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La Stampa Rassegna Stampa
03.02.2005 Igor Man scrive della salute del Papa, ma non rinuncia alla retorica filo-palestinese
che non può mancare in un suo articolo, quale che sia l'argomento

Testata: La Stampa
Data: 03 febbraio 2005
Pagina: 1
Autore: Igor Man
Titolo: «Perchè la gente lo ama»
Anche quando scrive della salute del Papa, o di qualsiasi altro argomento, Igor Man non rinuncia a tirare in ballo la "questione palestinese". Giovedì 3 febbraio 2005 lo fa scrivendo di «fogne a cielo aperto che pudicamente chiamiamo "campi profughi palestinesi"».
A parte la scarsa pertinenza con il tema dell'articolo bisogna osservare che i campi profughi palestinesi non sono, in generale, fogne a cielo aperto. Certo, in paesi come il Libano, che proibiscono la riparazione delle case nei campi profughi, oltre che l'esercizio di una trentina di lavori, la situazione è peggiore. Ma in altri contesti, tra cui i territori, i campi profughi sono spesso vere e proprie città, povere ma dignitose. Si veda in proposito, ad esempio, la descrizione del campo di Deheisha nel libro di Fiamma Nirenstein "Gli antisemiti progressisti".
Del resto, l'Unrwa l'agenzia dell'Onu che si occupa dei profughi palestinesi, ha destinato finora alla loro sistemazione una cifra quadrupla rispetto a quella spesa per tutti gli altri profughi del mondo, dei quali si occupa una sola agenzia Onu.
In queste condizioni, anche tenendo conto dei soldi stornati alla propaganda antisraeliana e al terrorismo, sarebbe sorprendente se i campi profughi palestinesi fossero rimasti "fogne a cielo aperto".Perchè non sono mai stati smantellati ? Perchè l'ONU, d'accordo con OLP, li ha usati fino ad oggi in funzione propagandista contro Israele. Così Igor Man può continuare a citarli.

Ecco l'articolo:

