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La Stampa Rassegna Stampa
26.01.2005 Il divieto di chiamare i terroristi con il loro nome
il commento di Fiamma Nirenstein all'assoluzione dei reclutatori di Ansar Al Islam

Testata: La Stampa
Data: 26 gennaio 2005
Pagina: 1
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «La parola che non diciamo mai»
LA STAMPA di mercoledì 26 gennaio 2005 pubblica in prima pagina un editoriale di Fiamma Nirenstein sulla sentenza di assoluzione di reclutatori di terroristi suicidi.
Ecco il testo:

La scelta di dichiarare i cinque reclutatori di terroristi suicidi per il fronte iracheno «guerriglieri» e non «terroristi», mentre suscita la nostra costernazione non ci appare tanto frutto di serie riflessioni giuridiche, ma invece sicuramente è frutto dell’aria del tempo almeno nell’ambito delle classi intellettuali europee, e quindi merita molta attenzione. Prima di tutto, un’attenzione semantica. La parola con la «t» è diventata una parolaccia impronunciabile che ormai, anche in patenti casi di terrorismo, anche quando gli autobus esplodono, anche quando sono le membra dei bambini, dei vecchi e delle donne a volare per aria, viene sostituita sui giornali, alla tv e nell’eloquio corrente da una fantasiosa quantità di termini: militanti, guerriglieri, combattenti, insorti, detentori di ostaggi (la mia espressione preferita). Il dominio di questa abitudine è così largo che è possibile, lavorando sul campo, e cercando giudizi e testimonianze di fronte ad attentati terroristici, trovarsi anche in imbarazzo, e sentirsi rispondere: «Terrorismo? Il terrorismo di chi? Chi è il vero terrorista?».
La mancanza di chiarezza morale sul terrorismo ha radici nella psicologia e nella politica. Le radici psicologiche sono evidenti. Un militante o un insorto hanno un obiettivo specifico, un potere statuale nemico, una potenza occupante, un esercito nemico, insomma un obiettivo di guerra che non si allarga all’intero orizzonte dell’Occidente, come invece dimostrerebbero, senza remissioni, gli obiettivi da Madrid a Jerba alla Turchia a Israele alle Filippine a tutta l’Africa, ben oltre gli Usa, e sono sempre attentati ad opera dello stesso genere di terroristi con l’ideologia, i mezzi, le modalità di reclutamento operato dagli assolti. Questo ci protegge, ci conforta, ci consente di salire sullo scranno del giudice imparziale, insomma, ci salva dal terrorismo. Noi non salteremo per aria, ai militanti non interessiamo. Magari, però, ai terroristi, sì.
Il secondo punto, quello politico, è altrettanto evidente: chi ritiene che gli Usa non siano andati a liberare un Paese da una delle più sanguinose dittature della storia ma invece a affermare un sogno d’onnipotenza, una congiura di dominazione riducono il fenomeno terrorista a un fatto privato. Persino gli hezbollah e Hamas a lungo sono stati protetti dalla definizione di organizzazioni terroriste, benché soprattutto i primi siano dotati di strutture che fanno invidia ad Al Qaeda; l’Onu fa una fatica terribile a pronunciare quel termine e sempre fra mille distinguo, proteste, mozioni, infuocati discorsi contro. Ma poiché nomina sunt substantia rerum, combattere il terrorismo risente nella sostanza della mancanza di una definizione valida per tutti. In era di guerra, non è indispensabile, infine, identificare il nemico?
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