domenica 22 settembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Stampa Rassegna Stampa
01.06.2005 A Ramallah, alla vigilia del voto palestinese
reportage di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 01 giugno 2005
Pagina: 1
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Speranze e manovre in Palestina alla viglia del voto»
LA STAMPA del 6 gennaio 2005 pubblica un reportage di Fiamma Nirenstein da Ramallah, alla vigilia delle elezioni palestinesi.
Ecco l'articolo:

La città ha ripreso in questi giorni la faccia di quando era un posto di villeggiatura per la borghesia palestinese: le ville sulle colline si moltiplicano in audaci architetture, la gente è tutta per le strade, intorno a piazza Al Manara i negozi sono animati e ricchi di buone merci, nei ristoranti si servono insalate orientali a raffica, e la sera si ricomincia a far tardi. La Muqata non è più l’oscuro cuore pulsante della città, la sua casamatta e il suo memento mori. Ramallah, uscita dal lutto e dalla guerra, è tappezzata di manifesti elettorali di Abu Mazen e del suo oppositore principale, Barghuti, oltre che da pochi ritratti di Arafat. «Vi parlo a nome di tutto il mondo: venite a votare, il vostro voto è importante per tutti».
Prime elezioni - mancano ormai solo tre giorni - senza Arafat, prime, misteriose, fatali elezioni che promettono, nascondono, suggeriscono, negano un possibile futuro di pace. «Secondo te - dice all’aiutante de La Stampa, Massad, il giovane Maher, uno dei proprietari del ristorante "Nazareth" - Abu mazen se la rimangia o no la richiesta di smetterla con i missili Qassam?». Domanda da cento milioni che è diventata la vera chiacchera del Paese. Dirà sul serio, insomma, quando chiede di deporre le armi? O dice sul serio quando chiama Israele «il nemico sionista» lasciando a bocca aperta Tayyeb Abd el-Rahim, il suo secondo che nemmeno al Raìss, di cui era il più vicino sodale, aveva più sentito usare quell’espressione da tempo? Eppure, anche se non si capisce bene e fino in fondo chi sia Mahmud Abbas alias Abu Mazen, pure l’identikit del suo elettore, che, anticipiamo, è un’identità doppia ma non troppo, si capisce quando si passa qualche ora dentro il quartier generale, nella zona dei ministeri e vicino alla casa di Abu Mazen. Ecco la sua interminabile processione di Mercedes nere che entra a Ramallah di ritorno da Gaza e scorre verso la sua alta dimora tutta coronata di antenne televisive. La grande chiave segreta di queste elezioni, il barometro su cui si deciderà se Abu Mazen avrà più o meno di quel 65% garantito da Al Fatah, non è nei suoi discorsi: i discorsi lasciano il tempo che trovano. E’ nascosta ai due opposti capi di un arcobaleno: da una parte troviamo un gruppo di notabili e un gruppo di ragazzi. Siedono nel suo quartier generale e si sforzano di portare i voti a casa. Per motivi diversi, hanno bisogno sia della pace sia di Al Fatah, potentissime macchine motrici di vita, garanzia di tranquillità sociale. E stavolta vanno insieme.
Nella «operation room» incontriamo una dozzina di ragazzi sui vent’anni seduti tutti intorno a un lungo tavolo con molti telefoni, ciascuno con la sua lista di nomi che vengono espunti dopo ogni telefonata riuscita. I giovani sono volontari, spiega Fahed Wahibi, il funzionario che dirige il gruppo, un elegante trentaduenne, e telefonano ai votanti per convincerli ad arrivare alle urne dai villaggi più lontani, sfiduciati verso il potere e spaventati dai check-point come sono: «Gli diciamo: tu come individuo puoi cambiare le cose, il diritto di votare è un grande successo personale e per il popolo palestinese. Sii padrone del tuo futuro. E troviamo una gran voglia di rompere la disperata situazione in cui vivono, poveri, isolati, in lutto, con i familiari in prigione. Sentiamo che vogliono rompere le sbarre».
I ragazzi sono studenti di Bir Zeit e testimoniano con molto calore una inequivoca sensazione di emergenza, la voglia di uscire dalla gabbia dei quattro anni e mezzo di Intifada che li ha impoveriti, resi vittime o aggressori in una guerra senza quartiere, preda di un destino in cui gli israeliani sono per loro solo soldati fonte quotidiana di morte e di oppressione. Una insegnante di 25 anni, Maha, spiega il suo volontariato: «Cerco lavoro da un anno e mezzo. Sto qua adesso perché voglio un futuro, un domani...». Rania Adwan, laureata in sociologia e con lei lo studente di economia dell’università di Bir Zeit, Hassam Shreteh, e Abdallah, sempre di Bir Zeit, dicono quello che pochi osano: «Non è buona la violenza, punto e basta. Comunque Abu Mazen è la nostra via per comporre lo scontro. Fermare il terrorismo? Alt! Quale terrorismo? Ah, la violenza. Ok. Sì, fermare la violenza. Non lo vede che hanno già smesso? Ok, i Qassam, d’accordo. Smetteranno. La cosa più importante è fare la pace con gli israeliani.. La persona più adatta, l’unico è Abu Mazen». No smoking qui, dice una ragazza col velo al giovane Mohammad che ha messo su il sito web di Abu Mazen e che ce lo mostra fra sbuffi da locomotiva.
