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La Stampa Rassegna Stampa
09.01.2005 A rieccola. Barbara Spinelli, dopo ebreo discolpati adesso tocca a Israele
nella sua omelia domenicale terrore e difesa sono uguali

Testata: La Stampa
Data: 09 gennaio 2005
Pagina: 1
Autore: Barbara Spinelli
Titolo: «Una Palestina lontana dall'Apocalisse»
L'unico aspetto interessante delle omelie domenicali di Barbara Spinelli che La STAMPA infligge ai suoi lettori è la lunghezza micidiale del testo. Non sappiamo quanti lettori ne possano reggere la lettura sino alla fine.
Ma per quei (pochi,ci auguriamo) che raggiungeranno a fatica la fine, alcune osservazioni si impongono.

Scrive Spinelli:

Molti fra i nostri lettori non avranno dimenticato il suo precedente grido di dolore "ebreo discolpati", nel quale la Spindelli invitava gli ebrei a recitare il mea culpa. Non è qui il caso di riassumerlo, chi vuole può andarselo a leggere. Esaminiamo invece il suo editoriale di oggi.

ANCORA non è possibile dire se le prime elezioni democratiche in Palestina e la probabile vittoria di Abu Mazen segneranno l'inizio della fine di quella particolare tecnica di guerra che si avvale del suicidio dei combattenti-terroristi: una tecnica che colpisce prevalentemente i civili del fronte avversario, che i palestinesi hanno usato in maniera massiccia contro l'occupante israeliano, e che è diventata oggi un'arma impiegata dai terroristi - specie islamici - dell'intero mondo. Per Abu Mazen e i moderati palestinesi la risposta è relativamente chiara, nonostante certe ambiguità venute alla luce negli ultimi giorni: l'intifada fondata sul martirio guerrigliero è stata in realtà un suicidio politico per il sogno palestinese di fondare uno Stato nazionale, e ora si tratta di risalire la china profittando della storica sconfitta che il voto stesso e l'eccezionalità che esso rappresenta nel mondo arabo-musulmano infliggono all'ideologia apocalittico-massimalista del martirio e del tutto o nulla.
Chi se la sentirà di arrivare sino alla fine, si accorgerà come Spinelli miri soprattutto ad un obiettivo: sminuire le responsabilità palestinesi e ingigantire quelle israeliane. Che è poi la sua tesi di sempre. Anche nelle prime righe si noti come le affermazioni di Abu Mazen in campagna elettorale (il nemico sionista, Gerusalemme sarà la nostra capitale, i profughi ritorneranno ecc.) vendono defini "certe ambiguità"
Lo si vedrà forse in Palestina e Israele, perché anch'essi sono al bivio, e non è solo un popolo - il palestinese - a dover uscire da tragici vicoli ciechi. Ambedue sono chiamati a congedarsi dal messianesimo ...
Ci piacerebbe da quale messianismo dovrebbe congedarsi Israele. Perchè, da come lo presenta Spinelli, è Israele che deve congedarsi, non una piccola parte della sua popolazione, infinitesimale, che si riconosce in qualche raggruppamento messianico. No, per Spinelli è Israele tutta intera che viene definita in base al messianesimo.
Così come scrive, con lo stesso intendimento, qualche riga più avanti:

Palestinesi e israeliani s'intenderanno quando capiranno che fare i conti con l'avversario vuol dire, in prima linea, fare i conti con se stessi, e con le aspirazioni smisurate all'onnipotenza nazionale.

