La democrazia e i suoi nemici piccola antologia degli amanti e degli odiatori della libertà, il giorno dopo il voto iracheno
Testata:La Stampa - Corriere della Sera - L'Unità - Il Giorno Autore: Guido Ceronetti - Angelo Panebianco - Robert Fisk - Massimo Fini Titolo: «Il valore della disperazione - La forza di un popolo - Vittoria e tragedia - Competizione fasulla tra decine di partiti fasulli»
LA STAMPA di lunedì 31 gennaio 2005 pubblica in prima pagina un editoriale di Guido Ceronetti sulle elezioni in Iraq: "Il valore della disperazione". Al di là dell'analisi politica, lo scrittore coglie la portata etica di queste elezioni, svoltesi sotto il fuoco del terrorismo. Elezioni la cui posta, scrive "non è in un risultato elettorale - non importa quale possa essere - ma nella fondazione, in mezzo alle bombe e alla paura, di un valore umano", è nell'affermazione da parte di "sbrindellati, frustrati, malnutriti elettori orientali" del loro diritto di "cittadinanza", diritto affermato a rischio della vita contro gli aspiranti tiranni che manovrano il terrorismo. Ecco l'articolo: Non vanno misurate coi metri soliti, elezioni del tipo di quelle nel mattatoio iracheno, nella rissa postarafattiana, nello scontro duro e incruento ucraino in cui un vero popolo ha imposto la propria volontà collettiva, rivelando che quella del démos comune può essere ben più illuminata di quella di pochi sicuri della loro inamovibilità. Vivere nelle società dell’Occidente rende sprezzanti verso eventi elettorali che dopo tutto, presidenziali in USA o consiglio comunale a Poirino, così pacifiche, sono irrilevanti quanto al significato. Muta la scala, la corsa al disvalore è la stessa, lecito è vantarsi sogghignando di aver passato la domenica elettorale senza alzare il sedere da una sdraio balneare, e chi ne capisce un po’ di più andrà al seggio da scettico e da svogliato, nella costernante certezza che nessun candidato ha un pensiero diverso o rappresenti davvero qualcosa d’interessante nella propria persona colata a picco nelle telecamere. Uno scontro elettorale realmente significativo s’incentra su due opposte concezioni del mondo e della società o sull’irriducibile e sostanziale differenza di pensiero e di fini di due atleti della politica. In Italia valeva la pena di appassionarsi nel 1946 e nel 1948: sotto la nuvola di zucchero filato c’erano gocce di sangue vero e le lance non erano spuntate aldilà dei muri di carta. Se dopo quasi mezzo secolo di brutalità senza nome ci sono uomini e donne che affrontano candidature di morte e vanno ugualmente - camminando sul filo del terrore - a votare, la loro determinazione instaura valori, e l’atto che qui da noi è di pura routine, che qui come a Parigi o a Berlino si riduce a sfinite, forzate giostre in canali d’impostura, s’impregna di significato. La posta non è in un risultato elettorale - non importa quale possa essere - ma nella fondazione, in mezzo alle bombe e alla paura, di un valore umano. Là si vota in una fossa di belve. Lo sforzo di quegli sbrindellati, frustati, malnutriti elettori orientali per diventare, per la prima volta, dei cittadini e strappare diritti, impressiona: ne emana, crivellata, una luce di nobiltà tragica. Io lo scrivo sapendo quanto sia difficile far comprendere questa fame, che non è dal ventre, di un poco di libertà garantita a chi ne possiede in eccesso, questo bisogno di acquistare cittadinità a chi ha perso perfino la nozione di che cosa sia essere cittadini: è l’eterna storia del chi sale e chi scende, del farsi o non farsi prendere a schiaffi, del lasciarsi imbrattare con lo spray blù o rosso la faccia contenta che si rischiara soltanto alla vista dei soldi, e del disperato tentativo di chi, bagnandola con il proprio sangue, rialza dalle umiliazioni e dagli oltraggi la faccia umana. Perfino il nostro avvilito andare al voto, che non costa il minimo sforzo, che si compie sbadigliando, acquista grazie a questo insanguinato rito iracheno un riflesso di rispettabilità. Un' analisi politica di grande lucidità si trova nell'editoriale di Angelo Panebianco, "La forza di un popolo", in prima pagina sul CORRIERE DELLA SERA. Ecco l'articolo: Di fronte alla notizia, inaspettata date le condizioni di massima insicurezza e i massacri quotidiani, secondo cui un'altissima percentuale degli aventi diritto ha votato nelle elezioni irachene è forte la tentazione di usare