E' nato un nuovo genere cinematografico: il documentario anti-israeliano costa poco e rende molto, provate invece ad essere un intellettuale musulmano che vuole il dialogo con Israele: costa molto, rende poco e i giornali vi ignoreranno
Testata: La Repubblica Data: 20 gennaio 2005 Pagina: 55 Autore: Maria Pia Fusco Titolo: «Israele storie dal muro»
LA REPUBBLICA di giovedì 20 gennaio 2005 pubblica a pagina 55 un'intervista di Maria Pia Fusco alla regista israeliana Simone Bitton, autrice del film "Il Muro". Le parole della Bitton richiamano quelle sentite molte volte contro la barriera difensiva, e non rispondono alla semplice, e definitiva, obiezione dei suoi sostenitori: la barriera serve, di fatto, a salvare vite umane (il muro di Berlino, da lei ritenuto molto meno osceno del "muro" israeliano serviva invece a togliere la libertà a un popolo e non fu mai condannato da tribunali internazionali o dall'Assemblea Generale dell'Onu). Maria Pia Fusco, dopo un'introduzione che fa sfoggio di retorica per descrivere la bruttura della barriera ("Grigi, giganteschi, mostruosi, i lastroni di cemento si incastrano uno accanto all´altro e lentamente riempiono lo schermo cancellando il cielo, la luce, la bellezza assolata del paesaggio mediterraneo. Sono le prime immagini di Il muro...") conduce un'intervista cui non si possono muovere critiche, dato che è la sua interlocutrice a rispondere a domande neutrali con un fuoco di fila di accuse a Israele. Fino all'ultima domanda, davvero sorprendente: "Lei non paga per le sue posizioni pacifiste?" No signora Fusco, in Israele, che è una democrazia, per le posizioni "pacifiste", ma meglio sarebbe dire anti-israeliane di Simone Biton non si "paga". Difatti la stessa regista risponde, con un curioso giro di frase, "La censura ad Israele per me è solo economica", vale a dire che nessuno la censura, ma ha dei problemi, come tutti i registi di questo mondo, a trovare i finanziamenti per i suoi film. Lamenta poi che i cineasti palestinesi non abbiano la sua stessa "libertà di movimento e di contatti". Il che non ha impedito la produzione di un buon numero di opere propagandistiche, come "Jenin...Jenin " il falso documentario di Mohammad Bakri. Chissà cosa accadrebbe invece se un regista palestinese volesse girare un film contro il terrorismo.... Una domanda che ne suscita subito altre, che ci pare possano essere girate ai redattori di Repubblica. Per esempio, perché nessuno intervista Pierre Rehov, che in documentari fondamentali ha smontato le menzogne della propaganda palestinese? Perchè nessuna casa di distribuzione italiana si preoccupa di far arrivare al grande pubblico i suoi film, mentre le Simone Bitton, i Saverio Costanzo, i Khleifi e i Sivan trovano distributori e attenzione nei media? "Censura economica"? Infine, tra tanti eroici intellettuali israeliani che sfidano la "censura economica" per dire al loro pubblico europeo quello che vuol sentirsi dire su Israele (vale a dire tutto il male possibile), perché qualche volta non compaiono sui giornali italiani gli intellettuali arabi e musulmani che sfidano l'odio jihadista per promuovere la causa della pace con Israele? Perchè non dare la parola, una volta tanto, a Walid Shoebatt, a Nonie Darwish? Perchè non dare spazio alla vicenda di Salah Uddin Shoaib Choudury, in carcere in Bangladesh per aver sostenuto la necessità che l'Islam accetti l'esistenza di Israele ? Forse perché la censura esercitata con l'imprigionamnto e i processi farsa , come fonte di indignazione, è venuta a noia, e interessa solo quella "economica"?(per saperne di più su Walid Shoebatt, Nonie Darwish e Salah Uddin Shoaib Choudury si veda il sito www.arabsforisrael.com, presente tra i link di Informazione Corretta). Ecco l'articolo: ROMA - Grigi, giganteschi, mostruosi, i lastroni , il film di Simone Bitton (nelle sale dal 28 gennaio) che documenta parte del percorso dell´immane costruzione cominciata in Israele nel 2002 per separare fisicamente gli israeliani dai palestinesi. «Sono immagini per la memoria, un modo di dire addio a città, paesi, uliveti che stanno scomparendo dalla vista», dice la regista, che si definisce con orgoglio «un´araba ebrea. Sono nata in Marocco da famiglia ebrea, vivo tra Gerusalemme e Parigi, non mi sento straniera rispetto agli arabi». Pacifista convinta - «Dalla guerra del ?73, ero militare, ho visto troppa morte, troppa distruzione» - Simone Bitton non esita ad esprimere quello che pensa del Muro, e non solo con le immagini del film, i chilometri di filo spinato, sensori elettrici per scoraggiare avvicinamenti, racconti di amicizie spezzate, di campi - e sopravvivenza - perduti. «Il muro di Israele è molto più osceno di quello di Berlino, perché da entrambi le parti c´è lo stesso esercito a sorvegliarlo e perché tutto il mondo lo accetta senza denunciarne la follia e la vergogna», dice la regista. Nel film lei passa talvolta dal colore al bianco e nero: c´è una ragione? «Non mi sembrava il caso di mostrare Israele come una cartolina, dove arriva il Muro svaniscono i colori, accanto al Muro non c´è più bellezza. E non parlo solo dell´elemento fisico. Sono i muri dentro i più dolorosi. Il muro dovrebbe servire a chiudere i palestinesi dentro una prigione, in realtà chiude ancora una volta gli ebrei in un ghetto. E il simbolo di una malattia del popolo israeliano, troppe volte segregato, che stavolta si rinchiude da solo». Lei mostra anche l´instancabile ricerca di un varco. «Le difficoltà per i palestinesi sono sempre più forti, sempre più chilometri da percorrere per trovare un passaggio, che però è essenziale per raggiungere un lavoro, una scuola, un ospedale. Oggi in Palestina c´è un incessante spreco di energie spese nell´andare e venire. E non so cosa succederà se un giorno i 640 chilometri del Muro saranno completati. Il mio sogno è che quel giorno non arrivi mai, che Israele rimanga un unico paese abitato dagli arabi e dagli ebrei, che, come per molti degli intervistati, si somigliano anche fisicamente». Non la pensa così l´unico politico che lei intervista nel film. «L´intervista è al generale Amos Yaron del Ministero della Difesa, molto vicino a Sharon, erano insieme nel massacro di Sabra e Chatila. Non è stata montata, ci sono tutti i venti minuti in cui spiega le ragioni del muro e della sicurezza, anche contro il furto di automobili. Chi non conosce la realtà di Israele trova assurde, addirittura grottesche, alcune sue frasi, lui ha rivisto il film ed è soddisfatto. Rappresenta una parte della mentalità del mio paese, dove il razzismo oggi è molto forte, somiglia molto all´apartheid e al colonialismo». Pensa che con Abu Mazen la pace sia più possibile? «Non è una domanda per me e neanche per Abu Mazen, ma per Sharon. Il popolo occupato può solo piangere, lottare per sopravvivere sotto il peso dell´occupazione, la pace dipende soprattutto dalla volontà degli occupanti. Comunque ho seguito con interesse le elezioni in Palestina, è stata una grande prova di democrazia, ci sono persone che hanno fatto decine di chilometri a piedi per andare a votare». Lei non paga per le sue posizioni pacifiste? «La censura ad Israele per me è solo economica. Ho molte difficoltà, è vero, ma sono niente in confronto ai problemi dei palestinesi, del popolo e dei cineasti, che non hanno la mia stessa libertà di movimento e di contatti. E pensare che il cinema dovrebbe essere un universo a parte, una tribù senza distinzioni di razza. Ma io conservo la speranza. E poiché solo i disperati restano in silenzio, il mio film è un segno di speranza, un atto di resistenza». Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla direzione de La Repubblica. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.