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La Stampa Rassegna Stampa
10.01.2005 Igor Man e Giulietto Chiesa disinformano sulle elezioni palestinesi
e un titolo della redazione esteri cancella l'aggressione degli Hezbollah

Testata: La Stampa
Data: 10 gennaio 2005
Pagina: 1
Autore: Igor Man - Giulietto Chiesa - la redazione
Titolo: «Adesso la pace possibile - Io osservatore bloccato al check point - Scontri nel Sud del Libano, casco blu francese ucciso dal fuoco israeliano»
In prima pagina LA STAMPA di lunedì 10 gennaio 2005 pubblica un editoriale sulle elezioni palestinesi, affidato a Igor Man, "Adesso la pace possibile".
La pace, sostiene Man, non sarà probabilmente raggiungibile, perché Sharon pretende che il terrorismo sia fermato prima della ripresa del negoziato, mentre Abu Mazen ha bisogno della ripresa del negoziato per poter fermare il terrorismo.
In realtà Sharon non ha mai posto, neanche quando Arafat era in vita, come precondizione dei negoziati che il terrorismo fosse fermato, ma solo che fosse combattuto e non fosse sostenuto e incoraggiato, o addirittura organizzato, dall'Anp.
Inoltre il governo israeliano si è già detto pronto al dialogo con Abu Mazen.
L'opinione espressa da Igor Man muove dunque da premesse false.
Falso è anche che Arafat "si rendeva conto che l’unica pace cui potesse aspirare sarebbe stata, per forza di cose, una pace scamuffa, ma ammetterlo lo considerava un tradimento".
Arafat scelse deliberatamnte di interrompere il processo negoziale con Israele e di tornare al terrorismo perché non seppe distaccarsi dall'ideologia della distruzione di Israele, nel cui segno incominciò e concluse la sua infausta parabola politica.
Ecco l'articolo:

L’avvento, quasi plebiscitario, di Abu Mazen sul fragile trono di Arafat non eliminerà certo l’occupazione, né eliminerà l’afflizione del popolo palestinese cui è stata confiscata la terra e, dunque, la patria. Ma ci dice, una volta ancora, come la democrazia sia un bene supremo poiché ti lascia scegliere liberamente. Il grigio Abu Mazen non è l’uomo di domani ma (forse) quello giusto in questo presente corrusco. Egli è l’uomo della tregua (hudna) faticosamente strappata agli irriducibili: Hamas, le Brigate al Aqsa, l'università di al Najah (Nablus) che forma architetti ma forgia altresì terroristi suicidi - quella tregua che dovrebbe avviare il processo di normalizzazione in forza del quale bukhra (domani, cioè: fra un giorno o diecimila, chissà) israeliani e palestinesi anziché ammazzarsi comincino, anzi ricomincino, a parlare di pace. Non quella - va detto subito - vaticinata dal vecchio Arafat, epico affabulatore, modesto stratega, geniale tattico, bensì la cosiddetta «pace possibile»: un realistico compromesso tra il patto leonino della Destra israeliana e il sogno, palestinese, del ritorno a Gerusalemme.
Ho già scritto d’aver ricavato la convinzione, ascoltando l’Arafat degli ultimi tempi (prima degli arresti domiciliari impostigli da Sharon), che al Khitiar, il vecchio, oramai non credesse più di tanto alla «pace dei bravi» della quale si riempiva la bocca. L’ultimo Arafat giuocava l’illusione: intelligente com’era, dannatamente intuitivo, si rendeva conto che l’unica pace cui potesse aspirare sarebbe stata, per forza di cose, una pace scamuffa, ma ammetterlo lo considerava un tradimento. Uno dei tre ragazzi buoni, onesti, fedeli che l’accudivano come figli, giusto l’obbligo coranico, si diceva convinto che Arafat sperasse in cuor suo di chiudere con una pallottola in fronte, o incenerito da un missile, nell’antro precario in cui viveva, schiavo d’un giuoco delle parti tragicamente pirandelliano.
