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Panorama Rassegna Stampa
17.01.2005 Marwan Barghouti, Robin Hood palestinese. Dimenticando il terrorismo
un'intervista e un ritratto scorretti

Testata: Panorama
Data: 17 gennaio 2005
Pagina: 87
Autore: Stella Pende
Titolo: «Barghouti, Caro Abu Mazen ascoltami - I ragazzi del clan»
A pagina 87 PANORAMA del 20 gennaio 2005 pubblica una commossa e partecipe intervista a Marwan Barghouti di Stella Pende, "Barghouti, Caro Abu Mazen ascoltami".
Barghouti viene rappresentato con tratti quasi romantici. Lui stesso non nega il proprio passato e anzi considera la propria condizione di terrorista come un pregio e non come un difetto. Basta riportare uno scambio fra la giornalista e l'intervistato per rendersi conto del clima:
"Lei dice di credere nell'idea e nella vita di due stati diversi: quello palestinese e quello israeliano. Ma gli israeliani credono che Barghouti sia un terrorista. Come pensa di convincerli a far la pace con lei?"
Barghouti risponde: "Si, terrorista. Ma chi ha mediato l'ultima hudna, cioè la tregua tra Hamas e Jihad con Israele? Qual'è il leaer che ha difeso la pace nelle città, nei campi profughi e nei villaggi? Certo, io sono un combattente. Non per la pace degli israeliani però: per quella dei palestinesi."

Queste non sembrano parole di un messaggero di pace e nemmeno le parole di qualcuno che sembra particolarmente intenzionato a riconoscere i diritti di una controparte. Ma ciò che qui ci interessa sono le parole della giornalista. Non è esatto dire infatti che Barghouti è un terrorista solo per gli israeliani. E' oggettivamente un terrorista: lo dice lui stesso, lo dimostra il suo curriculum, lo confermano solo da ultimo le condanne per le quali si trova oggi in carcere. Barghouti è un terrorista, un duro, uno che sa parlare sia con i vecchi (con i quali condivide le idee della Palestina unica) sia con i giovani, che sa parlare anche con gli estremisti (di cui ha fatto parte), che sa parlare con gli israeliani. Nessuno vuole negare che possa rappresentare una pedina utile nel futuro. Nessuno vuole negargli la possibilità di fornire un contributo positivo per raggiungere la pace. Ma non per questo può essere lecito lavare la sua fedina penale costruendone un'immagine di perseguitato.

Ecco il testo dell'intervista:

La Palestina va ad Abu Mazen. Le voci volano da Ramallah alla terra di
Gaza. Di certo nel cuore e nei desideri dei palestinesi, che abbiano votato
o no, c'è un uomo solo, prigioniero, amato, padrino dell'intifada, ma anche
padrino di tregue. Passionale e ghiacciato, forte e romantico: Marwan Barghouti.
Il «Mandela di Ramallah», come lo chiamano qui, è sempre stato zitto. Oggi
dalla sua cella, un buco minuscolo, Marwan Barghouti rompe il suo silenzio.
E dalle sue allusioni e dalle parole si capisce chi è il vero successore
di Yasser Arafat.

Abu Mazen ha vinto. Come vede Marwan Barghouti il passaggio della leadership
palestinese a «Mahmoud Abbas»?
Come il passaggio del testimone da un atleta, campione imbattibile, al suo
sostituto. Un passaggio dovuto alla legge dei palestinesi: Abu Mazen era
il primo successore in ordine. Dopo la morte di Arafat la sua elezione era
anche il modo più democratico e più civile per dare il segno e il senso
della continuità. É la dimostrazione che il popolo della Palestina è capace
di rispettare la sua costituzione esattamente come accadrebbe nella vostra
democratica Europa.

Ma Abu Mazen potrà fare, come promette, i miracoli che Arafat non ha potuto
compiere?
Israele mente. Soprattutto quando dice che Arafat è stato il muro davanti
alla pace. II vero ostacolo oggi è l'occupazione israeliana. Sono i carri
armati, i nostri bambini morti, le case fatte scoppiare con i missili. L'ostacolo
è la nostra disperazione. È la nostra solitudine e la realtà che non abbiamo
un vero partner per dividere il nostro desiderio di pace.

