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La Repubblica Rassegna Stampa
10.01.2005 Come Sharon potrebbe far naufragare la pace, perché Israele non ha fatto abbastanza per favorire le elezioni palestinesi
lo spiegano Sandro Viola e Alberto Stabile, ma non c'è da fidarsi.

Testata: La Repubblica
Data: 10 gennaio 2005
Pagina: 1
Autore: Sandro Viola - Alberto Stabile
Titolo: «E ora la parola a Bush e Sharon - Comincia l'èra di Abu Mazen»
(Critiche a cura della redazione di Informazione Corretta)

In prima pagina LA REPUBBLICA di lunedì 10 gennaio 2005 pubblica un editoriale di Sandro Viola sulle elezioni palestinesi.
L'"euforia" diffusa "un po' ovunque" per l'esito del voto palestinese potrebbe, avverte Viola, essere prematura.
Perché? La risposta arriva solo verso la fine dell'articolo, ma era prevedibile fin dalle prime righe:"diventa essenziale capire", scrive Viola, "quel che Bush e Sharon intendono fare per sostenere, non solo a parole, la nuova leadership palestinese. Se al primo attentato di Hamas o della Jihad si dirà che ogni negoziato è impossibile sinchè non viene stroncato il terrorismo, la situazione tornerà all´autunno del 2003, quando Sharon riuscì con questo pretesto ad affossare la road map".
Il problema, dunque non è il terrorismo, ma l'uso pretestuoso che di esso potrebbe fare, e già avrebbe fatto, Sharon, per bloccare i processi negoziali.
In realtà la richiesta israeliana è sempre stata quella che l'Anp cessasse il sostegno e l'incitamento al terrore, e incominciasse a combatterlo, non che lo fermasse da un giorno all'altro.
Trattare senza che queste condizioni minime fossero rispettate non avrebbe avuto nulla a che fare con la tante volte citata, a sproposito, decisione di Rabin di combattere il terrorismo come se non fosse in corso nessun neoziato, continuando a negoziare come se il terrorismo non esistesse: avrebbe invece significato concedere ai palestinesi di utilizzare il terrore come arma per strappare concessioni al tavolo della trattativa.
Proprio ottenere questo era un obiettivo della fallimentare scelta di ricorrere alla violenza compiuta da Arafat nel 2000. Se, scomparso il raìs, scomparirà anche questa politica criminale, Israele, come annunciato, riprenderà a trattare.
Ecco l'articolo:

Le elezioni palestinesi si sono svolte in modo sufficientemente regolare, il moderato Abu Mazen è stato eletto da una larga maggioranza dei votanti, e subito, appena noti i risultati, un´euforia ha cominciato a diffondersi un po´ ovunque, in Israele, a Washington e tra i governi europei.
Sono in molti, infatti, a dirsi convinti che stia per aprirsi finalmente la breccia attraverso la quale riprendere le trattative, negoziare un compromesso, mettere fine alla faida tra israeliani e palestinesi.
Ma conviene essere prudenti, perché potrebbe trattarsi d´un facile ottimismo. Facile e forse altrettanto precario di quello del giugno 2003, quando a Sharm el-Sheik lo stesso Abu Mazen e Ariel Sharon si strinsero la mano davanti a Gorge W. Bush, impegnandosi all´applicazione del piano di pace detto "road map". Piano di pace che due o tre mesi dopo era già in frantumi. Intendiamoci: le acque dello stagno mediorientale si stanno muovendo, il quadro del conflitto non è più rigido, impermeabile a qualsiasi idea di dialogo, com´era quattro o cinque mesi fa.
L´elezione di Abu mazen è quel che l´amministrazione americana, gli europei, molti paesi arabi e lo stesso Sharon s´attendevano come primo passo verso un possibile riavvio dei contatti negoziali. E anche la maggioranza dei palestinesi pone le proprie speranze in un dopo-Arafat che consenta la ripresa d´una vita più o meno normale, non più punteggiata quotidianamente dagli attacchi di Hamas e della Jihad contro l´esercito israeliano, e dalle rappresaglie dell´esercito israeliano nei villaggi e campi profughi palestinesi.
La maggioranza degli israeliani e dei palestinesi aspirano, questo è certo, ad una tregua. Ad un arresto della tremenda spirale di violenze che dura da quattro anni e tre mesi.
Perché su ambedue i versanti quel che oggi appare evidente, quasi tangibile, è la stanchezza. Il peso di tanti lutti, l´orrore per il sangue versato. E una tregua è forse possibile. La scomparsa di Arafat, il piano Sharon per il ritiro israeliano da Gaza, e adesso l´elezione di Abu Mazen, compongono infatti un quadro che somiglia in certa misura a quello che si delineò dopo la prima intifada, e da cui derivò il varo dei negoziati di Oslo. Con in più l´esperienza del passato: vale a dire con la consapevolezza che tutto, alla prima mossa sbagliata, potrebbe sfociare in una nuova, atroce delusione.
Ma quel che oggi va detto in modo chiaro, è che siamo soltanto ai primi, primissimi passi d´un processo negoziale. E che il massimo obbiettivo raggiungibile è per ora la tregua cui accennavamo prima: uno stato di non pace non guerra, meno morti, meno violenza, un programma d´aiuti all´Autorità palestinese che serva a strappare dal coma l´economia nei territori occupati.
Chi è davvero dentro alla storia e alle logiche del conflitto, a cominciare da Sharon e da Abu Mazen, sa che altro al momento non è possibile progettare. E questo perché su ambedue i versanti le resistenze, le intransigenze, i fondamentalismi religiosi, insomma l´opposizione al compromesso, restano vasti e molto forti.
Nel campo israeliano ribolle infatti, gravida di pericoli per la stessa stabilità dello Stato ebraico, la rivolta dei coloni. La minaccia cioè d´una resistenza violenta, e forse armata, allo sgombero degli insediamenti di Gaza.
Dall´America promettono di partire migliaia di ebrei ortodossi per dare man forte ai coloni. Nell´esercito israeliano s´aprono ogni giorno nuove crepe, con decine di ufficiali e soldati decisi a non obbedire ai vertici militari quando questi ordineranno lo smantellamento delle colonie. E per quanto, con l´ingresso dei laburisti al governo, Sharon disponga oggi d´una delle più robuste maggioranze che ci siano mai state al Parlamento d´Israele, basterà un incidente grave, uno scontro tra soldati e coloni che lasci a terra un morto, perché Israele si trovi dinanzi al baratro d´una guerra civile.
Non è molto diversa la situazione nel campo palestinese. L´appello degli integralisti e oltranzisti di Hamas a boicottare le elezioni, ha avuto il suo effetto. Circa il trenta per cento degli elettori s´è infatti tenuto lontano dalle urne, fornendo così la misura (ed è una misura inquietante) dell´influenza di Hamas sulle masse palestinesi. È vero, i portavoce dell´organizzazione dicevano ieri che Hamas è pronta a collaborare con il successore di Arafat, e che parteciperà alle elezioni legislative previste per giugno o luglio. Ma accenni ad un arresto delle azioni armate contro i coloni e i soldati israeliani nei territori, non ne sono venuti. E questo significa che le azioni continueranno: con da una parte Abu Mazen che non ha i mezzi per impedirle (salvo, forse, a sfiorare anche lui una guerra intestina), e dall´altra il governo israeliano che certo non abbandonerà la pratica delle rappresaglie.
Per troppo tempo, infatti, da una parte e dall´altra, gli estremisti sono stati lasciati liberi di opporsi ad ogni tentativo di sfebbrare il conflitto.
Per troppo tempo, sia da Sharon sia da Arafat, sono stati strumentalizzati per irrigidire le rispettive posizioni, per rifiutare il dialogo. E adesso nessuno può illudersi che sarà facile imbrigliarli, neutralizzarne la capacità sovversiva. Forse potrebbe riuscirvi il governo israeliano, visto che dispone di leggi, istituzioni e forze armate da impiegare contro una ribellione interna. Ma sul versante palestinese, nel caos istituzionale e dei servizi di sicurezza seguito ai quattro anni di intifada, appare improbabile che il nuovo presidente riesca ? se Hamas proseguirà la lotta armata ? a riportare l´ordine a Gaza e in Cisgiordania.
Su questo sfondo diventa essenziale capire quel che Bush e Sharon intendono fare per sostenere, non solo a parole, la nuova leadership palestinese. Se al primo attentato di Hamas o della Jihad si dirà che ogni negoziato è impossibile sinchè non viene stroncato il terrorismo, la situazione tornerà all´autunno del 2003, quando Sharon riuscì con questo pretesto ad affossare la road map. Se invece si farà il possibile, politicamente ed economicamente, per risollevare da terra l´Autorità palestinese, se Israele darà segni di voler alleggerire le misure oppressive dell´occupazione, se americani ed europei riusciranno ad avere una posizione comune nei confronti del conflitto, la tregua ci sarà, e forse durerà.
A pagina 8 l'articolo di Alberto Stabile, "Comincia l'era di Abu Mazen" accusa Israele di "non aver fatto molto per favorire lo svolgimento delle elezioni palestinesi, se non, forse, rallentare il ritmo delle sue operazioni militari e facilitare, il giorno del voto, il passaggio ai posti di blocco".
Il ritiro dalle città palestinesi, la completa rimozione di molti posti di blocco non sono nemmeno citati. Né lo sono le provocazioni del terrorismo palestinese: gli attentati, il lanci di razzi qassam, l'attacco di Hezbollah.