Nella sala accanto Tayyeb Abd el-Rahim, grande capo storico, ministro, ci offre il tè e qualche risposta; intanto, entrano e escono i Tanzim provenienti da ogni parte dell’Autonomia, Abd el-Rahim li benedice, abbraccia Abu Sukkar, da poco fuori del carcere, il più vecchio di quelli che i palestinesi chiamano prigionieri politici e gli israeliani terroristi. E’ decisamente sul versante della modernità: «Ci siederemo al tavolo delle trattative con la mente aperta. Altrettanto dovranno fare loro: risolveremo il problema del diritto al ritorno secondo la Risoluzione 194 e l’idea che devono esistere due Stati (come dire: l’arrangiamento non imporrà un’alluvione di profughi che distrugga Israele con la demografia, ndr). Gerusalemme è fuori discussione, e anche i confini del ‘67. Quanto al terrorismo, più del 50% del nostro popolo è contro, noi realizzeremo il volere del popolo. Per noi quello che lei chiama terrorismo non ha radici in scontri etnici o religiosi o nell’ideologia, come per l’Iraq, o Bin Laden. I palestinesi sono sempre stati il più avanzato popolo mediorentale, il più colto e civile, non c’è qui ideologia del terrorismo».
Abd el-Rahim fa uno sforzo rivoluzionario rispetto al puro e semplice «qui non c’è terrorismo ma combattenti per la libertà a causa degli israeliani»: propone una legittimità palestinese, ci pare, per un prossimo rifiuto del terrorismo. Si vede che il gruppo dirigente ci sta pensando. Ma, gli diciamo, se la lotta al terrore non diventa un tema esplicito di Abu Mazen distruggerà ogni trattativa. Abd el-Rahim preferisce reiterare: «Noi costruiremo la prima democrazia laica araba, i nostri vicini ci guardano con vera preoccupazione». Peccato che invece la violenza sia difficile da smontare, che la tv palestinese di nuovo una settimana fa abbia mandato in onda un sermone che per bocca del leader religioso Hassan Kater incitava a uccidere gli ebrei dovunque si trovino e minacciava gli Usa: «Se sposterete l’ambasciata a Gerusalemme questa sarà l’ultimo chiodo nella vostra bara». La radice del terrorismo è profonda e ideologica, difficile da sradicare, connessa a cinque anni di «shahidismo», culto del martirio, che viene ribadito anche nei discorsi di Abu Mazen.
E tuttavia, una chiave per smontarlo c’è dall’altro lato dell’arcobaleno, e ce la forniscono un episodio e un colloquio con il capo della campagna elettorale, dottor Muhammed Shteyad, economista, un quarantenne molto brillante. Nel suo studio entrano sei giovani di Jenin, di quelli che hanno organizzato le manifestazioni nell’area, in cui Zakariya Zubeidi, super ricercato e capo locale dei «Martiri di Al Aqsa», ha portato Abu Mazen sulle spalle nella città più dura della Cisgiordania, e gli ha messo in mano il sostegno delle Brigate. Devono essere risarciti di tutte le spese sostenute per il ricevimento, hanno un diretto, deciso ma rispettoso colloquio con il dottor Shteyad, il quale li complimenta per la riuscita delle iniziative e li dirige all’amministrazione. I giovani sono quasi ragazzi, Tanzim di Al Fatah confinanti con la clandestinità, cresciuti fra le armi, poveri, molto fieri, stremati dalla lunga rivoluzione sanguinosa, le scarpe consunte, i modi di chi sta fuori da un consesso sociale tipico da tempo, ma che sembrerebbe desideroso di un po’ di bene dalla vita. «Come li convincete a sostenere Abu Mazen? E come convincete Zubeidi, e quelli ricercati come lui, che il candidato più morbido è la sua migliore carta? Cosa ha promesso Abu Mazen a gente che sa solo la guerra?». Muhammed Shteyad ride e stringe gli occhi chiari: «Gli ha promesso la vita, la vita! Lavoro, famiglia, tornare allo scoperto! Non dover temere le eliminazioni israliane ogni momento, o la prigione! E ha promesso alle famiglie di seimila prigionieri di riavere i loro cari. Questa è una società chiusa in prigione, perseguitata dalla morte imminente. Lo Stato, la pace, la riforma, la democrazia: per noi... per loro, la vita stessa». E’ bello crederci nel tramonto di Ramallah, costruita in pietra di Gerusalemme.
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Stampa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.

lettere@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT