lunedi` 25 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Stampa Rassegna Stampa
08.01.2005 Igor Man, vedovo inconsolabile di Arafat
straparla sulle elezioni palestinesi

Testata: La Stampa
Data: 08 gennaio 2005
Pagina: 9
Autore: Igor Man
Titolo: «Abu Mazen il fadyn in doppio petto»
Anche nella descrizione di Abu Mazen, Igor Man non manca mai di regalarci quanlche buona risata. Citiamo all'attenzione dei nostri lettori la definizione di Safed "luogo di non comune bellezza, un presepio". Che Zfat (o Safed) possa esere paragonata a un presepio poteva venire in mente solo a Igor Man ! Niente città del cabalisti, cancellata la tradizione di città capitale del misticismo ebraico, solo un "presepio". Come dire che la citta del Vaticano, con la basilica di San Pietro ricorda la bellezza di una moschea !
Si noti il necrologio postumo di Arafat chiamato più poeticamente Abu Ammar, con l'elenco delle sue gesta (Igor Man è il principe dei vedovi di Arafat), definito addirittura "gracile passero".Se Man non esitesse bisognerebbe inventarlo ! perchè privarsi di qualche buona risata ?
Essendo Abu Mazen vivo, il nostro non può dire di conoscerlo benissimo,come fa abitualmente con i defunti. Abu Mazen non l'ha mai incontrato. Finalmente una affermazione vera !
Sharon rimane nelle parole di Igor Man "l'implacabile falco",tutto l'opposto del pio Arafat. Le citazioni del nostro sono poi tutte risibili. Da dove vengono ? dove le ha prese ? mistero. Per fortuna che si tradisce quando mette in bocca a Israele la seguente frase: "Andate nella terra dei padri, fondate un focolare, Dio lo vuole", così Man cita la frase che sarebbe stata detta ai coloni che andavano a Gaza dopo il '67. Per fortuna che, fra parentesi, aggiunge un: "o qualcosa del genere". E qui sta la grandezza dell'esperto Igor Man, come lui non perde mai occasione di definirsi, anche in questo articolo. Raccontare, descrivere, annotare come se tutto fosse vero, mentre in realtà ciò che scrive è guidato essenzialmente da un unico comandamento: far apparire la realtà palestinese digeribile e apprezzabile dai lettori, indorandola e infiocchettandola con caramellose aggiustature e invenzioni, e, dall'altro lato, presentare Israele come un dio Moloch assetato di conquista e sangue.
Anche gli accordi di Oslo ci vendono ricordati in modo completamente diverso da come sono andati, e il loro fallimento viene attribuito a Israele e non ad Arafat.
Verso la fine del pezzo, un'altra perla: "Hamas faceva politica ma soprattutto assistenza ai derelitti". In questa frase c'è tutto Igor Man, una frase che rivela in modo luminoso l'ideologia del nostro. Peccato che anche il lettore più disinformato sappia cos'è Hamas, cioè il contrario di quanto dice Igor Man. Dimentichi pure il nostro e non le citi tutte le stragi di cui Hamas si è macchiato, continui a presentarci la scena israelo-palestinese come ha sempre fatto in questi quarant'anni. Arafat non c'è più, tutti i peana che il nostro gli ha suonato non sono serviti a nulla. Non sarà certo ricordato come Man si augurava. E lasci stare Abu Mazen, che oltre a tutto non conosce nemmeno.

Ai lettori la lettura del pezzo di Igor Man.divertirsi ogni tanto fa bene. Ma anche un po'di indignazione non guasta. E' incredibile che un quotidiano come la Stampa si affidi a Igor Man per una analisi politica.
Per fortuna che nel numero di oggi del quotidiano torinese, nella pagina accanto a quella dove c'è il pezzo manesco, viene pubblicata una approndita e accurata analisi delle elezioni palestinesi scritta da Fiamma Nirenstein. Una giornalista che conosce la materia che tratta.
Il suo reportage è su Informazione Corretta di oggi.

Ecco il pezzo manesco:

ABU Mazen, al secolo Mahmoud Abbas, vecchio compagno d’armi di Arafat, l’estensore di pressoché tutti i documenti politici di Al Fatah, prima, e, dopo, dell’Olp e, infine, dell’Autorità palestinese, si appresta a vincere le elezioni presidenziali nei Territori occupati. Una vittoria annunciata, la sua, non tanto perché l’uomo sia un leader a tutto tondo ma proprio perché non lo è. Sulla soglia dei 70 anni, che dalle sue parti fanno il paio, grosso modo, con gli 80 di un Giscard, questo palestinese dell’Alta Galilea (è nato a Safed, luogo di non comune bellezza: da presepio; un piccolo miracolo d’architettura mediorientale, a misura d’uomo) è l’esatto contrario di quel che fu Arafat.
Abu Ammar fu tra i commandos che nei Cinquanta infastidivano l’Egitto di Nasser con le loro incursioni in Israele gravide di conseguenze non solo politiche. Abu Ammar combatté a Karameh in quella battaglia che l’abilità dei comunicatori palestinesi trasformò in «strepitosa vittoria», impugnando con destrezza il kalashnikov cui, per altro, preferiva la pistola, una sottomarca spagnuola della S&W che pretese di portare con sé nell’ultimo suo viaggio: da Ramallah all’ospedale militare francese. Abu Mazen alla rivoltella ha sempre preferito la Mont Blanc e mentre Arafat indossava un giubbotto piuttosto voluminoso (anche per camuffare la sua spaventosa magrezza da gracile passero), Abu Mazen solo in quest’ultimo anno s’è deciso a indossarne (qualche volta) uno invero leggero, una sorta di (costosissima) calzamaglia spuntaproiettili made in Usa.
Ho avuto modo di incontrare un po’ tutti i più stretti collaboratori di Arafat, non pochi dei quali, sull’esempio del dottor Ahmed Abdulrahman, facevano da coro alle affermazioni di Abu Ammar in risposta alle mie domande, ma con Abu Mazen non ho mai parlato: buongiorno buonasera. Lui lavorava nell’ombra, forte della sua modestia sposata ad un fiuto diremo politico piuttosto raro a certe latitudini. Ecco: Arafat era, fu, un tattico di straordinaria fantasia, capace di ribaltare una situazione sinanco disperata con una mossa a sorpresa. Allorché lasciò il Libano travolto dalla spedizione «Pace in Galilea» voluta da Sharon «per schiacciare il pidocchio» - abbandonato da Assad che sperava col suo, diremo, astensionismo di prendere i cosiddetti due piccioni eccetera: la scomparsa di Arafat che il duce siriano considerava un «grillo parlante»; nessuno sconfinamento di Israele in Siria -, Arafat, imbarcatosi sulla nave greca «Odissea», fece scalo in Egitto facendosi ricevere da Mubarak, anch’egli, allora, in debito d’ossigeno.
In quell’occasione, comunicatore occulto di straordinaria perizia, Abu Mazen riuscì, dal suo rifugio, ad ottenere dalla stampa egiziana (e di rimbalzo dai corrispondenti esteri basati al Cairo) una copertura invero eccezionale. Il massacro di Sabra e Chatila fece il resto: Begin e Sharon pagarono un pesante prezzo politico per la improvvida spedizione «Pace in Galilea» mentre Arafat rifiatava.
Ora io non so se Abu Mazen, dopo la sua scontata vittoria elettorale, riuscirà a conquistare il timone del malandato vascello palestinese dirigendolo verso un (salutare) compromesso con l’arcinemico Sharon. Un compromesso che consenta al successore (eletto) di Arafat di gettare le basi per una rilettura della Road Map, ritenuta l’ultima chance dagli americani e non solo da essi. Le elezioni, con tutti i loro guasti, si davano, giustamente, «possibili» non fosse altro perché l’annunciato sgombero di Israele da Gaza (sgombero al quale un po’ tutti credono, al punto da pensare, in parecchi, che Sharon addirittura voglia tentare di anticiparlo) hanno consentito ad Hamas di frenare raccogliendo l’invocazione di Abu Mazen: «Datemi una pausa per vederci più chiaro, per far respirare la mia gente che rischia il pauperismo».
