Salvare la zona produttiva di Gaza converrebbe a Israele e all'Anp Giulio Meotti intervista Vittorio Dan Segre
Testata: Il Foglio Data: 16 dicembre 2004 Pagina: 1 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Di ritorno da Gaza, Segre suggerisce all'Europa un modo per rendersi utile»
In prima pagina IL FOGLIO di giovedì 16-12-04 pubblica un'intervista di Giulio Meotti a Vittorio Dan Segre, sul ritiro da Gaza e sul "tesoro degli insediamenti". Ecco l'articolo: Roma. Alcuni coloni degli insediamenti del nord della Striscia di Gaza hanno già chiesto una nuova sistemazione che preservi la natura delle loro comunità. Un gruppo di ottanta famiglie, provenienti da Dekelim e Nisanit, sta trattando l’acquisto di nuove case. Altre sono in trattativa per un nuovo kibbutz al confine libanese. Da Gaza è appena rientrato Vittorio Dan Segre, direttore dell’Istituto di studi mediterranei e già docente al Mit di Boston e all’Università di Stanford. Non si fa illusioni sul nuovo governo Sharon: "Likud e laburisti sono troppo diversi. Sharon punta alle elezioni, che faranno slittare l’evacuazione. Ha bisogno di 20 mila soldati, ma 3 mila riservisti hanno già detto di no". L’attacco di domenica a Rafah, costato la vita a cinque soldati israeliani, assume un triplice significato: "I terroristi informano Israele della capacità di portargli la guerra sul territorio dopo l’evacuazione e di trasformarla in una sconfitta, come quella del Libano. Era diretto all’Egitto, che si è impegnato a mettere fine al contrabbando di armi. Ma soprattutto ad Abu Mazen: Hamas non deporrà le armi. Lo ha ribadito anche ieri dopo che il leader dell’Olp, in un’intervista a un giornale londinese in lingua araba, ha dichiarato che la lotta armata era stata un errore e doveva cessare". Segre è tornato basito da Gush Katif, il blocco di insediamenti della Striscia di Gaza dai nomi bellissimi, tipo "Giardino di luce" e "Villaggio del mare". In mancanza di un nuovo accordo diplomatico, Segre giudica più che realistico immaginare che Gaza, da attuale bacino di violenza, possa trasformarsi in punto di collaborazione, sfruttando gli enormi interessi economici, tanto per i palestinesi quanto per i coloni israeliani. La colonizzazione viene presentata come un’occupazione di terra strappata a una Palestina superpopolata. "Ideologicamente è un’immagine corretta, in pratica non lo è". Su 365 chilometri quadrati della Striscia di Gaza, gli israeliani ne occupano quaranta, interamente dune e sabbia, anche se è vero che da sotto vengono estratte quantità di acqua di cui la popolazione di Gaza avrebbe bisogno. I 7.500 coloni abitano ventuno agglomerazioni formate da qualche decina di case e rappresentano in tutto 1.500 famiglie. In questo numero, tolti gli impiegati dei servizi e della sicurezza, ci sono soltanto 600 agricoltori che gestiscono 400 fattorie di tipo molto particolare. "Si dividono 2.000- 3.000 ettari di sabbia coperti di serre in cui vengono coltivati prodotti interamente idrofoni, senza terra, concentrati umidi di sostanze nutritive che producono tre tipi di piante e verdure destinate per il 90 per cento al mercato europeo: gerani, piante ornamentali e prodotti ortofruttiferi senza concimazione organica". Con la fine delle attività agricole di Gaza, subirebbe un colpo anche il mondo kosher americano. E’ lì che si producono le verdure senza vermi, necessarie perché un ebreo osservante possa mangiarle. E’ un tipo di produzione agricolo-industriale sofisticata, computerizzata, unica al mondo, copre l’11 per cento delle esportazioni ortofrutticole d’Israele, per un valore complessivo di centinaia di milioni di euro. Nonostante le tensioni e gli attacchi quotidiani, 3.500 palestinesi lavorano ogni giorno in queste serre, oltre a 500 thailandesi. "La colonizzazione di Gush Katif dà oggi sostentamento a decine di migliaia di persone che, in caso di pace, potrebbero triplicarsi. Ma solo a condizione che si possa trovare il modo di garantire la continuità di quest’attività israeliana. La sua cessazione, conseguenza inevitabile dell’evacuazione forzata, comporterebbe una colossale perdita umana ed economica". Tanto i palestinesi quanto i contadini israeliani, secondo Segre, non hanno alcun interesse a vedere distrutti investimenti di milioni di dollari da loro fatti in venticinque anni, e che se mantenuti in loco darebbero a Gaza palestinese milioni di dollari in esportazioni e in tasse. "La questione è come avere la botte piena e la moglie ubriaca, come poter mantenere una presenza israeliana in un ambiente di totale violenza. Nessuna soluzione è facile. Ci si potrebbe però domandare se l’estensione della sovranità palestinese su questi 3.000 ettari di sabbia, più o meno quanto una grande fattoria piemontese, non possa accompagnarsi alla continuazione di una presenza lavorativa israeliana, garantita in termini di sicurezza, tanto dall’Autorità palestinese, quanto da accordi internazionali, per un periodo di dieci-quindici anni necessari a questa popolazione di contadini israeliani, di 45-50 anni di età, di esaurirsi o trasferirsi altrove. Oppure decidere di restare sul posto e di trasformarsi in uno dei motori dello sviluppo futuro della zona di Gaza". "Sarebbe, come è stato il caso degli europei nel Sud Africa e contrariamente a quello delle disastrose espropriazioni di terre nello Zimbabwe, un trionfo del buon senso sulla follia. Ma anche un’occasione per l’Europa di elaborare un piano, economicamente non dispendioso e politicamente originale e simbolico, di presenza attiva e costruttiva nel medio oriente". Le tre colonie all’estremo nord della Striscia di Gaza hanno già chiesto di trasferirsi altrove, mentre le tre al centro sono solo dei campi trincerati. Le altre 17 non rappresentano una copia di Yamit, la città costruita e poi distrutta dopo l’evacuazione del Sinai. Della "perla del deserto", come veniva chiamata Yamit, della sua rete stradale, idrica, elettrica e petrolifera realizzata dagli israeliani con un investimento pari al debito con l’estero dello Stato ebraico, non rimase altro che un cumulo di detriti e arbusti bruciati. La speranza di Segre è che l’esperimento agricolo di Gaza non faccia la stessa fine. "A Yamit non c’era agricoltura ultramoderna, ma solo turismo e ricerca di qualità di vita. Qui c’è un’attività agricola impressionante e un turismo che non funziona. L’unico albergo è stato chiuso". A domanda perché i palestinesi non possano colmare il vuoto degli israeliani, Segre risponde che "non è che i palestinesi non siano capaci di lavorare altrettanto bene. Ma Gush Katif rappresenta un sistema integrato di alta tecnologia, metodi di controllo dell’umidità della terra, della salinazione e delle vasche idrofone estremamente preciso. E’ un sistema di produzione misto cooperativo e privato, accordi di mercato e informazione dei bisogni degli importatori estremamente diversificato. Basti pensare che vengono seminati ogni mese 5.000 tipi differenti di piante con una programmazione che quest’anno prevede già le semine per il 2006. Se passa nelle mani di burocrati palestinesi o di proprietari privi di esperienza di un sistema così articolato, rischia di andare in rovina in pochissimo tempo, ammesso che queste infrastrutture, cosa molto improbabile, vengano conservate intatte e che si trovi chi sia disposto a comprarle. Dove sono poi i geniali contadini arabi computerizzati che possono mandare avanti queste strutture? Possono fare come in Russia, darle a degli impiegati, ma due giorni dopo non c’è più l’acqua". Altrettanto improbabile è il ricollocamento delle strutture, perché non ci sono zone dello stesso tipo, con venti, mare e sabbia. L’unica alternativa sarebbe la valle della Arava nel Negev, ma è estremamente diversificato. Basti pensare che vengono seminati ogni mese 5.000 tipi differenti di piante con una programmazione che quest’anno prevede già le semine per il 2006. Se passa nelle mani di burocrati palestinesi o di proprietari privi di esperienza di un sistema così articolato, rischia di andare in rovina in pochissimo tempo, ammesso che queste infrastrutture, cosa molto improbabile, vengano conservate intatte e che si trovi chi sia disposto a comprarle. Dove sono poi i geniali contadini arabi computerizzati che possono mandare avanti queste strutture? Possono fare come in Russia, darle a degli impiegati, ma due giorni dopo non c’è più l’acqua". Altrettanto improbabile è il ricollocamento delle strutture, perché non ci sono zone dello stesso tipo, con venti, mare e sabbia. L’unica alternativa sarebbe la valle della Arava nel Negev, ma è già completamente coperta da coltivazioni. "Sarebbe un’occasione per rompere le catene dell’odio del passato con strumenti che, considerando gli interessi economici individuali di tutti, potrebbe diventare un modello per il futuro. Dopo tutto 3.000 ettari di serra e 600 famiglie di contadini interessati a non veder distrutta l’opera della loro vita non sono numeri intrattabili, ma esseri umani per i quali l’evacuazione imposta dalla politica è un trauma. Dopo aver visitato la zona e parlato sia con i lavoratori palestinesi sia con i contadini israeliani, mi sembra che varrebbe la pena cercare soluzioni alternative basate sullo sfruttamento dell’interesse economico di gente divisa dalla paura e dall’ideologia, ma accomunata dallo stesso impegno redditizio nella terra su cui lavorano". Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.