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La Stampa Rassegna Stampa
08.01.2005 Tutto quello che c'è da sapere sulle elezioni palestinesi
nell'accurato reportage di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 08 gennaio 2005
Pagina: 8
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Gerusalemme al voto tra speranza e utopia»
Tutto quello che c'è da sapere sulle elezioni dell'ANP di domani domenica 9-1-05, in un accurato reportage di Fiamma Nirenstein.





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GERUSALEMME Est si stira e dà un’occhiata circospetta intorno alla mattina dell’antivigilia. Venerdì, la gente in parte va alle Moschee, in parte apre i negozi. Poca polizia per ora, gli osservatori vanno in giro alla ricerca di numeri, dati, sicurezze statistiche e giuridiche. Incontriamo la deputata italiana Tana de Zuleta che, con la delegazione dell’Unione Europea, esce dall’American Colony investigando queste rare merci.
Saranno fair, le elezioni? E’ previsto un timbro viola indelebile, è previsto che gli israeliani se ne stiamo fuori dai piedi, minimi controlli di check point, fluidità, polizia palestinese armata, fuori l’esercito dalle città. Un sacco di giornalisti dragano il terreno, ma Gerusalemme è faticosa come sempre, avara e scombinata nella sua santità. Gli uffici postali e i seggi della cintura sono pronti, e la gente di Gerusalemme si allena all’idea, a volte con entusiasmo, altre con parecchia riluttanza. Non si vota dal 1996, e la popolazione cerca a fatica di mettere la testa fuori da quattro anni e mezzo di Intifada. Non è facile, anche se la voglia ci sarebbe; la fantasia è stata consumata dalla guerra, bruciata nell’immagine della marcia del milione di «shahid» su Gerusalemme che Arafat invocava, appiattita dalla paura delle ronde e dei blocchi israeliani, sconvolta dai lutti.
Subito al di là delle antiche mura, dentro la cinta, Azhadin Izhiman - un vecchio signore di nome che vende noci e semi - prima ancora di rispondere mi porge sulla paletta professionale qualche buon pistacchio abbrustolito: «Certo che vado a votare. Perché? Perché è una cosa bella: in vita mia ho votato solo una volta, figuriamoci se mi perdo la seconda. Per chi? Per Abu Mazen, perché magari ci aiuta a star meglio. Inshallah. Il Fatah è forte. Io lo voto, poi se farà bene non lo so. Lascio il destino a Dio». Con lui due giovani commessi dietro il banco affondano le mani nelle tasche della giacca; fa freddo, i clienti che dovrebbero fioccare dentro il negozio di ritorno dalla preghiera della Spianata delle Moschee tirano dritto. Uno dei due scuote la testa arrabbiato; si chiama Abbas, ha diciotto anni: «Io non vado a votare, che me ne viene. Non abbiamo niente da guadagnare, abbiamo visto già tutto. Nessuno di quelli là in alto farà mai niente per me, nessuno di loro ha mai pensato a niente altro che a se stesso. Quanto agli Israeliani, non gliene importa che ci sia un cambiamento, non vogliono la pace, vogliono solo dominarci».
L’altro commesso non dice il suo nome, ma l’intenzione di voto sì: «Voto Mustafa Barghouti, perché è diverso». Con il suo 22 per cento di suffragi previsti, è il candidato che dopo Abu Mazen piace di più ai palestinesi. E proprio adesso viene fermato dagli israeliani a pochi metri da qui, perché voleva entrare sulla spianata delle Moschee: secondo gli israeliani per fare propaganda elettorale non autorizzata, secondo lui per pregare. Invece Abu Mazen ha prudentemente rinunciato - per motivi di sicurezza e di ordine pubblico - a recarsi a Al Aqsam, preferendo tenere il suo comizio a Dir el Ballah.
La paura è che Gerusalemme non vada a votare se non per una piccola percentuale, e la discussione è sul perché: è colpa di eventuali intimidazioni di Israele? Della sfiducia nei nuovi leader? E’ perché i palestinesi di Gerusalemme preferiscono rimandare qualsiasi scelta che metta in pratica l’idea «Gerusalemme Est sceglie decisamente di non essere più parte dello Stato d’Israele»?
Gerusalemme ha sei uffici postali, dove i palestinesi possono votare per posta. Ma sono piccoli e non potranno votare più di seimila persone, data la logistica molto sfavorevole ad accogliere i 160 mila residenti palestinesi. Quindi per votare la gente dovrà andare nella corona di villaggi e quartieri limitrofi, in quella che può essere considerata la Grande Gerusalemme, il che comporta una certa scomodità ed è un disincentivo, anche se Israele promette di non mettere i bastoni fra le ruote e i partiti di facilitare gli spostamenti. «Per me è chiaro - dice Nabil Feidy, un signorile cambiavaluta di Salah ha Din, la via principale di Gerusalemme Est - gli israeliani non vogliono che si dimostri che i residenti di Gerusalemme Est ci tengono tanto alle loro elezioni, alla loro identità, alla loro Gerusalemme, e quindi hanno posto ostacoli palesi e occulti alla votazione».
Occulte? «Sì - dice Feidy, senza sottoscrivere appieno le teorie cospirative, ma riportandole come una voce secondo lui attendibile -. Chi va a votare verrà scrutato, identificato, magari fotografato, si mormora, e così la nostra carta d’identità israeliana, che ci dà il diritto alla pensione, alle assicurazioni sociali, alla mutua, al servizio scolastico eccetera, potrebbe essere messa in questione». Feidy vorrebbe essere in una Gerusalemme capitale dello Stato palestinese? Lui sì, e così molti altri con cui parliamo. Ma ci sono molti indifferenti al futuro politico, speranzosi solo di stabilità e benessere; altri sono spaventati dall’idea di finire sotto un regime che finora non è stato democratico: «Noi siamo abituati alla democrazia israeliana, siamo un popolo moderno desideroso di internazionalizzazione, mondializzazione, comunicazione - dice Yussuf, anche lui negoziante di Salah ha Din, un quarantenne con la cravatta e gli occhi azzurri -. Non abbiamo nessuna assicurazione che Abu Mazen o chi per lui non diventi un Raíss, che non ci rinchiuda in un piccola spazio. E poi, perché dovrei andare a votare per il simbolo di un’organizzazione che mi ha portato dove mi ha portato, ovvero alla guerra continua? Con questo, non faccio nessuno sconto agli israeliani, intendiamoci, solo che non credo che siamo di fronte a una svolta. No, non vado a votare».
C’è però anche una posizione, che incontriamo diffusamente e che è opposta a questa: «Siamo il primo Paese Arabo - dice Bashar, un giornalista politico di Gerusalemme - che va a elezioni davvero libere. Dove, sia pure con squilibri e discrepanze, nessuno è stato tacitato brutalmente. Ed è meglio oggi che nel ‘96: allora c’era la pace in vista, ma la questione "democrazia" era in secondo piano, Arafat prese più del 90 per cento. Qui c’è un’occasione per tutti, la gente andrà a votare molto di più di quanto non ci si aspetti».
Nel minuscolo, gelido ufficio del «Jerusalem Times» Hana Siniora, famoso intellettuale e uomo politico che possiede sia il settimanale che dirige che una nota farmacia cittadina, è membro del gruppo pacifista di Ginevra, ed è anche lui sicuro che la gente di Gerusalemme andrà a votare: «Io sono tornato apposta per votare, dopo un giro in Europa e negli Stati Uniti: l’identità nazionale è la nostra maggiore ricchezza, e non c’è occasione migliore, luogo migliore di questo per affermarla, aderendo alla nuova gestione dell’Autonomia. La Palestina non può fare a meno di noi gerusalemitani e noi non possiamo fare a meno della nostra patria. Certo, votare per posta è pessimo: è come una dichiarazione di assenza. Ma è meglio che nel ‘96, gli accordi con gli israeliani sono migliori, la prospettiva dello sgombero di Sharon è importante».
Il sogno di Hana per Gerusalemme è una città unita, con due poteri dell’Onu, la cui assemblea generale lui trasferirebbe a Gerusalemme, lasciando il Consiglio di Sicurezza a New York.
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