Ecco l'articolo:

RAMALLAH - E´ lui, Mahmud Abbas (nome di battaglia Abu Mazen) il successore di Arafat alla guida dell´Autorità Palestinese. Lo dice una pioggia di exit poll riversata sulle urne appena chiuse da università, televisioni e centri di ricerca. Lo fanno capire gli uomini della commissione elettorale anche se fino a notte tarda non sono stati in grado di stabilire con certezza neanche l´indice d´affluenza al voto. Lo conferma il sentimento popolare manifestato dagli elettori dentro e fuori dei seggi e affiorato, nella notte, in un sondaggio a caldo secondo cui l´85 per cento di quelli che sono andati a votare spera di veder migliorare le proprie condizioni di vita.
I sostenitori di Abu Mazen non hanno voluto aspettare la conferma ufficiale della vittoria (prevista soltanto per stamani) per scendere nelle strade di Ramallah, improvvisando caroselli a sirene spiegate e sparando in aria in segno di giubilo. Se Abu Mazen cercava, più che una semplice legittimazione, un mandato popolare per attuare la sua politica di negoziato con Israele e di riforma dell´Autorità palestinese, lo ha ottenuto. I gruppi intransigenti che hanno continuato la loro offensiva senza speranza, a colpi di missili Kassam e di agguati contro obiettivi israeliani, durante tutta la campagna elettorale, subiscono l´ennesima sconfitta. La storia insegna che non demorderanno facilmente.
Tutti gli exit poll accordano ad Abu Mazen una percentuale tra il 65 e il 70 per cento, a seconda che vengano considerate o meno nel computo globale un 5 per cento di schede bianche. Il suo principale contendente, il medico Mustafa Barghouti, cui va comunque reso merito di aver dato un senso alla campagna elettorale, viene accreditato di circa il 20 per cento. Tutto secondo previsioni, incluso il cauto ottimismo manifestato dall´entourage del premier israeliano Sharon.
L´elezione di Abu Mazen «può voltare una pagina per entrambe le parti», ha detto il portavoce del premier, Rahanan Ghissin. Di certo, nulla, a questo punto, può impedire il primo incontro tra i due leader, la fine del gelo, la ripresa del processo negoziale. Eppure, ad un certo punto del pomeriggio elettorale è sembrato che la vittoria di Abu Mazen, mai incerta, potesse essere più faticosa del previsto. E´ successo intorno alle cinque del pomeriggio. La Commissione elettorale centrale ha deciso, a sorpresa, di prolungare le operazioni di voto di due ore, dalle sette alle nove. La giustificazione offerta dal portavoce del centro stampa, Bakha Bakhri, non dice tutta la verità. «Gli israeliani non hanno attuato le misure promesse, molti posti di blocco non sono stati rimossi, migliaia di elettori non hanno potuto recarsi alle urne», ha accusato Bakhri.
E´ vero che in una zona calda come Tulkarem, il governatore della città, Ezzedin a Sharif, è stato respinto a un check point israeliano. E verissimo che a Gerusalemme alla fine ha votato appena un migliaio di elettori su 120mila aventi diritto. Ma nel complesso, come hanno detto e ripetuto gli osservatori internazionali, le operazioni elettorali si sono svolte in maniera accettabile, almeno laddove meno s´avvertiva il peso dell´occupazione. In generale, non si può dire che Israele abbia fatto molto per favorire lo svolgimento delle elezioni palestinesi, se non, forse, rallentare il ritmo delle sue operazioni militari e facilitare, il giorno del voto, il passaggio ai posti di blocco. Per Gerusalemme, però, non ha fatto niente.
Signor presidente - chiediamo a Jimmy Carter mentre viene letteralmente trascinato via dall´ufficio postale di Salah Din street da un manipolo di guardie del corpo - è soddisfatto della procedura di voto? Curvo, smagrito dagli anni, non più incline a quel sorriso che lo rese famoso, Carter fa appena in tempo a gridare un secco "no" che viene sommerso dai suoi pretoriani. Più tardi, dirà ad "Al Jazeera" d´aver trovato troppo complicato e insufficiente il sistema scelto per far votare soltanto seimila elettori su una popolazione araba che supera le 150 mila persone. Conclusione, ribadita in serata: «Le elezioni non sono andate bene a Gerusalemme est».
S´è ripetuto, in sostanza il copione del '96 e non è stato, ora come allora, uno spettacolo edificante. Dal punto di vista israeliano si trattava di privare l´evento di ogni dettaglio che potesse rivestire, in maniera indiretta o in modo esplicito, il carattere della sovranità. Non un seggio ma un ufficio postale. Non un elettore ma un cliente. «Costumers» definisce il funzionario di Salah Din i palestinesi. Alla fine, soltanto 1200 persone hanno votato nei sei seggi postali allestiti a Gerusalemme Est su una lista di 5300 prescelti. Completamente diversa l´atmosfera in qualsiasi altro seggio della West Bank. La procedura di voto è stata ordinata, accurata, fedele alla riservatezza. Velate o no, sono state le donne presenti in maggioranza tra funzionari elettorali a garantire la puntigliosa applicazione della legge.
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