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Avvenire Rassegna Stampa
08.02.2005 Non è la rinuncia a combattere militarmente il terrorismo che rende possibile la pace
pensarlo è un errore, commesso anche da Fulvio Scaglione, in un editoriale altrimenti corretto

Testata: Avvenire
Data: 08 febbraio 2005
Pagina: 2
Autore: Fulvio Scaglione
Titolo: «Colomba Rice. In medio Oriente refoli di pace»
AVVENIRE di martedì, 8 febbraio 2005, pubblica un editoriale di Fulvio Scaglione sul vertice di Sharm el Sheik.
Scaglione compie un apprezzabile sforzo di obiettività, ma commette un serio errore di valutazione.
Sostiene infatti che tra le cause dell'attuale possibilità di dialogo vi sia, oltre alla scomparsa di Yasser Arafat, la deviazione del governo di Ariel Sharon dalla sua iniziale "inflessibilità" e dall'idea di poter sconfiggere militarmente il terrorismo.
In realtà questa analisi muove da presupposti doppiamente falsi: è falso che il governo Sharon non fosse da subito disposto al dialogo e a "dolorose concessioni" ai palestinesi, ed è falso le sue mosse più recenti siano state determinate dalla constatazione del fallimento della risposta militare al terrorismo. E' stato al contrario il successo di questa risposta a rendere possibile il disimpegno da Gaza.
La morte di Arafat ha poi consentito il passaggio dalle mosse unilaterali al negoziato, perché ha fatto emergere interlocutori reali in campo palestinese.
E' importante avere chiaro il disegno di questo processo, perché se ne deve trarre un' importante lezione: che il terrorismo è il peggiore nemico della pace, la quale diventa possibile solo quando viene sconfitto, non quando lo si premia.
Un altro errore commesso da Scaglione consiste nello scrivere che il ritiro da Gaza era "previsto, per altro, già dagli accordi di Oslo del 1993", facendone in sostanza un atto dovuto.
In realtà Oslo prevedeva il ritiro della truppe israeliane. Scaglione avrebbe intanto dovuto notare che è il terrorismo che ha prodotto lo scardinamento di quell' accordo. Inoltre, avrebbe dovuto accorgersi che la novità del disimpegno sta nello smantellamento degli insediamenti, questione che Oslo aveva rimandato a un accordo definitivo.

Ecco l'articolo:

Napoleone i marescialli li voleva non solo coraggiosi ma fortunati. Avrebbe dunque apprezzato Condolezza Rice, che nei pochi giorni dall'inizio del suo mandato di segretario di Stato ha già incassato il positivo svolgimento della giornata elettorale in Iraq e la disponibilità di Ariel Sharon e Abu Mazen a incontrarsi non solo nel vertice di Sharm el-Sheik con il presidente egiziano Mubarak e il re giordano Abdallah ma addirittura a Washington, in casa di George W. Bush. La differenza è sostanziale. Da Sharm el-Sheik si può uscire con un rinvio o con un modesto compromesso, dalla Casa Bianca no. Accettare un simile invito vuol dire garantire che il summit in terra americana darà risultati concreti, perché nessuno può permettersi di sprecare un intervento della superpotenza da cui, in un modo o nell'altro, sia gli israeliani sia i palestinesi dipendono. È chiaro che qualcosa è cambiato. Intanto perché le parti in causa, pur tra persistenti tensioni e i soliti timori sul colpo a sorpresa di una delle tante formazioni radicali (a Tel Aviv si dice, per esempio, che Abu Mazen potrebbe essere bersaglio di un attentato), hanno fatto negli ultimi tempi evidenti sforzi per diminuire le occasioni d'attrito. Fino agli accordi più recenti, con Israele che ha sospeso la caccia ai palestinesi ricercati, Abu Mazen che non ha insistito più di tanto sulla liberazione dei palestinesi detenuti per fatti di sangue, per concludere con un annuncio atteso ma non per questo meno clamoroso: un cessate il fuoco che, per la prima volta da anni, sembra solido e destinato a durare. Ma è soprattutto il nuovo coinvolgimento americano a dimostrare che forse è arrivato anche in Palestina, come ha detto ancora la Rice, «il tempo dell'ottimismo». Il primo quadriennio dell'amministrazione Bush, infatti, è stato segnato dal rifiuto, ufficialmente mai espresso ma nella pratica applicato con rigore, di metter le mani nel crudele intreccio di attentati e rappresaglie. Fermo il sostegno a Israele, Paese aggredito. Altrettanto ferma la condanna del terrorismo e il disconoscimento di Yasser Arafat. Ma a ben vedere, poco di più. Il mutamento di rotta degli Usa ha diverse ragioni. Una è tutta interna all'America e alle esigenze del secondo mandato di George Bush. Nei primi quattro anni la guerra è stata praticata con grandi sacrifici, e non pare più una risorsa possibile. È dunque l'ora della diplomazia e della costruzione della pace. Per quanto si possa sperare il meglio, poi, l'Iraq richiederà ancora molte e lunghe cure. L'unico vero spazio d'azione, dunque, è il conflitto tra Israele e i palestinesi, che comunque interessa anche Egitto, Giordania, Siria, Libano. Tanto più che, sul terreno, sono a loro volta mutate condizioni importanti. La prima, e per quanto sembri cinico dirlo, è che non c'è più Arafat con il suo potere d'interdizione, le sue inutili astuzie e complicità, il peso di un passato che per il popolo palestinese era ormai diventato una prigione. La seconda, non meno decisiva, è che Ariel Sharon si è reso conto che con i soli carri armati si fa poca strada. L'ex generale (discusso) e attuale premier (inflessibile) ha deciso il ritiro da Gaza (previsto, peraltro, già dagli Accordi di Oslo del 1993) e ha cambiato il Governo, rinunciando al sostegno della destra in cambio di quello dei laburisti di Shimon Peres. Il tutto, per quanto spiaccia ai fan dello Sharon combattente, in tempi non sospetti, cioè senza avere in mano particolari garanzie da parte dei palestinesi, senza che il loro desiderio di pace fosse più evidente di prima. È possibile, dunque, che il tempo del vero ottimismo non sia ancora arrivato. Certo pare finito quello del pessimismo come unica scelta possibile. Davvero non è poco.
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