La disinformazione e le foglie di fico : ricordare la Shoah e diffamare Israele il quotidiano comunista nel Giorno della Memoria
Testata: Il Manifesto Data: 27 gennaio 2005 Pagina: 8 Autore: Michele Giorgio - Luisa Morgantini - Vauro Senesi Titolo: «La tregua e il sangue sono palestinesi - L'ebrea che ha tradito Sharon»
"La tregua e il sangue sono palestinesi" è il titolo della cronaca di Michele Giorgio pubblicata dal MANIFESTO di giovedì 27 gennaio 2005. La tregua è palestinese: su questo il quotidiano comunista ha ragione. Infatti, dato che è il terrorismo palestinese ad aggredire Israele, suscitandone la risposta difensiva, è ai palestinese che spetta di far cessare la violenza. Quanto al sangue,viene da chiedersi come mai il MANIFESTO dopo l'attentato di Karni, per esempio, non abbia intitolato la sua cronaca "La tregua e il sangue sono israeliani" Giorgio riporta le versioni contrastanti circa la morte di Rahma Abu Shamas, ma non chiarisce che, sul lancio di razzi qassam verso Israele, non ci sono versioni contrastanti. E' avvenuto. Ed'è una rottura della tregua, palestinese. Assimila l'uccisione di un "militante" di Hamas che ha resistito sparando all'arresto a un'"esecuzione mirata", pratica che invece è stata sospesa da Sharon. Non cita la continuazione del traffico d'armi verso Gaza, che rende necessario il corridoio Filadelfia di cui descrive l'impatto sui palestinesi. Ci descrive il sogno palestinese di un "ritorno ad una vita più degna in una terra che non sia più una grande prigione", e poi ci dà, si direbbe quasi inintenzionalmente, la notizia di un passo concreto di Israele per alleviare le condizioni di vita che la scelta della guerra terrorista compiuta dai loro dirigenti ha imposto ai palestinesi. Scrivendo dei "pescherecci che ieri mattina, dopo alcune settimane, hanno potuto finalmente prendere il largo e gettare le reti in acque più profonde, senza avere intorno le motovedette israeliane". Non è l'unica informazione interessante contenuta nell'articolo. Preoccupanti, se confermate, le notizie circa il diritto di veto chiesto da Hamas ad Abu Mazen sugli accordi negoziali. Ridicola, invece, la tesi per cui Arafat non avrebbe mai concesso tanto agli islamisti perchè conscio di dover prima o poi fare concessioni a Israele. Arafat non voleva fare concessioni più di quanto lo volesse lo sceicco Yassin e lo aveva ampiamente dimostrato a Camp David. D'altro canto non aveva motivo di trattare con Hamas per fermarne il terrorismo, dato che condivideva la scelta di ricorrevi. E se non ha mai spartito il suo potere con la fazione islamista è solo perchè il potere non voleva spartirlo proprio con nessuno.
Ecco l'articolo:
Rahma Abu Shamas, 6 anni, non si è neppure resa di ciò che stava avvenendo. Il proiettile sparato, secondo testimoni palestinesi, da una torre d'osservazione dell'esercito israeliano a Deir Al-Balah (Gaza), l'ha colpita alla testa uccidendola all'istante. La radio statale israeliana invece ha riferito che la bimba è morta a causa di una scheggia di un razzo palestinese caduto per errore sulla città. Versione questa seccamente smentita dagli abitanti del posto. L'ennesima uccisione di un'innocente è avvenuta mentre si riallacciavano i contatti politici e di sicurezza tra israeliani e palestinesi. Il premier Ariel Sharon, dicono fonti israeliane, avrebbe deciso di congelare la politica di assassinio mirato di dirigenti e attivisti dell'Intifada, accogliendo l'intesa di cessate il fuoco che il presidente Abu Mazen ha raggiunto con le organizzazioni palestinesi. Appena qualche ora dopo però un'unità speciale della polizia di frontiera ha assassinato a raffiche di mitra, nel centro di Qalqilya (Cisgiordania), un attivista del movimento islamico Hamas e ferito due militanti delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa (che ora minacciano di riprendere le ostilità) ma anche un ragazzo di 14 anni. Un «contributo» al mantenimento della tregua al quale si deve aggiungere il progetto dell'esercito israeliano di allargare ulteriormente la «zona di sicurezza» lungo il corridoio Filadelfia, a ridosso della frontiera tra Gaza e l'Egitto.
