Intervista a un razzista, che accusa Israele di apartheid ssenza contraddittorio sul quotidiano torinese
Testata: La Stampa Data: 24 gennaio 2005 Pagina: 6 Autore: Antonella Rampino Titolo: «Jumblatt: i palestinesei in regime di aparthaid»
LA STAMPA di lunedì 24 gennaio 2004 pubblica un'intervista di Antonella Rampino a Walid Jumblatt, leader druso libanese. Il titolo : "Jumblatt: i palestinesei in regime di apartheid" rispecchia il contenuto diffamatorio delle affermazioni di Jumblatt, mai contestate dalla Rampino. Che in Israele i palestinesi godano di diritto civili di cui nessun arabo ha mai goduto in nessun paese arabo (almeno fino alla liberazione dell'Iraq), che nei territori si siano svolte elezioni politiche, che vi siano 7 università palestinesi, e che avrebbero da tempo l'indipendenza piena se Arafat non avesse scelto di scatenare la violenza evidentemante non sono fatti degni di essere ricordati. Nè lo è il ruolo di questo signore della guerra nella tragedia libanese, i massacri di cristiani di cui si sono macchiate le sue milizie insieme all'Olp. Né è il caso di ricordare, per capire quale sia la credibilità di Jumblatt quando denuncia il "razzismo" israeliano una sua conversazione con il dittatore siriano Assad (padre) riferita da Bernard Lewis nel suo saggio "Semiti e antisemiti": i due concordano nel dire che gli arabi non possano essere "del tutto contrari" al nazismo, perchè questo avrebbe potuto risolvere il problema rappresentato dagli ebrei. Una vera autorità morale, dunque, questo Jumblatt, le cui lezioni all'Occidente sul "razzismo" di Israele meritano senz'altro di essere propagandate da un grande quotidiano. Ecco l'articolo: Sharon ha sempre detto che l’ostacolo sulla via della pace era Arafat. Adesso Arafat è morto. Adesso si vedrà. Vedremo se Bush ha veramente intenzione di concretizzare le sue promesse di dare uno Stato ai palestinesi». Walid Jumblatt ha sempre guardato alla questione palestinese con gli occhi di un irredentista. E però il principe del popolo druso, che ha tradizioni non di inimicizia col popolo israeliano, con alterne ma sovente ottime relazioni personali a Washington, al padre dell’Olp non risparmiava frecciate e battute. Di volta in volta ai suoi occhi Arafat si «copriva di ridicolo», era un «piccolo gendarme», e via di fila. Ma la questione palestinese restava per lui un’altra cosa: realisticamente, la radice di tutti i mali mediorientali. «Lei dice che Bush ha assunto l’impegno, e che dopo la morte di Arafat lo ha ribadito con forza. Bene. Allora io le dico: e il muro? Lo ha visto lei quel muro di cemento armato? Somiglia più al confine di uno Stato sovrano o alla barriera di un regime di apartheid? E le colonie, che Sharon dice di voler smantellare, vengono invece allargate...Insomma, come crede che possa nascere uno stato palestinese, senza territorio? Tutto quello che gli israeliani stanno facendo è disimpegnarsi da Gaza, e rafforzare le colonie nei Territori». Ma se anche lei dice aspettiamo e vedremo, forse nel nuovo governo Sharon, che in Europa potrebbe definirsi di unità nazionale, riuscirà a far sentire la propria voce il laburista Peres... «Shimon Peres? ma se è un’opportunista!». Il famoso sguardo tra il disincantato e il visionario, e quelle mani mobili e nodose che Walid ha preso dal padre Kamal, di cui una volta Igor Man scrisse che aveva sempre l’aria «di chi stesse passando le dita sull’arpa della Storia», si abbandonano sui braccioli della poltrona: «Certo che sono pessimista, e sa perché? Perché ci vorrà non meno di un quarto di secolo perché la matassa israelo-palestinese si snodi. Venticinque anni: il tempo che servirà all’Occidente per riuscire ad ammettere con se stesso che quello che si sta instaurando oggi per i palestinesi è un regime di apartheid. E guardi che il problema è questo da