Impunità per il terrorismo : filosofi, storici e titoli fuorvianti per convincerci che sia la scelta giusta quando l'ideologia e l'odio per gli Stati Uniti e Israele negano il diritto alla sicurezza e alla vita di tutti
Testata:La Repubblica - Il Giorno - Corriere della Sera - Il Manifesto Autore: la redazione - Franco Cardini - un giornalista - Danilo Zolo Titolo: «Islamici, bufera sul giudice - La storia non divide in buoni e cattivi - Vattimo, Al Zarkawi è come un partigiano - Giusta sentenza»
"Islamici, bufera sul giudice" è il titolo della prima pagina di REPUBBLICA di mercoledì 26 gennaio 2005 sull'assoluzione dei reclutatori di attentatori suicidi di Ansar al Islam. Che non sono terroristi, e nemmeno guerriglieri, per il quotidiano diretto da Ezio Mauro, bensì "attivisti", come recita l'occhiello, o semplicemante "islamici". In seconda pagina il titolo è invece: "Islam, Casini contro il gup. Castelli manda gli ispettori" A Milano si sarebbe dunque celebrato un processo contro l'"Islam", che è stato assolto.
IL GIORNO pubblica in prima e seconda pagina un editoriale di Franco Cardini, "La storia non divide in buoni e cattivi", che riportiamo: Rabbia e incredulità": una volta tanto, perfino il nostro Ministro degli Esteri, sempre così cauto e misurato, sembra perdere il self control e si lascia scappare due parole forti. Anzi, provenendo da lui, molto violente. Lasciamo da parte le convulsioni d’un Calderoli, più prevedibili e meno interessanti: concentriamoci su quella rabbia, su quella incredulità. Perché poi la rabbia passa; e, dinanzi alla concreta realtà d’una sentenza – per giunta corretta sul piano giuridico formale -, anche l’incredulità va deposta. Ragioniamo. Il giudice milanese Clementina Forleo ha assolto tre maghrebini, accusati di terrorismo internazionale per aver arruolato guerriglieri da inviare in Iraq. L’assoluzione si è fondata, in sintesi, sulla distinzione tra le attività violente inquadrate però in un contesto bellico e l’atto del seminare terrore indiscriminato tra la popolazione civile nel nome di un credo politico o religioso. Nel secondo caso, siamo nel chiaro àmbito del terrorismo; il primo è invece da considerarsi nel contesto di qualcosa di ben diverso, la guerriglia, ch’è rivolta contro un nemico e che ha scopi che possono ben esser politicamente discutibili, ma che comunque mirano, quanto meno soggettivamente, alla rimozione di uno stato d’inferiorità militare che può essere anche stato determinato da un’ingiustizia. Per esempio una guerra scatenata da una potenza che ha aggredito e invaso un paese: in quel caso norme molto antiche connesse con il "diritto delle genti", ancor prima del costituirsi del diritto internazionale in quanto tale, ammettono il diritto d’un popolo invaso e oppresso all’insurrezione e a quella che – appunto con parola spagnola, derivata dalla reazione degli aggrediti quando nel 1808 Napoleone invase la Spagna – si chiama guerrilla. E un guerrigliero può aver torto o ragione, politicamente parlando: ma noi non lo avvertiamo come terrorista, per quanto i suoi metodi di lotta al terrorismo si accostino fin quasi a confondersi, in più casi, con essi. Per noi il guerrigliero è semmai più vicino al "partigiano", cioè al "soldato politico" che siamo abituati a sovente definir "patriota" e addirittura "liberatore". La sentenza della signora Forleo è uno specchio nero nel quale noi, con la nostra politica e la nostra storia, con le nostre categorie di giustizia e di libertà, siamo per forza costretti a specchiarci. E non è facile, non è piacevole. In realtà, ci scopriamo prigionieri di un nodo di contraddizioni storiche e politiche recenti e meno recenti, che per molto (troppo?) tempo abbiamo cercato di eludere. Un tempo, prima della Rivoluzione francese, c’era la guerra convenzionale: guerre en dentelles, extrema ratio regum, faccende di re e di eserciti dai quali i popoli (che peraltro ne erano comunque l’oggetto e ne pagavano in tutti i sensi le spese) erano esclusi. In quel lungo tempo, da Grotius e da Pufendorf fino al dispotismo illuminato dei rois philosophes ch’erano spesso anche re-soldati (e pensiamo al grande Federico di Prussia), tutto era chiaro: i militari facevano la guerra, i civili erano – almeno in linea di principio – ad essa estranei, non dovevano subirne le conseguenze (almeno in teoria) e non dovevano intervenire. Guai a chi, senza portar un uniforme e servir sotto una bandiera riconosciuta dal concerto delle nazioni, avesse attaccato un militare. Sulla base di questi radicati e – intendiamoci – saggi principii si sono elaborate anche le Convenzioni di Ginevra, più volte ridefinite e riscritte. Ma la Rivoluzione francese, l’elaborazione del concetto di cittadino-soldato riesumato dalla Grecia e da Roma, quindi le guerre ideologiche del XX secolo, erodevano e sconvolgevano questo quadro limpido e sereno. Dai guerrilleros spagnoli o ibero-americani ai rangers "irregolari" della guerra civile negli Stati Uniti, dalle camicie rosse garibaldine ai volontari di entrambe le parti nella guerra civile spagnola fino ai partigiani della seconda guerra mondiale sino al terrorismo rivoluzionario della Russia otto-novecentesca, la distinzione tra chi è militare e chi non lo è si è più volte cancellata. Anche nella seconda guerra mondiale il "terrorismo" si è presentato più volte nelle forme del conflitto: erano formalmente terroristiche molte azioni partigiane, erano terroristiche le rappresaglie, erano terroristici i bombardamenti a tappeto contro obiettivi civili. Eppure, alcune di quelle forme terroristiche sono state assolte, all’indomani del ’45, nel nome della superiore moralità politica degli scopi ch’esse avevano inteso servire. Sarebbe vano cercar di separare lavorando di bilancino e di microscopio l’azione terroristica da quella partigiana sul piano fenomenologico e giuridico: sappiamo tutti che la vera distinzione è etico-politica. Fondata quindi sulla valutazione dei fini, non sul giudizio relativo ai mezzi. Ora, proprio questo è il punto. Le nostre scelte storiche ci stanno adesso venendo incontro, e ci presentano un consuntivo duro da accettare. Abbiamo "trascurato" un po’ troppo rapidamente le conseguenze morali e pratiche della pratica legittimazione della "guerra preventiva" così come ce la proponeva l’amministrazione Bush; abbiamo perdonato un po’ troppo alla leggera le bugie sulle armi di distruzione di massa mai esistite; siamo stati fin troppo indulgenti e distratti dinanzi alle birichinate di quei bravi ragazzoni dalla faccia pulita, anche quando quelle birichinate erano l’occupazione di un paese membro dell’ONU (sia pur governato da una dittatura: non era certo il solo…), i bombardamenti di civili, i rastrellamenti casa per casa, le deportazioni a Guantanamo e le torture di Abu Ghraib. Ora lo spettro del "partigiano", che abbiamo idealizzato ed elevato a modello anche se sapevamo bene che non sempre le sue gesta erano state commendevoli, ci torna incontro sotto i cenci dei guerriglieri irakeni, che – lo sappiamo bene – non sono affatto tutti dei nostalgici di Saddam né dei fanatici islamisti, anche se nelle loro fila molti sono i rappresentanti dell’una e dell’altra categoria. Gli americani hanno vinto la guerra, ma non hanno saputo vincere la pace e tanto meno imporla; vinceranno anche le elezioni che hanno voluto e preparato con cura, e che serviranno a legittimare agli occhi delle istituzioni internazionali le decisioni dei due governi che essi hanno imposto e guidato attraverso personaggi come il proconsole Negroponte e nel senso degli interessi di colossi come la Halliburton. Ma la verità è che in Iraq è in atto una guerra a vari livelli: scontro civile per un verso, campo d’azione per la perversa violenza del terrorismo fondamentalista per un altro, guerra di liberazione da un occupante che, sostenendo di "esportar la democrazia", impone il suo ordine e i suoi interessi per un altro ancora. E che, se il reclutar in territorio italiano volontari civili per portare a qualunque titolo armi in Iraq è un reato, ciò deve allora valere anche per chi recluta vari tipi di vigilantes e di altri nostri compatrioti presenti in quel paese con funzioni poco chaire, che di solito vengono abbuiate. E si apre un capitolo tanto delicato quanto doloroso e imbarazzante. Vogliamo farlo? Rassegnamoci a convivere con queste contraddizioni, con questi corti circuiti continui tra morale e politica, tra diritto e storia. Magari potessimo piangere in pace il nostro povero Simone Cola e i suoi commilitoni caduti facendo il loro dovere di soldati italiani. Ma non possiamo permettercelo. Altro che fine della storia, come delirava anni fa mister Fukuyama. La storia si è riaperta, si è spalancata. Con tutte le sue voragini. E le sue ferite. Sono molte le affermazioni che possono indignare e suscitare "rabbia e incredulità" in questo articolo: l'equiparazione tra reclutatori di terroristi suicidi e reclutatori di uomini della sicurezza, e quindi tra questi e i terroristi suicidi, quella tra Resistenza contro il nazifascismo, "formalmente terrorista" e terrorismo islamista in Iraq, la citazione dei "bomabardamenti a tappeto contro obiettivi civili" nella seconda guerra mondiale (effettuati anche dalla Germania, ma con molta maggiore efficienza e capacità distruttiva degli alleati) come pratica terroristica senza contestualizzarli ricordando che avvenivano nel corso si una guerra contro il nazismo, che stava uccidendo milioni di persone nei lager. Ma la rabbia passa e l'incredulità va deposta, ed è invece importante capire l'ideologia sottesa alle tesi di Cardini. I riferimenti storici che utilizza per spiegare la situazione in Iraq non sono scelti a caso. E' nel 1789, ci informa, che finisce la "guerra convenzionale", "faccenda di re e di principi". Dopo di che la guerra diventa conflitto ideologico, partigiano, che sempre più coinvolge le popolazioni civili. (Prima c'erano state, a quanto ci risulta, le guerre di religione, ma Cardini finge di dimennticarsele) In questo nuovo contesto non sono i mezzi impiegati a decidere il nostro giudizio sui combattenti, ma il loro fine. La nostra approvazione o disapprovazione etico-politica per la loro causa. Per questo assolviamo il "terrorismo" dei partigiani anti-nazisti e dei bombardamenti alleati e processiamo i nazisti a Norimberga. Ma si producono allora conseguenze indesiderate: "Ora lo spettro del "partigiano", che abbiamo idealizzato ed elevato a modello anche se sapevamo bene che non sempre le sue gesta erano state commendevoli, ci viene incontro con i cenci dei guerriglieri irakeni". E' la nostra storia, ci dice Cardini a impedirci di condannarlo senza condannare anche noi stessi. Da dove vengono le categorie e le interpretazioni storiche di questo ragionamento? Da un giurista tedesco compromesso con il nazismo Carl Schmitt, che le utilizzò a suo tempo per sostenere l'illegittimità del processo di Norimberga. Una parte in causa in un conflitto non può processarne un' altra nemmeno se si tratta del nazismo. Non si può condannare Auschwitz in un tribunale senza condannare anche il bombardamento di Dresda. Così, allo stesso modo non si possono condannare i "guerriglieri" di Ansar al Islam, senza condannare anche le guerra al regime totalitario di Saddam Hussein. Il farlo risponde a un imbarbarimento del diritto di guerra, dovuto alla Rivoluzione francese, e alla sua criminalizzazione del nemico. Non c'è allora da indignarsi se per difendere i neonazisti islamici di al Zarzawi uno storico di estrema destra ricicla gli argomenti di un giurista nazista per difendere i nazisti del Reich. C'è solo da sapere con chi, e con cosa, si ha a che fare.