Insomma, Arafat doveva reclamare tutto perché così era scritto nel copione del destino suo e dei palestinesi. Abu Mazen, invece, può pretendere tutto per demagogia elettorale ma intimamente deve rassegnarsi alla realtà. Traghettare un popolo frustrato, sull’orlo del pauperismo, dal «nulla» al «possibile»: questo è il compito che tocca al fedayn in doppiopetto. Ragionevole compito, epperò gigantesco.
Ecco il problema: Abu Mazen chiede a Sharon di riaprire la Road Map per così consentirgli di spegnere i residui focolai dell’intifada armata da lui già definita «un funesto errore». Sharon però gli fa sapere che si può aprire la Road Map soltanto dopo ch’egli, Abu Mazen, avrà messo la mordacchia ai terroristi, agli universitari brigatisti ristabilendo l’ordine nei Territori con le buone o con le cattive. «Sono un ottimista immerso nel pessimismo», dice Abu Mazen festeggiando (senza fanfara) il suo successo, per altro gravido di incognite. Un antico proverbio semita afferma che «quando tutto sembra perduto ti rimane pur sempre il futuro». Ma nella Palestina occupata il futuro non è per domani. E nemmeno per dopodomani.
A pagina 2 un articolo di Giulietto Chiesa "Io osservatore bloccato al check point", ignora totalmente le cause dei check point israeliani, (in gran parte rimossi, comunque, nella giornata elettorale) istituiti per fronteggiare il terrorismo (che si è anche servito di ambulanze per trasportare uomini ed esplosivi).
Ecco l'articolo:

Scrivo queste righe mentre sono bloccato al check-point di Erez, per uscire dalla striscia di Gaza e tornare a Gerusalemme. E’ buio fitto in questo desolato avamposto palestinese, popolato di rari taxi gialli che devono fermarsi alla sbarra perché nessuna macchina può uscire da Gaza, nemmeno quella degli osservatori che sono venuti a controllare come si sono svolte le elezioni presidenziali palestinesi. Per tutto il giorno ho girato in lungo e in largo la striscia di Gaza. Posso dire, da testimone oculare, che i check-point interni, numerosi perché anche Gaza come la riga occidentale del Giordano una tremenda pelle di leopardo dove ogni movimento è un tormento per chi deve viverci e lavorarci. Sono stato a Sud nell’aeroporto nuovo di zecca costruito dai palestinesi e la cui unica pista è stata arata dagli israeliani nel 2003. Appena un chilometro più a Sud c’è l’Egitto, ma la frontiera è in mano a Israele e non si passa.
Telefoniamo al Ministero degli esteri israeliano: c’è un posto per passare? Cortesi rispondono: c’è, ma a una quindicina di chilometri più a Sud. Cioè un palestinese che volesse votare a Gaza dovrebbe entrare in Israele e fare un giro di almeno trenta chilometri, solo per entrare nella striscia. Da Erez, al Nord, da dove scrivo. Per arrivarci, da Rafah, proprio a ridosso della linea del fuoco tra palestinesi e israeliani, ci vorrebbe un’ora in auto. Se ci fosse la strada. Una voce cortese in italiano ci comunica che non c’è nemmeno l’anima di un palestinese a quel posto di passaggio. Nessuno di quei palestinesi voterà e ci è stato detto che di là ce ne sono almeno 20.000.
A Rafah nei seggi si vota a buon ritmo, ma l’occupazione militare la vedi facendo duecento metri dal seggio di una scuola media il cui direttore ci ha raccontato di aver perduto undici alunni tra settembre e dicembre. Via di nuovo al Nord. Seggio dopo seggio i palestinesi ci sono, votano. Più della metà, in molti seggi, e anche oltre il 60% verso sera. Bene, sono preparati. Ma oltre il campo di Khan Junis, il check-point non lascia passare, e noi sappiamo che dall’altra parte, prigionieri dentro la prigione che è Gaza, ci sono centinaia di famiglie palestinesi che non possono né entrare, né uscire, schiacciati tra gli insediamenti israeliani e il mare. Quelli, probabilmente, non voteranno.