toni trionfalistici. Per tre ragioni. In primo luogo, perché l'affluenza alle urne è una prima clamorosa sconfitta del terrorismo ( che pure ha continuato anche ieri, freneticamente, a fare stragi di civili e ancora non si sa come sia caduto l'aereo militare britannico) e un premio a coloro che, dentro e fuori l'Iraq, sulla riuscita delle elezioni avevano puntato tutto per spingere il Paese verso la pacificazione. In secondo luogo, perché l'alta affluenza significa che non solo sciiti e curdi ma anche una parte rilevante dei sunniti ha scelto, a rischio della vita, di votare. Non c'è stata quell'auto- esclusione dei sunniti dal processo elettorale su cui i terroristi puntavano per innescare la guerra civile. La maggioranza sciita che uscirà dalle urne dovrà tenerne conto nel prosieguo del processo di normalizzazione costituzionale. In terzo luogo, perché si conferma, persino in un caso estremo come quello iracheno, che le persone, quale che sia la cultura di appartenenza o le condizioni, anche terribili, in cui vivono, se e quando hanno l'opportunità di votare e di dire così la loro sul proprio destino, lo fanno, anche a sprezzo del pericolo. Il « relativismo culturale » , proprio di chi pensa che la « democrazia » non possa riguardare i non occidentali, ha ricevuto ieri dagli ammirevoli elettori iracheni ( come, pochi mesi fa, da quelli dell'Afghanistan) lo schiaffo che una simile visione, così intrisa di razzismo, si merita. Naturalmente, con queste elezioni ( le prime dal 1954 e le prime in assoluto in cui hanno votato le donne) non è nata in Iraq la « democrazia » . Le elezioni sono solo condizione necessaria, non sufficiente, della democrazia. Il processo sarà lungo, irto di difficoltà immense. Il terrorismo continuerà a colpire in modo terribile. I Paesi confinanti ( sia quelli sunniti che devono ora fare i conti con un Iraq a maggioranza sciita, sia l'Iran che cercherà di manovrare i suoi fedeli fra gli sciiti iracheni) continueranno a complottare. I rapporti fra i tre principali gruppi dell'Iraq, sciiti, sunniti e curdi, rimarranno tesi, e certamente ci saranno tanti passaggi difficili nei prossimi mesi e anni. E ci saranno anche forti spinte per fare dell'Iraq una Repubblica islamica governata dalla sharia. Ma intanto, con queste elezioni, qualcosa di importantissimo è accaduto. Per l'Iraq ma anche per l'intero mondo islamico, e arabo in particolare. Nella storia i fenomeni di contagio sono onnipresenti e potenti. È possibile che le prime elezioni libere dell'Iraq diano, nei prossimi anni, frutti anche in altri Paesi, spingendo tanti arabi ( e tanti iraniani) a chiedere con sempre maggior forza libere elezioni agli autocrati che li governano. In Europa, c'è da scommetterci, coloro che considerano le elezioni in Iraq una farsa, un « trucco degli americani » , continueranno a farsi sentire. È normale in un'Europa che, come ha denunciato ieri sul Corriere un vero eroe della libertà, Vaclav Havel, non si vergogna di riaprire le porte al tiranno Fidel Castro e a chiuderle in faccia ai suoi oppositori interni. Non ci sono alibi. Chi trova che Fidel Castro sia una « brava persona » , chi non ha gioito quando è caduta la statua di Saddam Hussein, chi ha accolto con lazzi e frizzi le elezioni in Afghanistan ( e le immagini di quelle lunghe, commoventi, file di donne che, col burqa, andavano a votare), chi nei prossimi giorni ci riproporrà le menzogne sulla « resistenza » irachena si rassegni: egli non ha né gusto né rispetto della libertà. Le dichiarzioni di chi non ha "né gusto né rispetto della libertà" non si sono fatte attendere A pagina 6 del CORRIERE, l'articolo di Roberto Zuccolini "Effetto elezioni, vacilla in Italia il fronte del no" ci offre una breve antologia di reazioni alle elezioni irachene. Particolarmente desolante è leggere il commento di Giani Vattimo: Capita ad esempio che di fronte all'insperato 60% di affluenza, perfino un ostinato anti-Bush come il filosofo Gianni Vattimo, che pochi giorni fa aveva paragonato Al Zarkawi ad un "partigiano della resistenza" arrivi a dire: "Sono contento". Di cosa? Cambiare idea è legittimo, ma definire un giorno Al Zarkawi, che ha tentato di impedire le elezioni, da lui ritenute un'apostasia dall'Islam, sommergendole di sangue, un "partigiano" , e il giorno dopo dirsi contenti dell'alta affluenza alle urne registrata in quelle elezioni, è solo un insulto.
"Memorabile" la dichiarazione di Simona Torretta alla vigilia del voto: una previsione "azzeccata" e un'interpretazione "fondata sui fatti" della politica americana in Iraq: Non credo che il risultato sarà molto significativo di ciò che gli iracheni vogliono. Tutto quello che gli americani desiderano è distruggere questo Paese. Guardate come hanno distrutto Falluja. Lo scenario peggiore è una guerra civile, quello migliore è che le cose rimangano così come sono. Editoriale di Robert Fisk sull'UNITA', "Vittoria e tragedia". In linea con il titolo di apertura del giornale, "Iraq, votano in massa gli sciiti. L'ayatollah al Sistani è il vincitore", Fisk scrive: Perchè se è vero che gli sciiti hanno votato a milioni con immenso coraggio, la voce dei sunniti è rimasta silente, rivelando già fin d'ora la semi-illegittimità di quella prossima Assemblea nazionale che dovrebbe fornire all'America la scusa politica per uscire da questo piccolo Vietnam mediorientale Anche i sunniti hanno votato, almeno in parte, e l'accusa di "semi-illegittimità" è comunque infondata, dato che la parziale opposizione sunnita al voto derivava dal rifiuto delle regole democratiche e dal desideri di mantenere una posizione di privilegio. Fisk scrive anche, poche righe prima, che i sunniti che non hanno boicottao il voto sono stati "intimati dall'avvicinarsi al seggio elettorale". In questa espressione è contenuta una gravissima ambiguità, perchè a intimare agli sciiti di non avvicinarsi ai seggi sono stati i terroristi, che lo hanno fatto anche con tutti gli altri gruppi religiosi o etnici, non il governo iracheno o gli americani, come si potrebbe pensare leggendo la frase del giornalista inglese. Degno di nota anche l'idea che le elezioni servano da pretesto per il disimpegno agli americani. Poco dopo, contraddicendosi, lo stesso Fisk scrive però: gli sciiti nei seggi hanno ripetuto come un'unica voce che stavano votando anche per mandar via gli americani dall'Iraq, non per legittimare la loro presenza. Ma questo è un messaggio che gli americani ignoreranno a loro rischio e pericolo. Cercano un pretesto per andarsene o a loro rischio e pericolo non ascolteranno chi dice loro di andarsene? Entrambe le cose, perchè la prima serve a Fisk per delegittimare le elezioni, la seconda per giustificare i futuri atti di terrorismo contro le truppe, (americane, inglesi, italiane...) che hanno consentito al popolo iracheno di scegliere il proprio destino.