sempre, dal 1947: per questo non han funzionato né gli accordi di Oslo, né quelli di Camp David. Perché non si riconosce ai palestinesi il diritto alla terra, e al loro futuro. Si chiede adesso ad Abu Mazen quello che si era chiesto anche ad Arafat, di usare la polizia e le forze militari contro Hamas e Al Aqsa. Non ha potuto. Non c’è riuscito, perché bisogna consentire il benessere ai palestinesi, se si vuole stroncare le fazioni armate. Abu Mazen è di fronte allo stesso problema». Lo sguardo, da disincantato si fa acuto, come di chi guardi oltre l’orizzonte: «Non venticinque anni, forse ci vorrà mezzo secolo perché l’Occidente possa riconoscere l’apartheid in Palestina. E questo è gravissimo, per l’Occidente. Quella palestinese è l’unica società araba, musulmana, profondamente laica. E democratica, come le recenti elezioni presidenziali hanno dimostrato». Ci saranno anche molto presto le elezioni in Iraq... «Ah sì, l’Iraq. Anarchia con elezioni, ecco cos’è la democrazia importata con la guerra a Bagdad». Nella complessa scacchiera mediorientale, la cui politica è seconda per astruseria solo a quella italiana, il figlio del mitico Kamal che morì in una trappola dei siriani ha spesso giocato un ruolo di primo piano. Relazioni con Mosca e Washington, visite a Pechino, una stretta amicizia con Craxi ed Andreotti, ma anche con il pci di Berlinguer prima, e di Natta poi. Erano i tempi, quelli, in cui praticamente ogni anno al principe dei drusi riusciva di scampare ad un attentato dei siriani. Finita la guerra, il Libano sta riprovando ad essere un’isola democratica dove possono anche fiorire i migliori affari del mondo. Ma tra affari (benzina, e un magnifico blanc de blanc coltivato nella valle della Bekaa, e «che per fortuna piace tanto ai francesi») e molta politica, essendo Walid Jumblatt signore feudale di trecentocinquantamila anime, l’aura di eroe romantico che avvolgeva uno degli ex signori della guerra in Medio Oriente s’è vistosamente appannata. Ma Walid resta il leader del Partito progressista socialista. Ed è a Roma per vedere il cardinal Sodano, segretario di Stato vaticano, e il ministro degli Esteri monsignor Lajolo. Una strategia di contrattacco, spiega, a dieci anni esatti dal suo incontro con Wojtyla, perché Beshir Assad «è già stato qui a Roma, in Vaticano». L’incontro con Jumblatt è stato tenuto segreto. Ma fonti della Segreteria di Stato assicurano che è stato «lungo, molto cordiale e molto poco protocollare», com’è presumibile, trattandosi di Jumblatt. Il Vaticano, «segue con grande attenzione l’evoluzione della situazione politica in Medio Oriente, e in Libano in particolare». Sul perché, non c’è bisogno di disturbare fonti autorevoli: è bene per la stabilità della regione che il Libano resti e si rafforzi in quanto isola di democrazia. Ma i prodromi delle elezioni di maggio non sono tanto favorevoli: i ventinove deputati socialisti progressisti sono finiti all’opposizione, ritirati anche i tre ministri al governo, in segno di protesta contro un emendamento alla Costituzione che prolunga d’ufficio di tre anni il mandato al presidente Lahoud. Questo ritenuto uno stretto alleato del governo siriano, e dunque automaticamente nemico del capo dei drusi. «Siamo contro il potere che la Siria continua ad esercitare sul Libano. Vogliamo il ritiro totale delle loro truppe dal nostro territorio», questo il principe druso ha detto in Vaticano. Questo ripeterà nei suoi incontri nel mondo. Non in Italia, per ora. «L’ultima volta che sono stato in questo albergo» dice distogliendo lo sguardo liquido ed indolente dai gabbiani che svolazzano sul panorama di Roma, «in quella poltrona davanti a me era seduto Bettino Craxi. Grande politica internazionale, all’epoca, quella italiana. Adesso chi avete? Berlusconi?». 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