Qual'è "l'aspirazione smisurata all'onnipotenza nazionale" ? La palestina fu divisa fra ebrei e arabi nel 1947 dall'ONU. Gli ebrei accettarono la partizione, gli arabi no. Da che parte era allora "l'aspirazione smisurata all'onnipotenza nazionale" ? da parte degli ebrei che accettarono la scelta dell'ONU e quindi uno Stato palestinese accanto al loro, oppure da parte degli arabi che con il loro NO negavano agli ebrei il diritto all'indipendenza ?
Spinelli è abile a cambiare le carte in tavola, esperta com'è in omissioni. Infatti non ricorda nemmeno in una riga tutte le guerre che Israele ha dovuto combattere per sopravvivere.
Così come mette tutti sullo stesso piano:

Un mondo che in questi decenni s'è adagiato anch'esso (come lo Stato israeliano, come i palestinesi, come Washington, come le cellule terroriste nel mondo)
Alè, tutti in fila, tutti uguali. Il terrorismo palestinese con le sue stragi di civili e il diritto di Israele a difendersi, Washington uguale alle cellule terroristiche, non sono gli USA ad essere stati attaccati l'11 settembre, ed essersi quindi difesi, no, hanno tutti le stesse responsabilità.
Ma anche Israele ha la sua possente corrente apocalittica, cui è stato permesso di prosperare grazie alla paralisi propagata da Arafat e benvenuta da Sharon, e anch'esso sarà confrontato alla realtà, ora che ha ottenuto la democratizzazione della Palestina che invocava.
Mentre riconosce Arafat "propagatore di paralisi" (non poteva accorgersene anche nei suoi scritti precedenti, Signora Spinelli), non può fare a meno di riconoscere in Sharon il colpevole della paralisi, contraddicendosi poi quando riconosce nello stesso Sharon "ora che ha ottenuto la democratizzazione della Palestina che tanto invocava".
Era così un male invocare la democratizzazione della Palestina, è per questo che Sharon si è meritato tutti i suoi insulti, Signora Spinelli ?

Immaginare il futuro vuol dire preparare un'epoca in cui Israele comincerà infine a distinguere tra critiche antisemite e critiche che antisemite non sono affatto ma che biasimano la politica dei suoi dirigenti, che denunciano il muro innalzato nei territori (è il caso della condanna Onu, che non ha come oggetto il diritto israeliano a difendere le frontiere del '67 ma la costruzione di muri d'annessione fuori da tali frontiere).
Distinzione che Israele ha sempre fatto. Signora Spinelli, non si accorge che quando viene negato a Israele il diritto di difendersi e quindi mettere a rischio la sopravvivenza dello Stato la parola "antisemitismo" è l'unica appropriata ? Quello che lei chiama Muro non è altro che la barriera di difesa contro il terrorismo suicida che ha causato infiniti lutti in Israele, ma che lei evidentemente sottovaluta. Come mai ? Provi un po'a chiederselo e cerchi una spiegazione. La (cosiddetta) sentenza ONU poi, differentemente da come lei la presenta, è una condanna che preclude a Israele la difesa, altro che confini del '67. Perchè questa manipolazione dell'intera vicenda ? già, se lo chieda, e già che c'è, cerchi anche una spiegazione.

Come non la conta giusta quando scrive:

L'esercito stesso, essendo i soldati dissennatamente divisi secondo criteri geografici (sono i soldati residenti negli insediamenti a presidiarli, creando simbiosi insalubri con i coloni più estremisti) vacilla.
Falso. Non è quello il criterio con il quale i soldati isrealiani vengono scelti. Chi glielo ha raccontato, Signora Spinelli ? Perchè diffonde notizie false ?
leggi dell'halakhà ebraica, che impongono di disubbidire all'ordine secolare quando al fedele vien chiesto di rimuovere dai suoi posti abituali i libri della torah, i mezusot, i cimiteri.

Non strumentalizzi ai suoi fini una legge che non conosce, non riduca a polemica politica testi e parole che conosce superficialmnte. Le diamo una mano a migliorare. La prossima volta che scrive "mezusot", scriva "mezuzot", e "le" non "i", perchè mezuzà è femminile non maschile.

Non poteva mancare l'appello agli "ebrei buoni", per usarli come una clava contro Israele, attività nella quale Spinelli ha sempre cercato di eccellere ma con pochi risultati. Anche i più abili in quello sport non hanno mai raccolto i suoi appelli.

Questo è il momento di occuparsi veramente della diaspora, messa in pericolo nel mondo intero da un antisemitismo che le condotte coloniali dello Stato ebraico hanno dilatato.
Così per Barbara Spinelli è Israele il principale responsabile della rinascita dell'antisemitismo. Mai sentito nominare il fondamentalisnmo islamico ? Piccolo Satana non le dice niente ? Cimiteri profanati nella civile Europa ? Un certo mondo cattolico nostalgico dei vecchi "bei tempi" (che Spinelli sembra rimpiangere) ? Hanno tutti risollevato la testa a causa di Israele ? E lei riduce l'antisemitismo ad una banalità (falsa oltre tutto) simile ?

Per i nostri coraggiosi lettori ecco il testo completo:

ANCORA non è possibile dire se le prime elezioni democratiche in Palestina e la probabile vittoria di Abu Mazen segneranno l'inizio della fine di quella particolare tecnica di guerra che si avvale del suicidio dei combattenti-terroristi: una tecnica che colpisce prevalentemente i civili del fronte avversario, che i palestinesi hanno usato in maniera massiccia contro l'occupante israeliano, e che è diventata oggi un'arma impiegata dai terroristi - specie islamici - dell'intero mondo. Per Abu Mazen e i moderati palestinesi la risposta è relativamente chiara, nonostante certe ambiguità venute alla luce negli ultimi giorni: l'intifada fondata sul martirio guerrigliero è stata in realtà un suicidio politico per il sogno palestinese di fondare uno Stato nazionale, e ora si tratta di risalire la china profittando della storica sconfitta che il voto stesso e l'eccezionalità che esso rappresenta nel mondo arabo-musulmano infliggono all'ideologia apocalittico-massimalista del martirio e del tutto o nulla. Ma per chi ha sistematicamente usato quest'arma millenarista, le cose possono apparire diverse: se lo Stato d'Israele pensa a un primo sgombero di territori occupati (a Gaza e per ora solo in quattro colonie della Samaria), se Abu Mazen raccoglie i consensi non solo del proprio popolo ma dell'amministrazione Usa, dell'Europa, perfino delle élite israeliane, è perché l'intifada violenta ha prodotto risultati politici. Come spesso accade, la storia nei momenti in cui passa dal Vecchio al Nuovo esita: il Vecchio la tira verso i lidi conosciuti del già vissuto, già detto, mentre il Nuovo a malapena s'intuisce perché non ha ancora una forma e un proprio patrimonio di esperienze, speranze, e parole per dirle.
Ma il Nuovo si può immaginare, progettare e infine proporre come piano realizzabile, e influisce grandemente sulla storia che si sta facendo e che per fortuna non è predeterminata. La storia non è provvidenzialmente positiva né provvidenzialmente negativa, ma è fatta di crisi, di discontinuità, e dunque di quelle opportunità che fin dai tempi della Grecia antica e a seguito del cristianesimo sono il momento in cui l'uomo è chiamato a cogliere l'occasione (a usare con acume il libero arbitrio che interamente gli appartiene), e dunque a imparare dai propri errori e a uscire dalle secche del tragico.
Lo si è visto in Europa, quando fu fondata una Comunità fra nazioni sino a ieri nemiche, dopo 31 anni di guerre mortifere (ma meglio sarebbe dire 75 anni, incorporando la cruciale guerra franco-tedesca del 1870). Lo si vedrà forse in Palestina e Israele, perché anch'essi sono al bivio, e non è solo un popolo - il palestinese - a dover uscire da tragici vicoli ciechi. Ambedue sono chiamati a congedarsi dal messianesimo d'una storia apocalittica e ad entrare nella storia comune alle genti: quella che si fa dentro il tempo e non fuori, nella libertà responsabile di cogliere le occasioni, nell'umile realtà e non nell'insolenza immobile del mito.
La figura mitizzata di Arafat ha imprigionato le menti di entrambi i popoli, per decenni. Era l'alibi ideale di tutti coloro che s'accomodano nelle pantofole del Vecchio, troppo timorosi di scoprire il mondo esterno e di costruire il Nuovo constatando i suoi vincoli. Sono timorosi perché il Nuovo comporta non solo uno sguardo sull'altro, ma soprattutto su di sé. Gli europei si sono unificati smettendo d'additare le sole colpe degli avversari. Palestinesi e israeliani s'intenderanno quando capiranno che fare i conti con l'avversario vuol dire, in prima linea, fare i conti con se stessi, e con le aspirazioni smisurate all'onnipotenza nazionale.
Quest'esitazione tra Vecchio e Nuovo non finirà dopo il voto di oggi in Palestina. I compiti più duri cominciano il giorno dopo, sia nel rapporto israelo-palestinese sia nel più vasto mondo arabo-musulmano, che per la prima volta vede una propria nazione tentare un esercizio di democrazia che è sempre anche apprendimento dell'autocritica. Un mondo che in questi decenni s'è adagiato anch'esso (come lo Stato israeliano, come i palestinesi, come Washington, come le cellule terroriste nel mondo) sui cuscini d'una pace che si riteneva impossibile se non in una prospettiva di liquidazione totale dell'avversario, e di fine della storia. Dice il poeta William Butler Yeats che quando «la torbida marea del sangue dilaga», e «in ogni dove annega il rito dell'innocenza», «manca ai migliori ogni vera fede, mentre i peggiori son rigonfi di appassionate intensità». Questo è il destino non solo di chi aspira a forgiare un'autentica Unione europea ma anche di tutti coloro che, nella città dell'uomo, introducono la febbre dell'apocalisse e del messianesimo. Le Sacre Scritture - il Corano per gli integralisti palestinesi, la Bibbia per quelli israeliani - si mischiano in permanenza con la storia terrena, e diventano idoli pagani al servizio dei nazionalismi e degli oltranzismi degli uni e degli altri.
Siamo abituati a analizzare queste derive teologico-politiche nei popoli musulmani, a cominciare dalla Palestina che per gran parte dell'Islam è l'ombelico del mondo e giustificazione di tutto: Abu Mazen non ha finito di fare i conti con questa tentazione apocalittica, presente in movimenti come Hamas e Jihad. Ma anche Israele ha la sua possente corrente apocalittica, cui è stato permesso di prosperare grazie alla paralisi propagata da Arafat e benvenuta da Sharon, e anch'esso sarà confrontato alla realtà, ora che ha ottenuto la democratizzazione della Palestina che invocava. Anche per Israele, appunto, sarà difficile non iniziare un regolamento di conti con se stesso: e non solo con il recente passato ma con l'idea stessa di sionismo politico, di identità etnica puramente ebraica, di Stato nazione cui viene da troppe parti demandata una funzione religiosamente redentrice, di intreccio deleterio tra leggi repubblicane e leggi religiose. Immaginare il futuro vuol dire preparare un'epoca in cui Israele comincerà infine a distinguere tra critiche antisemite e critiche che antisemite non sono affatto ma che biasimano la politica dei suoi dirigenti, che denunciano il muro innalzato nei territori (è il caso della condanna Onu, che non ha come oggetto il diritto israeliano a difendere le frontiere del '67 ma la costruzione di muri d'annessione fuori da tali frontiere). O che ridiscutono il sionismo dei primi fondatori o la condotta israeliana verso la diaspora, come fa Tony Judt in un lucido articolo sul settimanale The Nation, il 3 gennaio.
Se il voto di Abu Mazen è il primo passo che conduce lontano dall'apocalittica verso la laicità, un analogo passo s'imporrà anche in Israele. In qualche modo le elezioni odierne in Palestina mostrano che Israele ha in parte perso, ma anche in parte vinto. Per combattere un avversario così potente, i palestinesi hanno dovuto riconoscere che quest'ultimo era regionalmente e globalmente potente non solo a causa delle armi, ma della democrazia: hanno dovuto quindi mettersi alla pari, compiere essi stessi un salto laico-democratico. Ora spetta a Israele far vedere di essere all'altezza di un avversario che muta, riconoscere qual è la paternità di tali mutamenti. Nel bene e nel male, Israele è all'origine di quel che avviene in Palestina. Nel male, perché tenendo prigioniero un popolo nei territori, ne ha inasprito gli animi fino a spingerli alla follia degli attentati suicidi. Nel bene, perché ha suscitato negli avversari la voglia di eguagliare la forza dello Stato confinante non solo militarmente, ma anche democraticamente. È una forza che Israele non può corrodere, proprio ora che comincia a penetrare la storia palestinese e arabo-musulmana.
Di questa corrosione si discute tra israeliani - e si patisce - nelle ore in cui i palestinesi votano. Proprio ora infatti la corrente apocalittica cresce in Israele, gonfia di appassionata intensità, e lo Stato non più unificato contro Arafat scricchiola. È la corrente di numerosi rabbini attivi nei territori occupati di Giudea, Samaria e Gaza; è l'intimidatoria disobbedienza armata annunciata dai coloni a Gaza e Samaria: attizzata da movimenti che suggeriscono perfino di indossare un'arancione stella di David, pur di mettere in difficoltà Sharon e compararlo ai nazisti deportatori di ebrei. È la lotta armata ingaggiata fin d'ora negli avamposti cisgiordani che il governo dice di voler smantellare.
L'esercito stesso, essendo i soldati dissennatamente divisi secondo criteri geografici (sono i soldati residenti negli insediamenti a presidiarli, creando simbiosi insalubri con i coloni più estremisti) vacilla. Molti non resistono alle pressioni di chi nelle colonie incita a non obbedire agli ordini governativi. Giovedì, 4 comandanti e 30 ufficiali hanno firmato una lettera in cui rifiutano di impegnarsi nell'evacuazione di Gaza e dei quattro insediamenti cisgiordani, e il governo è alle prese con strategie che minacciano un simmetrico e velenoso ritiro: il ritiro non dalle colonie ma dallo Stato israeliano, dalle sue leggi repubblicane, e il dilagare di intifade non palestinesi ma questa volta indigene, che almeno verbalmente prospettano una guerra civile e una preferenza delle leggi superiori di Dio a scapito delle leggi umane e statali: leggi dell'halakhà ebraica, che impongono di disubbidire all'ordine secolare quando al fedele vien chiesto di rimuovere dai suoi posti abituali i libri della torah, i mezusot, i cimiteri.
Lo Stato israeliano ha tollerato per decenni questa deriva integralista, e adesso ne paga il prezzo. Lo scrittore Doron Rosenblum non esclude una guerra civile «tra ribelli e Regno», perché la secessione dallo Stato s'è fatta troppo forte e la sovranità statale è stata per troppo tempo debole, nonostante la fermezza mostrata ultimamente da Sharon e dai capi militari.
Immaginare il futuro è a questo punto una necessità, oltre che un'occasione propizia di transitare dal Vecchio al Nuovo. Se la minaccia è una guerra civile, questo è il momento di ascoltare le critiche del campo di pace in Israele e di imparare da esse. Questo è il momento di occuparsi veramente della diaspora, messa in pericolo nel mondo intero da un antisemitismo che le condotte coloniali dello Stato ebraico hanno dilatato. Questo è il momento di allontanarsi dalle acque euforizzanti ma stagnanti delle visioni apocalittiche, e di entrare infine nella storia, nel tempo, nella normalità di un mondo dove le nazioni son sempre meno onnipotenti, e sempre più dipendenti dagli equilibri con i Paesi circostanti o lontani. Questo è il momento per gli amici d'Israele di far sentire la propria voce esigente, e laica: gli amici in America ed Europa, gli amici delle comunità ebraiche nella diaspora, gli amici che non s'accontentano d'esecrare il suicidio terrorista ma vogliono capire quel che spinge tanti giovani senza più speranze verso quest'arma di distruzione e autodistruzione.

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