Oggi con Abu Mazen si parla di una nuova via alla tregua.
Ecco, si parla. Noi valuteremo e vedremo. Se ci sarà a breve un serio progetto
in questo senso, capiremo. Allora aiuterò Abu Mazen.

Abu Mazen però ha detto basta alla lotta armata. Barghouti cosa dice?
Barghouti ha già detto nella prima settimana dell'intifada che la lotta è cominciata
per desiderio e per volere del popolo. E solo per volere del popolo si fermerà.
Si possono dire molte cose, ma l'intifada non finirà finché non avrà raggiunto
il suo scopo. In sette anni Israele ha costruito 23 mila case sulla nostra
terra. Ricordo al mondo che siamo stati costretti a usare le armi per difendere
libertà e dignità. A nessuno di noi piace versare sangue di innocenti, israeliani
o palestinesi che siano. Che cosa avreste fatto voi, che cosa avrebbero
fatto i popoli di qualunque parte del mondo per soccorrere la propria gente
ammazzata, torturata, umiliata, assetata? Ricordatelo: abbiamo pagato un
prezzo molto alto, doloroso. Ma era l'unico che poteva convincere oggi Sharon
a ritirarsi dalla striscia di Gaza.

La sua candidatura è stata un'odissea. Prima sì, poi no, poi ancora forse.
Ha cambiato idea cento volte. Perché?
Ho deciso una volta di candidarmi alle elezioni e una volta sola ho deciso
di ritirarmi. La confusione è nata solo dal fatto che sono chiuso in una
cella minuscola. In realtà non volevo arrivare alla fine di questa storia:
la mia candidatura sarebbe stata un buono strumento di lotta. Avrebbe rinforzato
l'intifada e ricordato al mondo l'esistenza di 7 mila prigionieri che marciscono
nelle carceri degli israeliani. L'avrebbe ricordato soprattutto all'autorità
palestinese, impedendo forse di fare errori già commessi nelle vecchie trattative.
Se fossi stato candidato non ci sarebbero stati accordi senza prendere in
considerazione la causa dei prigionieri. E ribadisco: non si tratta solo
di biechi terroristi, ma anche di leader amati e stimati. E molto ascoltati
dal loro popolo, mi creda.

E la ragione che l'ha spinta a rinunciare? Si dice che al Fatah, cioè Abu
Mazen, abbia detto: Marwan Barghouti no.
Anche se sono convinto che il popolo mi avrebbe appoggiato e votato, come
peraltro era previsto da tutti i sondaggi, non volevo dare agli israeliani
e agli americani l'abbi troppo comodo che era stato Marwan Barghoutì ad
ammazzare il processo di pace.

Lei dice di credere nell'idea e nella vita di due stati diversi: quello
palestinese e quello israeliano. Ma gli israeliani credono che Barghouti
sia un terrorista. Come pensa di convincerli a far la pace con lei?
Sì, terrorista. Ma chi ha mediato l'ultima «hudna», cioè la tregua tra Hamas
e Jihad con Israele? Qual è il leader che ha difeso la pace nelle città,
nei campi profughi e nei villaggi? Certo, io sono un combattente. Non per
la pace degli israeliani però: per quella dei palestinesi.

Abu Mazen ha detto che bisogna trovare una soluzione per i profughi:
Sì, ma non ha precisato davvero quando e come torneranno in Palestina. La
risoluzione 194 dell'Onu, che dà ai profughi ìl diritto di ritorno, dev'essere
oggi la base di qualunque trattativa e di qualunque decisione. Ho fatto
avere ad Abu Mazen 13 punti, 13 richieste: una di queste riguarda i profughi.
Rimane che, se con Abu Mazen abbiamo idee differenti e forse progetti diversi,
io ripongo la mia fiducia in lui.

I maligni dicono che è un leader vecchio, incapace di portare linfa e benefici
autentici ai palestinesi.
Vedremo. Io credo invece che Abu Mazen farà l'atteso sesto convegno, quello
che eleggerà i giovani e nuovi leader di al-Fatah e che Arafat non ha mai
potuto fare. Sono certo che darà alle nuove generazioni ruoli e occasioni
importanti: lui sa bene che questi giovani non chiederanno permessi, né
a lui né ad altri.

Si è parlato molto della sua prigionia ma nessuno, nemmeno Marwan Barghouti
ha raccontato mai la vita della sua cella.
Potrebbero parlare per me i topi, gli scarafaggi e gli insetti che mi fanno
compagnia. La mia vita, fino a oggi, è una vera tortura: mi controllano
quattro volte al giorno, in ogni maniera. Posso uscire solo un'ora. Ma con
le mani e le gambe legate in una piccola piazza deserta. Non posso incontrare
mia moglìe. Me l'hanno fatta vedere attraverso un vetro solo quando ho rinunciato
alle elezioni. Non posso stringere i miei figli.

Si dice che l'unica medicina del suo carcere siano i libri.
Sì, ma non posso avere giornali arabi. La Croce rossa mi manda otto libri
al mese. Anche quelli di scrittori americani e israeliani. L'ebraico l'ho
imparato in carcere. Ho appena letto il libro di Bill Clinton, ma mi è piaciuto
molto quello di Denis Ross.
Il titolo?
La pace perduta.
A pagina 89 viene pubblicato un articolo dal titolo "I ragazzi del clan"

Vi si fornisce un'immagine di ciò che gli altri pensano di Barghouti, di come vivono la separazione dal loro leader che viene rappresentato come una volpe perennemente in fuga ma affezionato e nostalgico. Un romantico innamorato della Palestina, della libertà e della pace.
Giusto per dovere di cronaca viene precisato che ha commesso alcuni omicidi che gli hanno fatto guadagnare la galera israeliana. Ma tutti ovviamente vedono il "buono" che è in lui e non aspettano altro che la liberazione del loro salvatore. Barghouti ed i suoi sostenitori sono combattenti, compagni di mille lotte e mille latitanze nei cui intervalli sono avvenuti incontri romantici con la moglie che gli hanno consentito di avere eredi. I figli, ora cresciuti, hanno ovviamente seguito le orme del padre idealista e quindi ora si trovano anche loro latitanti o rinchiusi in qualche prigione. Insomma, sembra quasi di leggere la storia di un Robin Hood palestinese, un eroe che con i suoi ideali ben saldi sfida senza paura alcuna il nemico israeliano fino al punto che ora, dalla sua cella dove sconta cinque ergastoli, chiede ad Israele di fare la prima mossa e di dimostrare buona volontà. Ovviamente in tutto l'articolo non si fa alcun cenno alle scorribande che può aver commesso Robin Hood Barghouti o a quali marachelle possono aver commesso i suoi compagni di avventura, non si parla mai quindi di terrorismo, assassini, attentati e altre vicende che potrebbero turbare la partecipata ammirazione della giornalista.
Ecco l'articolo:

Per Marwan potrei morire. Per Abu Mazen non voglio vivere neppure un secondo».
Rania, 20 anni di riccioli neri, ride nella pasticceria di Ramallah e forse
nella sua bocca sta la verità della Palestina. Abu Mazen ha vinto, ma Marwan
Barghouti fa battere il cuore dei palestinesi. Si dice che é Arafat l'ombra
lunga dell'anziano vincitore. Ma Arafat non c'è più. E oggi quello che qui
chiamano «i1 Mandela di Ramallah» è l'ossessione di cui Mahmoud Abbas non
potrà liberarsi. Barghouti non ha potuto fare il presidente dal carcere.
Ma la sua galera rischia dì diventare la campagna elettorale migliore per un grande leader del domani.
E in quella cella dove è condannato a passare cinque vite c'è il segreto
delle future trattative con Israele. I suoi tifosi sono di ogni razza: giovani
e professori universitari, ricchi signori e martiri delle brigate al-Aqsa.
Non dimentichiamo: una corte di tre giudici israeliani, Sarah Sùot, Amùam
Beniamini e Avraham Tal lo ha condannato a cinque ergastoli per gli omicidi
di Yula Hen, Yosef Havi, Elyahu Dahan, Selim Barichat. E per quello di un
prete ortodosso. Per gli israeliani, e non solo per loro, è un assassino.
Ma il sondaggio del Centro di ricerche e di polìtica palestinesi dice che
se Barghouti si fosse candidato avrebbe raccolto il 43 per cento dei voti
contro i139 di Abu Ma zen. Manvan sarà libero? È una delle promesse, si dice, pagate da Mahmoud
Abbas per correre da solo. Ma aspettando Marwan il suo clan cresce, lavora,
i suoi uomini e le sue donne diventano celebrità. Nella stanza del comitato
per la sua liberazione (50 impiegati a libro paga e 3 mila volontari pronti
per la piazza) il signor Sad Nimr sventola il manifesto già pronto per le
elezioni del suo santo. Sullo sfondo con le nuvole c'è Arafat che, guarda
caso, alza incantato una foto di Barghouti: «Avevamo già 50 mila firme che
lo volevano eletto. Hanno avuto paura. Lui è una leggenda e le leggende
non perdono mai».
Anche a casa della signora Fadwa, sua sposa da 20 anni, l'atmosfera è quella
del tempio. Foto come santini: lui che alza le manette al cielo come ali.
Lui col padrepadrone Arafat. Lui con la signora quando aveva la bocca rossa
e una taglia massima. Oggi Fadwa, avvocato e consigliere del marito, ha
abbandonato rossetti e cotonature. È dimagrita. Stivali neri da uomo, golf
grigio, gioielli mansueti. «Ero solo un avvocato, ma lui mi ha educato alla
politica» dice. «Oggi lo rappresento. Lui mi ha visto in tv. Era soddisfatto
di me». Fadwa si siede nel divanetto dietro tende di velluto rosso. Non
ha sposato un uomo ma un'idea: quella della libertà del suo paese. «Marwan
non c'è mai stato. Era in prigione quando ha chiesto la mia mano a 18 anni.
Ancora prigioniero quando è nato al-Qassam, che oggi è in carcere anche
lui». Occhi rossi. «Ho avuto Ruba ed era ricercato, con Sharaf e Arab era
in esilio ad Amman. Ma lui ha fatto della sua assenza una nostalgia potente».
Telefoni che trillano: la signora è ricercata, nel senso migliore, e i leader
politici che contano la ossequiano: «E venuto Abu Mazen per una lunga visita.
Voleva ringraziare Marwan per essersi ritirato. Mi ha parlato della sua
politica futura... Abbiamo da sempre un buon rapporto con lui». Ma Fadwa
è stata anche al parlamento europeo e poi in Siria, ricevuta da ministri
e personalità. Infine al Cairo, dove ha incontrato il segretario generale
della Lega araba, Amr Moussa. «Si ricordi: gli israeliani non lasceranno
Gaza, ma noi sappiamo aspettare»: è la voce di suo marito.
Fuori, il putiferio sui muri di Ramallah: foto di martiri con kalashnikov
insieme ai cartelloni elettorali di Abu Mazen che bacia Arafat. Il megafono
urla vecchie canzoni guerrigliere anni 60. L'avvocato di Barghouti, Kader
Shkirat, invece lavora nel presente. Accoglie nel ristorante del più bell'albergo
di Gerusalemme est: 1'American Colony. È uomo bello e di successo. «Ci rifiutiamo di difenderlo