Che questo sia il significato delle elezioni risulta chiaro da innumerevoli testimonianze di iracheni, che nemmeno Fisk può ignorare del tutto, ma che si impegna a sminuire: A un seggio ho chiesto al primo dei giovani soldati iracheni - tutti con addosso un cappuccio di lana nera in modo da non poter essere identificati -se aveva paura. "Non importa, mi ha risposto deciso. "Sono pronto a morire per un giorno così. Oggi dobbiamo votare. Sette ore dopo gli ho parlato di nuovo e anche lui aveva l'indice color porpora. " E' come se potessi cambiare il tuo futuro o la tua fede", mi ha detto. "Finora abbiamo avuto solamente colpi di stato o rivoluzioni. Potevamo votare solamente "si" o "si". Adesso votiamo per noi". E' facile, con parole del genere, nutrire il falso ottimismo dei network televisivi dell'Occidente o il nonsense del giorno "storico" dell'Iraq: perchè sarà storico solamente se davvero cambierà questo Paese, e sono in molti a temere che ciò non accadrà. Milioni di iracheni si sono dimostrati "pronti a morire" per la poter votare "si" o "no", e non solo "si" o "si", ma Fisk, che fino a ieri ci assicurava che non sarebbe mai accaduto, ci dice che non è un fatto storico. Lo sarà solo se "davvero cambierà questo paese". Senza accogersi che l'Iraq, e il mondo, sono già cambiati, e che se anche si dovesse tornare indietro, se il terrore e la tirannia dovessero tornare a prevalere (un evento che le elezioni rendono comunque meno probabile) ora sappiamo che non sarebbe per sempre. Il 30 gennaio 2005 resterebbe comunque una data storica, perchè ha dimostrato una volta per tutte che la democrazia nel mondo arabo è possibile, che i popoli arabi sono pronti a combattere per la loro libertà. Se Zarkawi o altri aspiranti dittatori prendessero il potere in Iraq, ormai la memoria del "gusto della libertà" renderebbe il loro potere fragile, spingerebbe alla ribellione e alla riconquista dei diritti perduti.
Ma ciò da cui procede lo scetticismo di Fisk è una semplice incomprensione della differenza tra libertà e tirannia. Un' incomprensione resa evidente dall'approvazione che riserva al commento di un sunnita ostile alle elezioni, per il quale la democrazia non è che un modo di moltiplicare i tiranni: Ho chiesto a un agente di sicurezza, un musulmano sunnita, che cosa pensava del futuro del proprio Paese. Non aveva votato, naturalmente - in molte città sunnite solo un terzo dei seggi era aperto - ma aveva un mucchio di pensieri a proposito di questa domanda. "Non potete darci la democrazia in questo modo. Questo è uno dei vostri sogni da occidentali, da stranieri, prima avevamo Saddam: era un uomo crudele e ci trattava crudelmente. Ora, grazie a queste elezioni, ci farete avere tanti piccoli Saddam Più schematico di quello di Fisk il modo di liquidare queste elezioni scelto da Marco Rizzo, dei comunsti italiani, che , come riporta IL GIORNALE dichiara che: le elezioni in Iraq sono una vera e propria farsa. Si stanno svolgendo in territorio occupato da forze militari straniere in un contesto di guerra. Rizzo, celebre per aver definito Saddam Hussein un "progressista", concorda nel suo giudizio con Al Jazeera che ha parlato, per bocca del commentatore Abdallah al Sennawi di "elezioni farsa il cui esito è già noto agli occupanti" (dal CORRIERE DELLA SERA) . Anche il teocrate iraniano Akbar Hashemi Rafsanjani, dà i voti di democraticità alle elezioni irachene, dichira infatti che: "Gli Stati Uniti hanno quindi due possibilità, o brogli elettorali, il che è possibile , ma difficile perchè prima o poi verrebbero scoperti, oppure un colpo di Stato, nel caso vengano eletti al parlamento personaggi politici che a Washington non piacciono" (dal GIORNALE) Certo, se gli americani avessero fornito l'Iraq di un Consiglio Supremo della Rivoluzione, sul modello di quello iraniano che serve proprio a eliminare candidature sgradite al "parlamento", non avrebbero bisogno né di brogli, nè di colpi di stato...
Meglio ancora se avessero capito che, come scrive Massimo Fini su IL GIORNO, nell'editoriale "Competizione fasulla tra decine di partiti fasulli", Islam e democrazia sono incompatibili, per cui far votare i popoli islamici è... antidemocratico!
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