Dietro il linguaggio neutro del bollettino medico, oltre l’impeccabile discorso (rasserenante) del portavoce vaticano, l’hidalgo Navarro Valls, la risacca della speranza conosce l’insidia dello sgomento. Al «Gemelli» le suorine del decimo piano, assiduamente, ahimè, frequentato dal Papa polacco - dall’attentato del 1981 fino alla recente artrosi paralizzante al ginocchio (2002) -, recitano il Rosario tre alla volta per così non interromperlo col loro servizio di (particolari) infermiere. Il mormorio del Rosario sollecita il bisbigliar d’una preghiera collettiva persino disordinata tanto oscilla dalla speranza allo sconforto. Lui, il Santo Padre è come se al cilicio del male fisico che sopporta da un tempo assai lungo, avessero aggiunto altri nodi. Duri, soffocanti. E tuttavia sorride a chi lo cura, sembra scusarsi «del disturbo»; spesso trincia l’aria asettica dell’ospedale col segno della benedizione. E’ il modo per dire «grazie» a chi lo assiste. Lui, Wojtyla non voleva assolutamente lasciare la Loggia papale, una volta ancora decisiva è stata la rapida fermezza di don Stanislao, vale a dire l’arcivescovo Dziwisz, il segretario particolare del Papa: come già in quel crudele momento in cui Ali Agca sparò all’allora atletico Pontefice, «al Gemelli, al Gemelli», gridò. Codesta struttura ospedaliera è ricca di camere di rianimazione ove si rendesse necessario il loro impiego, consente il pressoché indolore prelievo del liquido che i polmoni del Papa secernerebbero: sembra a causa del cosiddetto enfisema senile di cui, appunto, Giovanni Paolo II soffrirebbe. Insomma, il Papa sta male e questa cruda realtà determina nella gente dispiacere, forte dispiacere, quando non dolore. Un dolore ch’è figlio dell’affetto. In questo caso un affetto veramente globale (basta vedere i messaggi che raggiungono i sacri palazzi), nella sua immediatezza. Ed eccoci, una volta di più, a interrogarci: come mai, perché la gente, la gente del mondo, vuol bene al Papa, a questo Pontefice le cui fotografie trovi al Khan Kalil del Cairo e persino nei megamercati della Cina; in quelle fogne a cielo aperto che pudicamente chiamiamo «campi profughi palestinesi», perché il Pontefice della Chiesa cattolica è destinatario di simpatia, di affetto addirittura persino a Damasco?
La risposta a questo non facile «perché» me l’ha data Leonardo. Costui è un punkbestia che bivacca, con altri suoi amici di cordata, a Ponte Sisto a un passo da piazza Trilussa, residenza di vecchi clochards, cupi e maneschi. Leonardo è nato a Modena 31 anni fa (almeno così dice) ed è un bellissimo ragazzo: alto, una faccia gradevole e ironica, capelli lunghi, mani espressive. Quando sorride, però, mostra denti precocemente guasti. Ebbene Leonardo ha attaccato con lo scotch, al ponte, una fotografia del Papa (ritagliata da un rotocalco) e un santino di Padre Pio. Perché? «Perché gli voglio bene al Papa». Perché? «Perché non dà soggezione, perché non è stato mai cattivo con noi mostri schifati dalla gente-bene, perché si preoccupa dei carcerati, dei malati, perché sta in alto e sappiamo ch'è potente ma sarà per come parla, per come si rallegra quando gli prendono la mano (magari un lebbroso o un aids, vallo a sapere) non ti fa sentire la m. che sei, anzi ti incoraggia col suo sorriso, come se tu fossi un amico, non un estraneo magari str. come me».
Nel 1997, il Papa fu in Libano durante due giorni. Un viaggio invero «difficile» poiché non tutte le ferite di 17 anni di guerra civile s’erano rimarginate: nell’aria soave di Beirut vorticava il polline dell’odio. Per motivi di sicurezza e di capienza, l’adunanza dei giovani cui avrebbe parlato Wojtyla, si fece a mezza costa, in una sorta di anfiteatro naturale, arrangiato per la bisogna. Tutti quei giovani che nel rapido volgere di due ore affollarono quell’ambiente, erano armati anche se per rispetto del Papa al posto del mitra avevano la pistola, nascosta sotto la giacca. Il Papa tardava e sui gradini dell’attesa, sempre più veloce e diffusa, montava una slavina d’odio. E indicandosi l’un l’altro, quei giovani che fino a poco tempo prima s’erano combattuti senza misericordia, presero a insultarsi, a minacciarsi. Arrivò il Papa e posseduti dall’odio com’erano, i ragazzi non se ne accorsero. Giovanni Paolo II ristette un attimo in piedi, infine s’accasciò sulla sedia di foggia orientale a lui destinata. Coprendosi il volto con entrambe le mani, attese. Finalmente, accortisi della sua presenza, i giovani tacquero. E Karol Wojtyla li arronzò. Letteralmente. Disse a quei disperati che l’odio li avrebbe divorati sino alla perdizione, che non era necessario che in quel preciso momento, si decidessero a far pace: ci vorranno anni ma bisogna cominciare a provarci. Subito. Questo disse il Papa, con voce imperiosa, martellando il suo ottimo francese (lingua franca in Libano). Ma immensa fu la nostra sorpresa quando vedemmo quei ragazzi venirsi incontro, abbracciarsi. (Non pochi piangevano gridando al Papa: grazie, je t’aime).
La famiglia, come sappiamo, è in crisi, un po’ dappertutto su questa terra. Qualcuno sostiene che noi italiani siamo messi meglio degli altri. Perché moltissime famiglie hanno il Nonno. Spesso i figli sconsiderano i genitori: lui o lei ovvero entrambi sessantottini falliti. Il padre straparla o tace, la madre si lamenta, proclamando instancabile il nullismo del marito. Ci pensa, tuttavia, il Nonno a tenere in riga i figli della coppia sciagurata perché stanca. E i ragazzi col Nonno si confidano e lui li aiuta, magari a fare i compiti. Ecco, anche per questo (verosimilmente) i ragazzi vogliono bene a quel grande Nonno ch'è Wojtyla. Durante il Giubileo che vide le divisioni del Papa occupare festosamente Roma, una sera, durante una cerimonia, un ragazzo dell’Angola, insolitamente albino, balzò sul palco gridando al Papa: «Mi hanno ucciso il padre e la madre, i fratelli ma io li ho perdonati, Padre Santo, lo giuro: l’ho fatto perché le voglio bene». A queste parole il Papa aprì le braccia e quel ragazzino vi si tuffò.
Nel silenzio della notte romana s’udivano i singhiozzi del ragazzo e le buone parole del Papa. Si abbracciavano, il Pontefice massimo, il ragazzino orfano dell’Angola, come due parenti: il Nonno, il Nipote. Ecco perché la gente vuol bene al Papa: lo sentiamo autentico, semplice, istintivo, non sacralizzato dalla pompa, dagli inchini dei cardinali, dalle genuflessioni degli onorevoli deputati in perenne campagna elettorale. E’ uno come noi ma vede quel che noi non riusciremo a vedere mai: vede lontano. E’ un profeta postmoderno perché attraverso il presente intuisce come sarà il futuro. I profeti non sono infatti indovini, ma persone cui è dato leggere il tempo dell’uomo.
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