tradizionalmente. Il tribunale israeliano non può giudicare un parlamentare
della Cisgiordania». Kader è così travolto dal caso Barghouti da diventarne
prigioniero anche lui: «Non ho respiro da quando l'hanno arrestato: vado
da lui tre volte a settimana: può vedere solo me» racconta. E poi lancia
la notizia: «Lo libereranno vedrà: senza la sua firma nessun accordo con
gli israeliani può essere fatto». L’avvocato va. I camerieri dell'albergo
si inchinano. «Dimenticavo: se ci saranno elezioni in maggio per il parlamento
io sarò uno dei candidati! ».
È chiaro: oggi Barghouti è il Mida. della politica palestinese: chiunque
si avvicina a lui brilla d'oro. E brillerà molto. Tanto che perfino un principe
del foro israeliano, Shamai Leibowitz, lo ha difeso paragonandolo a Mosè:
secondo lui, lottava con il Faraone come Marwan lotta con Sharon. A proposito
di lottatori non ce n'è uno più irriducibile e appassionato di Ahmad Agnim,
leader dei tanzim.
È lui l'amico del cuore e di lotta: è lui quello che ha diviso con Marwan
latitanze, arresti, notti di terrore, ma soprattutto sogni. «II sacrificio
di Marwan serve a far cadere due maschere: quella degli americani con Israele
e l'altra dell'autorità palestinese. Parlano di democrazia e
la uccidono». II combattente affila gli occhi da volpe: «No, i palestinesi
non sono liberi di avere l'unico leader che volevano. Hanno minacciato:
vi diamo soldi e aiuto solo se lui non ci sarà». Nessun veto di candidature è arrivato a un uomo della
stessa famiglia, Mustafa Barghouti. Come mai? «Mustafa si è infilato nel
bisogno di nuovo dei palestinesi, stanchi di scegliere tra il vecchio Abu
Mazen e le bombe di Hamas. Marwan è un leader. Da solo. Da sempre». Hamad
racconta di come Marwan non si fermi davanti a nulla: «L'ho visto tirare
pietre con i ragazzi di 15 anni fino alle porte del carcere. E poi sfidare
i carri armati di notte per andare ad abbracciare i suoi figli. L'ho visto
piangere quando gli hanno ammazzato un amico, Raed el Karmí. Gli danno del
terrorista? Ha sostenuto come pochi gli accordi di Oslo. Perfino davanti
al cadavere del compagno di lotta Thabet ripeteva che voleva la pace. Certo,
gli possono chiedere la sicurezza per Israele. Non quella per 1`occupazione».
E di Abu Mazen gli uomini di Barghouti che cosa pensano? Ride: «Nessuno
è contro di lui; anche se non dice la verità è incapace di mentire». Su
Abu Mazen politici e grandi analisti arabi non hanno dubbi: è onesto, ma
presidente debole. «La comunità internazionale ha magnificato queste elezioni:
in realtà sono state solo un passaggio obbligato» il dottor Riad Malki,
direttore di Panorama, importante centro di politica e di sondaggi in Palestina,
sorride sotto i baffi candidi: «Nonostante la percentuale alta Mahmoud non
avrà potere vero, ma solo quello di negoziare. E nelle trattative Barghouti
è per lui fondamentale. Del resto molti hanno disertato le elezioni: il
risultato era già scontato, non c'era pathos. Così Hamas si prenderà tutti
i meriti per averle boicottate. Diventerà forte, più forte. Ma anche con
Hamas Barghouti è l'unico che può essere ascoltato»,
Hamas parla poco. I suoi sceicchi stanno nascosti. Aspettano. Non fermano
minacce e lotte. Ma quando si tratta di Barghauti escono dalle loro tane,
«Non siamo contro nessuno, neanche contro Abu Mazen, che stimiamo. Stiamo
a vedere. Se restituirà i diritti, la dignità e le giuste riforme al suo
popolo...» lo sceicco Hassan Yussef ha occhi davvero neri: «Abu Mazen ha
detto che i martiri devono finire. No. Noi sappiamo che i sacrifici non
sono finiti: i sassi erano un messaggio, í martiri sono un'arma che ha funzionato».
Il terrorismo ha condannato a morte il vostro popolo, sceicco. «Terroristi?
Non pretendiamo certo il certificato di buoni. Vogliamo liberare il nostro
popolo. Abu Mazen può dire quello che vuole». E Marwan Barghouti? «Lui è
un fratello che è in carcere per tutti noi».
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