Se il progetto verrà autorizzato dall'avvocato dello stato, Menachem Mazuz, allora le forze armate procederanno alla demolizione di altre centinaia di abitazioni di profugi palestinesi nei campi di Brazil e Rafah. «Dove andremo, non abbiamo nulla oltre a questa casa. Perché ci fanno tutto questo, eppure il raìs Abu Mazen vuole fare la pace», commentava ieri Rafik Abu Diala, tremante di fronte alla prospettiva che i buldozer israeliani possano radere al suolo anche la sua abitazione. Ad inizio settimana inoltre sono ripresi i lavori di costruzione del muro israeliano, dieci chilometri all'interno della Cisgiordania, nei pressi della colonia ebraica di Ariel (sud-ovest Nablus), mentre una nuova disposizione prevede la confisca delle proprietà dei palestinesi di Gerusalemme est che non risiedono nella città. Gli abitanti del settore arabo di Gerusalemme - sotto occupazione dal 1967 - hanno anche appreso che dal prossimo luglio avranno bisogno di un permesso israeliano per recarsi a Ramallah e nel resto della Cisgiordania. È un provvedimento che mira a recidere per sempre i legami tra Gerusalemme e il resto dei Territori occupati. A costruire e rafforzare la tregua è solo Abu Mazen, che, tenendo fede alla sua «moderazione», è freddo e determinato quando deve imporre la sua linea alle opposizioni palestinesi, ma rimane in silenzio quando la sua gente subisce abusi. I poliziotti palestinesi - malmenati ieri dai coloni israeliani al posto di blocco di Tuffah (Khan Yunis) - si stanno attenendo agli ordini ricevuti da Abu Mazen di impedire il lancio di razzi Qassam verso Israele. Percorrendo la superstrada che va da Erez a Gaza city - semidistrutta dal passaggio dei mezzi corazzati israeliani - bisogna superare i controlli predisposti dagli agenti dell'Anp, comandati da quel Musa Arafat che dopo aver combattuto per mesi contro i sostenitori di Abu Mazen in Al-Fatah, oggi è il fedele esecutore della volontà del nuovo presidente. La popolazione è perplessa. In maggioranza crede nel progetto di dare spazio al negoziato e di deporre le armi ma dubita delle intenzioni di Israele. In questo clima Hamas sta giocando con attenzione le sue carte, tenendo conto di ciò che si avverte nelle strade palestinesi. «Non siamo soddisfatti - ci ha detto ieri Mushir Masri, portavoce dell'organizzazione a Gaza - non ci fidiamo degli israeliani: fanno affermazioni che poi vengono sistematicamente smentite dai fatti». Masri ha citato l'uccisione della piccola Rahma a Deir al-Balah. «È forse questo il modo in cui gli israeliani manifestano la loro volontà di pace?», ha domandato. Hamas, spiegano a Gaza, ha accettato di aderire alla hudna (tregua) proposta da Abu Mazen non solo perché è questo ciò che vuole la maggioranza della popolazione, sfinita dall'occupazione militare e da quattro durissimi anni di Intifada. Lo ha fatto soprattutto perché ha compreso che da Abu Mazen potrà avere quello che il presidente scomparso Arafat aveva sempre negato al movimento islamico. Hamas infatti ha ottenuto dal nuovo «raìs» la facoltà di porre condizioni alla firma di un futuro accordo di pace tra l'Autorità nazionale palestinese (Anp) e Israele. In sostanza una intesa definitiva con lo Stato ebraico potrà essere siglata solo rispettando i principi nazionali palestinesi. Hamas vuole dar vita ad una sorta di «Autorità diplomatica suprema», incaricata di sostituire l'Olp nelle decisioni riguardanti il futuro di tutti i palestinesi, in particolare a proposito dello status di Gerusalemme e del destino dei circa quattro milioni di profughi delle guerre del 1948 e del 1967. Arafat si era sempre opposto a questa concessione ad Hamas poiché prevedeva di dover prendere in futuro decisioni «difficili», amare per i palestinesi, e che avrebbe avuto bisogno di «mani libere» dai condizionamenti e veti di Hamas. Cosa farà Abu Mazen che invece si sta legando le mani con promesse ed offerte politiche alle opposizioni islamiche? I dirigenti del movimento islamico peraltro non escludono di poter entrare nell'Olp ma chiedono ad Abu Mazen che la loro rappresentanza nell'organizzazione non sia inferiore al 30%. È una percentuale vicina a quella di Al-Fatah che non è disposta a perdere gran parte del suo controllo sull'Olp per compiacere i disegni politici di Abu Mazen. Mentre a Gaza traballa ma resiste la tregua osservata solo dai palestinesi, ieri a Gerusalemme per la prima volta da due anni si sono incontrati rappresentanti politici delle due parti per preparare il primo incontro fra Sharon e Abu Mazen che potrebbe svolgersi nel giro di due settimane, se verrà trovato un accordo sull'agenda del vertice. Israele preme perché si parli soprattutto di sicurezza, l'Anp insiste affinché il vertice affronti la questione della scarcerazione dei detenuti politici palestinesi e della barriera israeliana.