E qui a Erez, mentre aspettiamo più di un’ora di percorrere a piedi una lunga terra di nessuno, noi che siamo osservatori privilegiati, vediamo arrivare una donna con un bambino in fasce in braccio. L’autista che ci riporta a Gerusalemme e che troviamo dall’altra parte è stato ad aspettarci ore e ci racconta che quella donna ha anche lei aspettato molto più di lui, più di cinque ore per passare. E non c’è nessuno, proprio nessuno, in fila al check-point più importante di Gaza.Lei non ha votato e nemmeno ha votato il giovane di venticinque anni che, circa un’ora prima del nostro arrivo sul territorio israeliano, era giunto a bordo di un’ambulanza norvegese. Aveva numerose ferite d’arma da fuoco. E’ morto dentro l’ambulanza.
Sempre a pagina 3 un trafiletto intitolato: "Scontri nel Sud del Libano, casco blu francese ucciso dal fuoco israeliano".
Solo leggendo l'articolo si viene a sapere che negli scontri, iniziati con un agguato degli Hezbollah a una pattuglia israeliana, sarebbe morto anche un ufficiale israeliano.
Non è chiaro nemmeno, dal solo titolo, che il militare francese è stato colpito per errore.
Ecco l'articolo:

Nel giorno delle elezioni palestinesi, il movimento islamico libanese Hezbollah irrompe sulla scena in Israele, attaccando una pattuglia al confine e provocando, secondo fonti in Libano, la morte di un ufficiale israeliano e il ferimento di tre soldati. Lo Stato ebraico ha reagito immediatamente, con artiglieria e aeronautica, e negli scontri è rimasta coinvolta una pattuglia dell'Onu e un casco blu di nazionalità francese è rimasto ucciso. Anche un guerrigliero islamico ha perso la vita. Teatro dell'attacco dei guerriglieri del «Partito di Dio» libanese sono state ancora una volta le cosiddette fattorie di Shebaa, una zona controllata dall'esercito israeliano al confine con Siria e Libano, che secondo Beirut e Damasco è parte integrante del territorio libanese, mentre secondo l'Onu è territorio siriano occupato da Israele. Non è chiaro come sia stato condotto l'attacco iniziale. Fonti della sicurezza libanese hanno affermato che i guerriglieri islamici hanno lanciato razzi contro la pattuglia israeliana. Fonti israeliane e dell'Onu hanno affermato che l'esplosione che ha devastato il veicolo con a bordo i militari è stata provocata da una bomba collocata sul ciglio della strada. Israele ha confermato solo il ferimento di due militari e ha poi affermato che «per rappresaglia» l'aeronautica militare ha colpito tre siti nel Sud del Libano «da dove i guerriglieri Hezbollah lanciano le loro operazioni contro Israele». Secondo fonti in Libano, l'artiglieria dello Stato ebraico ha colpito delle abitazioni nei pressi delle fattorie di Shebaa, mentre elicotteri da guerra hanno bombardato nei pressi di un villaggio chiamato Kafarkela. Nel fuoco incrociato, è rimasta coinvolta una pattuglia di osservatori dell'Onu inquadrati nella forze di pace delle Nazioni Unite in Libano (Unifil) e incaricati specificamente di controllare la cosiddetta Linea Blu al confine tra i due Stati tracciata dalle Nazioni Unite nel 2000, all'indomani del ritiro di Israele dal Sud del Libano dopo circa 22 anni di occupazione. Fonti dell'Onu a Beirut hanno precisato che, nel fuoco incrociato, «colpi prevenienti dalla parte israeliana della Linea Blu» hanno causato la morte di un ufficiale francese e il ferimento di un osservatore svedese e del loro autista libanese
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