Anche per Gianni Vattimo vale il paragone tra lo sgozzatore al Zarqawi, campione dell'odio religioso verso gli sciiti e teorico della blasfemia della democrazia, e i partigiani della Resistenza. Riportiamo l'articolo del CORRIERE DELLA SERA sulle dichiarazioni del filosofo: ROMA — Non bastavano le polemiche sulla sentenza milanese di assoluzione, a sorpresa, del gruppo di islamici accusato di reclutare kamikaze per l'Iraq. Ieri sera una dichiarazione del filosofo Gianni Vattimo ha sicuramente gettato olio sul fuoco di queste polemiche. « Al Zarqawi è da paragonare ai partigiani della Resistenza: anche loro venivano chiamati banditi dai nazisti » : è stata infatti l'opinione espressa dal sessantottenne professore torinese ( famoso per la sua teoria del « pensiero debole » ) intervenendo ieri sera alla trasmissione « Controcorrente » , condotta da Corrado Formigli, e in onda su Sky Tg24 dedicata all'Iraq. Alla domanda se chi ha sparato contro il maresciallo Simone Cola sia da considerare un terrorista o un guerrigliero, Vattimo ha risposto: « Secondo me è un guerrigliero, non un terrorista. Lì a Nassiriya era in corso una battaglia, si sparava da entrambe le parti. Semmai — ha proseguito Gianni Vattimo — la responsabilità di quello che è successo è del ministro della Difesa, Antonio Martino, che non ha attrezzato i nostri soldati in modo adeguato, e ha mentito al presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, camuffando una missione di guerra per una missione di pace » . Opposta, invece, la posizione espressa nella stessa trasmissione dall'ex ministro degli Esteri e segretario del Nuovo Psi, Gianni De Michelis, che alla domanda ha risposto: « Un terrorista è comunque colpevole di omicidio » . Lo spietato e inafferrabile giordano Abu Musab Al Zarqawi è considerato il capo della rivolta irachena e appena due giorni fa ha rinnovato le minacce di morte contro chi andrà a votare, proprio mentre il governo iracheno annunciava la cattura del suo braccio destro Hassan Hamad Abdallah Mohsen al Dulemi. E'un filosofo anche Danilo Zolo, che sul MANIFESTO, in prima pagina, ci spiega perchè quella di Clementina Forleo è una "Giusta sentenza". Lo zelante Zolo va più in là di tutti gli altri apologeti dell'impunità del terrorismo. Sostiene infatti che l'attuale nozione di terrorismo che lo identifica come un "uso della violenza" che "colpisce i civili in modo indiscriminato e ha come obiettivo la diffusione del panico fra la popolazione", deve essere rivista perché "non tiene conto della condizione in cui si trovano popoli oppressi dalla violenza di forze occupanti, come nei casi palestinese e iracheno". Non solo, per Zolo: "Condannare penalmente come terrorista un militante di Hamas o un membro della guerriglia irachena - e accogliere Ariel Sharon o Iyad Allawi come rispettabili capi di Stato - significa davvero «mettere sullo stesso piano vittime e carnefici», come ha sostenuto in senso opposto il nostro ministro degli esteri". Ecco, finalmente il discorso si fa esplicito: Hamas e i tagliagole di Al Zarqawi sono "vittime", Sharon e il governo democratico iracheno "carnefici". Le stragi di Hamas in Israele e quelle di Al Qaeda nelle moschee sciite non sono da condannare "penalmente", ma soltanto "politicamente". Formulato e messo nero su bianco questo agghiacciante proclama Zolo si prende anche la libertà di uno sberleffo finale. Attenti, avverte, continuare a parlare di "guerra giusta" ci espone al rischio che altri possano arrivare a parlare di "terrorismo giusto". A noi sembrava che qualcuno avesse già incominciato a farlo: avevamo l'impressione che il procalama di Bin Laden dopo l'11 settembre, l'atto di aggressione che ha provocato la guerra al terrorismo, e la propaganda dello sceicco Yassin per convincere i palestinesi della possibilità di distruggere Israele con gli attentati suicidi fossero, appunto, rivendicazioni del "terrorismo giusto ". Quello che speravamo non accadesse era che quest'idea infausta riapparisse nel dibattito pubblico italiano. Ma è una speranza andata delusa: di "terrorismo giusto", ha appena scritto, sul MANIFESTO, Danilo Zolo, che osa anche far finta di niente.
Ecco l'articolo: La sentenza del giudice Clementina Forleo, che ha scarcerato i tre militanti islamici accusati di terrorismo, è il segno che lo stato di diritto «resiste» ancora in Italia. La rovente polemica scatenata contro di lei dal governo e dalle massime autorità dello stato è la prova che l'indipendenza della magistratura italiana non è stata ancora cancellata. «Resiste» anche alla ideologia bellicista di un governo servile che sacrifica le vite dei militari italiani perché questo giova ai profitti delle «nostre imprese». Lo ha dichiarato con volgare impudenza il presidente del consiglio per giustificare la morte di Simone Cola. La polemica che si è abbattuta su Clementina Forleo non è che una conferma della sua lucidità, oltre che del suo coraggio civile e morale. Su un punto, in particolare, la sentenza merita un commento positivo. Gli imputati sono stati assolti non solo per una serie di ragioni fattuali, ma anche per una precisa scelta interpretativa delle norme internazionali. Nella sentenza si sostiene anzitutto che è necessario tenere distinta la guerriglia armata dal terrorismo. E in secondo luogo si sostiene che, nel giudicare penalmente un atto di reazione violenta contro una forza occupante, quell'atto deve essere valutato nel contesto dell'uso generale di «strumenti ad altissima potenzalità offensiva». Sul primo punto occorre anzitutto dire che la stessa nozione di terrorismo è oggi concettualmente indeterminata. Nonostante che siano almeno dodici le convenzioni che hanno tentano di dettare norme sull'argomento, manca ancora oggi una definizione condivisa. Non è un caso che commissari incaricati da Kofi Annan di stendere un progetto di riforma delle Nazioni unite, abbiano sostenuto l'urgenza di una definizione rigorosa che regoli legalmente la lotta contro il global terrorism. Tutto ciò che oggi emerge dalla congerie dei documenti internazionali è che si è di fronte a un atto terroristico quando l'uso della violenza colpisce i civili in modo indiscriminato e ha come obiettivo la diffusione del panico fra la popolazione. E' chiaro che questa nozione non tiene conto della condizione in cui si trovano popoli oppressi dalla violenza di forze occupanti, come nei casi palestinese e iracheno. Condannare penalmente come terrorista un militante di Hamas o un membro della guerriglia irachena - e accogliere Ariel Sharon o Iyad Allawi come rispettabili capi di Stato - significa davvero «mettere sullo stesso piano vittime e carnefici», come ha sostenuto in senso opposto il nostro ministro degli esteri. Dissociarsi politicamente dalla logica nichilista del terrorista suicida non può certo comportare la negazione del diritto di un popolo alla autodeterminazione e alla rivendicazione dei suoi diritti collettivi.
Sul secondo punto i paradossi del diritto internazionale sono ancora più gravi. Alla luce delle norme esistenti «terrorista» è soltanto il membro di una organizzazione «privata», che non si identifichi con l'apparato militare di uno stato. Ne consegue che le stragi di civili innocenti compiute nel corso di aggressioni militari, come lo è stata la guerra degli Stati uniti contro l'Iraq, o nel corso di occupazioni di un territorio, come è ancora il caso dell'Iraq (e della Palestina), non sono affatto «terroristiche». Sono comportamenti militari del tutto legittimi, poiché lo scempio di vite umane non è che un «effetto collaterale» di una guerra che si autolegittima grazie al soverchiante potere politico e militare di chi la conduce. Le Nazioni unite sono sempre pronte a concedere, ex post, la loro legittimazione formale. Al più si potrà parlare di «crimini contro l'umanità» che nessuna assise penale sarà in grado di accertare e di sanzionare.
Insomma l'allusione agli «strumenti ad altissima potenzalità offensiva», presente nella sentenza del giudice Forleo, solleva un problema delicatissimo. Dal punto di vista delle sue conseguenze la guerra moderna, condotta con strumenti di distruzione di massa, si distingue sempre meno dal terrorismo internazionale: stiamo attenti, perché se in Occidente qualcuno parla ancora di «guerra giusta», c'è il rischio che altri possano arrivare a parlare di «terrorismo giusto». Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla direzione de La Repubblica, Il Giorno, Corriere della Sera e Il Manifesto. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.