Stando a fonti Anp, nelle prossime due settimane, le forze di sicurezza palestinesi riprenderanno il controllo di cinque città della Cisgiordania: Ramallah, Gerico, Qalkilya, Tulkarem e di una quinta città ancora da definire (forse Hebron). Nablus e Jenin invece resteranno ancora terreno per le incursioni militari israeliane alla caccia di attivisti dell'Intifada. Gaza invece sogna la riapertura dei posti di blocco, come quello di Abu Holi, che spacca in due la Striscia, e il ritorno ad una vita più degna in una terra che non sia più una grande prigione. Da cui si possa partire e tornare liberamente, come i pescherecci che ieri mattina, dopo alcune settimane, hanno potuto finalmente prendere il largo e gettare le reti in acque più profonde, senza avere intorno le motovedette israeliane. A pagina 18 il quotidiano pubblica un articolo di Luisa Morgantini, intitolato "L'ebrea che ha tradito Sharon". Il singolare titolo corrisponde alla convinzione espressa dalla Morgantini nel testo: in Israele il dissenso verso Sharon sarebbe vittima di una spietata forma di "vendetta tribale". I casi citati dalla Morgantini per avvalorare questa tesi sono quello di Mordechai Vanunu, punito per spionaggio come sarebbe avvenuto in qualsiasi paese del mondo, e quello di Tali Fahima, cui è dedicato l'articolo. La sua colpa, recita l'occhiello sarebbe quella di "aver visto in faccia e denunciato gli orrori dell'esercito israeliano a Jenin". Com'è noto, l'esercito israeliano a Jenin è stato impegnato in una battaglia contro gruppi terroristici, non nel "massacro" di cui parlò la propaganda palestinese. Tali Fahima, infatti, non è stata condannata da un tribunale israeliano come testimone degli "orrori" di Jenin. Bensì, come si apprende leggendo lo stesso articolo di Luisa Morgantini, per i suoi contati con Zakaria Zubeidi, capo delle Brigate Al Aqsa. La Morgantini non ricorda che costui è responsabile della morte di civili israeliani, essendo uno degli architetti della campagna del terrorismo suicida. Così i conttatti con lui possono divenire "un'amicizia basata sul confronto", ostacolata dal potere tribale israeliano, che proibisce agli ebrei di parlare con gli arabi. I particolari del processo parlano da soli: nonostante le capziose argomentazioni della Morgantini, che giunge a scrivere, senza alcuna prova, che la testimonianza di un palestinese per la quale Fahima avrebbe assistito alla preparazione di esplosivi da parte dei terroristi sarebbe stata rilasciata "con ogni probabilità sotto tortura", nessuno può ragionevolmente vedere in Tali Fahima una detenuta per reati d'opinione. Ecco l'articolo: Tali Fahima da qualche mese è un nome noto in Israele e nel campo profughi di Jenin. Tali ha 28 anni, ebrea sefardita, dal 9 Agosto scorso è la prima cittadina ebrea israeliana in detenzione amministrativa; cioé incarcerata, fino a poco fa senza accuse formali e senza condanna, come migliaia di palestinesi in questi anni di occupazione militare. Cresciuta a Kiryat-Gat, una città d'immigrati orientali ai bordi del deserto del Negev, lavorava come segretaria in uno studio legale di Tel-Aviv, ed è stata licenziata per le posizioni politiche recentemente assunte contro l'occupazione militare israeliana. Tali non proviene dall'area pacifista o degli intellettuali israeliani, di norma askenazi, né dalla classe media. Ha votato, anche l'ultima volta, per Sharon, è stata sostenitrice del Likud e, come la sua famiglia, una fervente nazionalista, ma ha cambiato le sue posizioni. Punto di svolta nella sua vita è stato il documentario di Giuliano Mer, I bambini di Arna, su un progetto teatrale per i bambini di Jenin, condotto nella prima Intifadah da Arna, una donna israeliana che ha dedicato la sua vita alla costruzione della pace tra palestinesi e israeliani, che è deceduta qualche anno fa ed era la madre di Giuliano. Nel film si vede la devastazione provocata dalle invasioni dell'esercito israeliano a Jenin e il percorso di sei palestinesi che nella prima Intifadah partecipavano al progetto di Arna, alcuni dei quali uccisi durante questa seconda Intifada.
L'ingiustizia in faccia
Tali vuole vedere davvero che cosa succede. E fa qualcosa di imperdonabile e proibito agli israeliani: va a Jenin, conosce Zakaria Zubeidi, un tempo uno dei «figli» di Arna, oggi capo locale delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa e tra i ricercati. Tra loro nasce un'amicizia, basata sul confronto. Come dichiara lei stessa: «Mi hanno sempre insegnato che gli arabi erano qualcosa che semplicemente non doveva esistere. Sono sempre stata di destra. Fin dall'infanzia mi hanno insegnato a odiare gli arabi, a non fidarmi di loro e a pensare che l'occupazione fosse giusta. Ho cominciato a perdere le mie illusioni prima delle elezioni, ma ho votato Likud perché avevo ancora una paura primordiale degli attentati terroristici e perché sapevo che Sharon era un buon guerriero». Tali comincia a lavorare in progetti educativi nel campo profughi di Jenin; vive con i palestinesi, ospite nelle loro case. Nel marzo 2004 viene arrestata una prima volta, a causa delle sue dichiarazioni alla stampa, in cui si diceva pronta a proteggere con il suo corpo Zakaria, come gesto di protesta nei confronti della prassi delle esecuzioni mirate ed extraterritoriali, costantemente applicata dall'esercito israeliano. Dopo il rilascio é contattata dai servizi segreti israeliani, che vogliono convincerla a collaborare come informatrice e, dopo il suo rifiuto, il 9 agosto viene arrestata ancora. Rimane per mesi in detenzione amministrativa, senza accuse formali né un'effettiva condanna. Il tribunale continua per settimane a rimandare le udienze, per lasciare più tempo di investigare su quelle che i servizi segreti interni in Israele considerano le sue attività illecite. Il 26 dicembre viene infine pronunciata l'accusa: «Collaborazionismo con il nemico in tempo di guerra, trasmissione di informazioni al nemico, contatti con agenti stranieri, detenzione illegale di armi, sostegno di organizzazioni terroristiche e violazione dell'ordine legale». Il processo inizia l'11 gennaio, con un'audizione procedurale in cui il giudice ha lasciato i presenti senza parole domandando all'accusa se intendesse richiedere la pena di morte. Non é mai accaduto, neppure nel sistema legale israeliano, che un giudice facesse una domanda del genere, alla presenza del pubblico, dei media e dell'accusata stessa, di fatto incitando l'opinione pubblica contro di lei. E con questo si arriva al 25 gennaio, quando il giudice Zvi Gurfinkel decide di rilasciare Tali dalla detenzione amministrativa mettendola agli arresti domiciliari nella casa di sua madre a Kiryat Gat, con una cauzione di 15.000 shekel, con la motivazione che le prove contro di lei non sono sufficienti a giustificarne la detenzione; aggiunge pero' che la custodia di Tali é motivata da altro: se infatti non ci sono prove sufficienti per arrestarla, l'aver creato legami evidenti con «agenti esterni», anche al fine di proteggerli (come ha fatto Tali con Zakaria Zubeidi), è contro la legge; così come è considerato reato, seppure minore, l'aver tradotto a Zubeidi i documenti persi da un ufficiale delle Forze di Difesa Israeliane durante un'operazione a Jenin, nei quali si indicavano chiaramente gli obiettivi dell'operazione e le modalità per portarla a termine. Curioso é il fatto che non avendo però Tali «consegnato» il materiale a Zubeidi, ma essendosi limitata a leggerlo ad alta voce, questo non implicherebbe un livello di rischio tale da giustificare la sua detenzione; questo, anche perché molti tra i ricercati da Israele, secondo il giudice Gurfinkel, sono in grado di leggere in ebraico, pertanto la traduzione di Tali non avrebbe fatto alcuna differenza (Tali ha negato il fatto e comunque Zakaria Zubeidi parla ebraico). Se però il giudice da un lato ha deciso di non trattenerla in prigione e di spostarla ai domiciliari, ha in ogni modo ritardato di 24 ore la messa in atto della decisione, per dare tempo all'accusa di protestare ed andare in appello. E così è accaduto, l'accusa si è appellata e Tali, per il momento, resta in prigione. Malgrado le condizioni psicologiche e fisiche di Tali non siano delle migliori, sia per lo stato di detenzione prolungata, sia per le pressioni a cui é stata sottoposta per costringerla a confessare reati che non ha commesso, Tali ha mantenuto un comportamento straordinariamente dignitoso e non ha mai smesso di parlare delle condizioni di vita dei palestinesi.
Accusata di «tradimento»
Le pressioni usate non si discostano dal solito metodo: presunte dichiarazioni di un prigioniero palestinese (rilasciate con ogni probabilità sotto tortura), per le quali durante la sua permanenza a Jenin Tali avrebbe visto del materiale esplosivo nelle mani di combattenti palestinesi. Ma, come dichiara la sua avvocata, se anche così fosse, e Tali ha fermamente smentito, questo non può costituire un motivo sufficiente per essere accusata di collaborazionismo nell'organizzazione di attentati terroristici in Israele. Così come Mordechai Vanunu, anche lui di origine sefardita, tecnico della centrale nucleare di Dimona, nel deserto del Negev, in Israele, arrestato nel 1986 con l'accusa di spionaggio e tradimento allo stato per aver denunciato all'opinione pubblica internazionale l'attività illegale di Israele in materia di armamenti nucleari, anche Tali Fahima é vittima di quella che prende le forme più di una vendetta tribale che dell'applicazione della giustizia e del diritto; Tali e Vanunu sono entrambi attaccati dal governo israeliano, perché mettono in pericolo l'ordine sociale e politico. Le loro comunità (entrambi, come si è detto sono ebrei sefarditi) potrebbero venire influenzate dalle loro esperienze, e cominciare a fare domande scomode. Per questo sono presentati come traditori, dipinti come una minaccia alla sicurezza e integrità nazionale. In questo senso il nuovo arresto di Vanunu lo scorso 12 novembre, così come la detenzione prolungata di Tali nonostante le decisioni del giudice, testimoniano un atteggiamento persecutorio del governo israeliano nei confronti di chi sceglie di non giustificare come esigenza di sicurezza per Israele, le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale dell'esercito israeliano, l'occupazione militare, la distruzione delle case, i rastrellamenti, i bombardamenti di civili. Lo sanno e lo denunciano i militari israeliani che hanno scelto di dire «No» e di condannare pubblicamente i crimini commessi dall'esercito israeliano. Come dice spesso Jonathan Shapira, pilota refusnik: «Ho detto no per amore verso Israele e i miei vicini palestinesi, e vedo ogni giorno di più restringersi nel mio paese gli spazi di democrazia». Tali, il cui caso, quindi, non é ancora risolto, è di fatto vittima delle manovre del sistema, come evidenzia Yehudith Harel, di Gush Shalom e cofondatore della Palestinian Israeli Joint Action for Peace, «per spaventare tutti noi e dimostrare cosa può accadere a chi supera il limite. Beninteso, non il limite di `collaborare con il nemico', ma la linea di sfiducia che quasi quarant'anni di occupazione ed espropri dal 1948 si è sedimentata tra noi e i nostri vicini». In questo senso, la libertà per Tali Fahima, sarà un piccolo passo per la convivenza e la democrazia. Ibrahim, tassista, Amneh, venditrice di frutta, Ahmed, venditore di falafel, Adnan venditore di caffè, Um Khaled e tanti altri palestinesi di Jenin che hanno imparato ad amare Tali, in carcere le hanno fatto pervenire un messaggio di sostegno; la stanno aspettando e le dicono che le vogliono bene e che il suo amore per la giustizia e il suo coraggio corrono in tutta la Palestina. A fronte di questa disinformazione evidente su Israele IL MANIFESTO si premura di mostrare l'immancabile foglia di fico: tre pagine dedicate alla Giornata della Memoria, che includono anche un'intervista all'ignaro Elie Wiesel.
La commemorazione più consona al quotidiano è però quella della vignetta di Vauro in prima pagina.Sotto la scritta "Giorno della memoria" vi si vedono tre cartelli segnaletici, orientati nella stessa direzione. Il più grande indica Auschwitz, gli altri due, più piccoli, Gunatanamo e Abu Ghraib. Un'equivalenza insostenibile e perversa.
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