Abu Mazen non si fa illusioni: il comunicatore occulto che da studente-operaio (in Siria) riuscì a laurearsi, perfezionandosi successivamente in scienze politiche a Mosca (non pochi raíss, lo stesso Mubarak, si sono «perfezionati» in Urss), sa che lui può (deve) essere l’uomo della tregua. Non della pace. Saggio, lucido com’è, sa meglio, certamente, degli analisti della Signora Condi Rice e di noi cosiddetti «esperti» del Medio Oriente, che riaprire la Road Map darà ai caporedattori dei giornali modo di sparare bellissimi titoli in prima pagina e null’altro, cioè niente di positivo, di fattibile.
Subito dopo il responso elettorale, immediatamente dopo per non raffreddarne l’effetto mediatico, Abu Mazen e Sharon faranno a gara nel pronunciarsi per un subitaneo approccio alla Road Map. Ma non per questo in Medio Oriente si sarà imboccata la via, o le strade e stradine, della pace. Sempreché la mutazione di Sharon da implacabile falco in politico realista non sia un miraggio né un disegno bizantino volto a impressionare il Presidentissimo George W. Bush - atteso che gli irriducibili palestinesi delle varie fazioni nutrite e sollecitate da abili apprendisti stregoni, cinici quanto abili manipolatori del Corano, riescano a farsi tre conticini spiccioli, rimane l’interrogativo più drammatico: che faranno gli ottomila coloni che dovrebbero sgomberare gli insediamenti?
Dopo la pace firmata da Begin e Sadat, i coloni accampati nel Sinai insorsero, minacciando sfracelli, ma presto capimmo tutti che facevano ammuina e infatti gelidamente Begin li fece sgomberare confortandoli con un equo risarcimento-danni. Ma altro è una colonia nel Sinai, altro è restituire agli egiziani un deserto vero e proprio, altro è sgomberare Gaza e il meglio della Cisgiordania. Se ci sono degli innocenti nella crespa storia interminabile ch’è la crisi israelopalestinese, questi sono i coloni del Gush Emunim. Erano giovanissimi quando fu detto loro: «Andate nella terra dei padri, fondate un focolare, Dio lo vuole» (o qualcosa del genere) e adesso che son cresciuti sentendosi addosso l’odio dei palestinesi (com’era fatale che fosse), ora che han cresciuto i figli e si son «sistemati» non è facile spiegargli come e perché debbano andarsene. Qualsiasi cosa gli si proponga è come se Sharon gli dicesse: «Abbiamo scherzato, abbiate quindi l’amabilità di sgomberare».
Dice: Abu Mazen è l’uomo di Oslo, è lui che convinse Arafat e gli irriducibili a fidarsi degli amici (non solo norvegesi) che lavoravano (senza fanfara) affinché gli eterni nemici si incontrassero perfezionando l’incontro, invero storico, di Madrid (del ‘91), per tentare un accordo di pace. Mal fatto, addirittura abborracciato, quell’accordo è passato alla Storia e a redigerlo, dopo la difficile gestazione, fu proprio Abu Mazen ovviamente col placet di Arafat. Altri tempi. Oggi l’oltranzismo islamista è una realtà terribile che allora non esisteva: Hamas faceva politica ma soprattutto assistenza ai derelitti. Niente terroristi suicidi in Palestina. Non era corso il sangue ch’è corso da quel maledetto 4 di novembre in cui ammazzarono il garante della pace: Rabin. E non c’era, allora, fra i piedi, una guerra logorante e apparentemente senza sbocchi come quella che tritura l’Iraq.
Con tutto il rispetto per Abu Mazen, non ce la sentiamo di definirlo l’uomo della pace. Ma è già molto ch’egli riesca a interpretare il difficile ruolo di uomo della tregua. E’ un galantuomo: marito perfetto, padre amoroso, un negoziatore abile e tenace ma la realtà mediorientale è troppo grande per lui. Non fosse altro perché nessuno può garantire che domani Sharon sia quello di oggi. La ragion politica spesso sragiona. Epperò facciamo gli auguri ad Abu Mazen, fedayn in doppiopetto, patriota sincero, uomo di pace. Ricordando che Ben Gurion diceva: «La Palestina è terra di miracoli».

Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Stampa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.

lettere@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT