawi, mahmud Farin Hassainen, Ibrahim el Sahar. Ma questi intellettuali hanno, sull’onda della guerra alla tirannia irachena, preso sempre più coraggio, e oggi osano affacciarsi alla scena politica nonostante Mubarak seguiti a preparare la successione dinastica del figlio Gamal.
Tuttavia alle primissime elezioni, a settembre, Mubarak, che pure è o è stato gravemtente malato, sarà candidato di nuovo per la quinta volta. Tutto questo, in piena crisi economica, nonostante una recente riforma e nonostante le enormi somme che gli Usa hanno sempre tributato a quello che sembra un Paese destinato da sempre ad essere un punto di equilibrio nello scacchiere mediorentale. Adesso Mubarak gestendo l’apertura di pace a Sharm, l’incontro tanto auspicato dall’amministrazione americana e da tutto il mondo, e promettendo insieme a re Abdullah di Giordania (che al summit non ha aperto bocca) il prossimo ritorno degli ambasciatori in Israele, giuoca un ruolo importantissimo, se le cose funzioneranno, in un futuro che si apre per il Medio Oriente intero. Il Raiss ha detto che si augura che nel futuro della regione si riapra anche la strada del rapporto con i siriani e i libanesi. Il dubbio è se i suonatori che andarono per suonare non rimarranno suonati, ovvero se non toccherà davvero anche a Mubarak cominciare a immaginare che la democrazia in medio Oriente debba passare anche dal suo Paese.
In prima pagina Maurizio Molinari, nell'editoriale "In cerca del nuovo ordine" collega il vertice di Sharm el Sheik e il disorso di Condoleezza Rice a Parigi, come elementi, appunto di un possibile nuovo assetto e di una pacificazione del Medio Oriente, nel quadro di un rinnovato rapporto transatlantico.
Ecco l'articolo:

L’accordo di Sharm el-Sheikh e il discorso di Condoleezza Rice a Parigi disegnano all’orizzonte un possibile nuovo ordine internazionale. L’intesa sul cessate il fuoco raggiunta fra Ariel Sharon ed Abu Mazen sulla rive del Mar Rosso apre la strada alla fase finale del negoziato israeliano-palestinese, alla nascita dello Stato di Palestina ed alla piena accettazione di Israele da parte dei Paesi arabi.
L’intervento del segretario di Stato di fronte alla platea della facoltà di Scienze Politiche di Parigi rilancia il patto transatlantico, chiedendo agli alleati di «guardare al futuro» e «condividere i propri valori con gli altri popoli» che aspirano alla libertà. La simultaneità dei due eventi è stata voluta dalla Casa Bianca per creare un «momentum diplomatico» che culminerà con l'arrivo del presidente George W. Bush in Europa il 20 febbraio.
Forte del successo ottenuto a Baghdad con la celebrazione delle elezioni, la diplomazia americana opera su un doppio binario: spingere il Medio Oriente a ritmi accelerati verso pace, riforme e democrazia; rilanciare i compiti della Nato guardando ben oltre i confini geografici del Vecchio Continente. Il fine è trasformare l'alleanza euroamericana nel laboratorio di una rivoluzione democratica globale che si propone di lottare contro tirannie, terrorismo, armi di distruzione, povertà e malattie come l’Aids. Se la regione del Grande Medio Oriente, fra gli oceani Atlantico ed Indiano, è il terreno scelto per la resa dei conti con gli ultimi dittatori, l'America vede nell'Europa il partner necessario per affrontare le responsabilità della guerra al terrorismo in quanto il conflitto ha tempi lunghi ed i pericoli incombono: l’opposizione dei fondamentalisti di Hamas all'intesa di Sharm el-Sheikh, le minacce degli Hezbollah contro Abu Mazen, le autobombe di Abu Musab al-Zarqawi a Baghdad, l’ancora imprendibile Osama bin Laden, la vitalità di Al Qaeda nella penisola arabica e la corsa dell’Iran all’arma nucleare sono un'agenda ad alto rischio.
Se Bush nei due discorsi di inizio mandato ha indicato nell’«espansione della libertà» l'obiettivo strategico di questa generazione, in risposta alla sfida militare subita con gli attacchi dell'11 settembre 2001, è il segretario di Stato che con la sua maratona aerea di sette giorni in dieci nazioni ha iniziato a gettare le fondamenta del nuovo assetto internazionale, raffigurato dalla stretta di mano Sharon-Abu Mazen, chiedendo ad un'«Europa forte» di fare la propria parte, di essere protagonista alla costruzione degli equilibri del XXI secolo.
Per raccogliere la sfida l'Europa dovrà dimostrare di condividere con l’America qualcosa che va oltre l'interesse comune di lasciarsi alle spalle le ferite irachene. Al di là della politica ciò che infatti sta dietro le mosse della Casa Bianca è la convinzione che «la Storia non si fa da sola ma - come ha detto la Rice ieri a Parigi - viene fatta dagli uomini». E' stata proprio la scommessa americana sulla possibilità di trasformare lo status quo che ha portato al rovesciamento dei taleban e di Saddam Hussein, all’uscita di scena di Yasser Arafat ed alla sconfitta dell'Intifada armata.
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