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La Stampa Rassegna Stampa
13.12.2004 Quattro israeliani uccisi in un attentato a Rafah
l'analisi di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 13 dicembre 2004
Pagina: 9
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «E' "campagna elettorale", ma c'è ancora speranza»
A pagina 9 LA STAMPA di lunedì 13-12-04 pubblica un articolo di Fiamma Nirenstein sull'attentato al valico di Rafah, che di seguito riportiamo:
E’ stata una sequenza spaventosa, lo squarciarsi improvviso di un periodo di relativa calma. Hamas e una parte del Fatah hanno detto ieri a Abu Mazen che la campagna elettorale è appena cominciata, che lui non è Arafat e che per conquistarsi consensi e hudna (una tregua fra tutti i gruppi combattenti che consenta l’interruzione degli attentati) ci vuol altro che un giro di consensi nel mondo arabo e alcune pacche sulle spalle da parte di Europa, Stati Uniti e Israele.
Non che l’attentato al passaggio di Refah fosse stato programmato per comunicare al mondo che la carta Abu Mazen è incerta e a lui che deve dare più garanzie ai gruppi armati se vuole ottenere qualcosa. E’ vero che la sua politica viene dipinta come troppo cedevole dopo quattro anni dell’Intifada degli attentati terroristi. E quindi il progetto intrapreso da tempo non è stato fermato al momento in cui la quiete significherebbe una marcia tranquilla, troppo tranquilla, verso le elezioni del 9 di gennaio, con le nuove possibilità di trattative, di aperture internazionali, di sostegno economico dal mondo intero.
Il prezzo per questi obiettivi il mondo palestinese non è pronto a pagarlo, anche il 52 per cento della popolazione ormai dice di essere contraria all’uso del terrorismo: ma Gaza è sempre infestata di terrorismo e Hamas è la sua anima ideologica più potente. Così Hamas e «i falchi del Fatah» di Gaza hanno mandato avanti un progetto intrapreso quattro mesi fa, una lunghissima galleria di seicento metri, duecento metri al mese, un lavoro molto impegnativo fatto con una larghezza di uomini e di mezzi e con una precisione di intenti tale da far subito pensare anche alla presenza degli hezbollah nella progettazione e nella realizzazione. Gli hezbollah riforniscono Hamas e la parte più dura del Fatah dei missili Kassam, cinque dei quali sono anch’essi, ieri, piovuti sulla zona dell’attacco concentrico. Gli scoppi alla galleria di Refah sono stati due, il più piccolo teso a innescare il secondo, una tonnellata e mezzo di materiale, subito dopo che i soldati al cancello sono saltati per aria, due armati pronti nel buio sono saltati dentro e hanno cominciato a sventagliare di kalashnikov, facendo a loro volta feriti.
Intanto, e questo aumenta lo sfondo ideologico e la forza complessiva degli irriducibili, Marwan Barghuti, prossimo a rinunciare definitivamente alla sua candidatura, faceva sapere le sue condizioni a Abu Mazen, fra cui la prosecuzione della lotta armata. Se esaminiamo l’attacco di ieri, esso corrisponde a una sfida ancora contenibile verso Abu Mazen, non a una sfida mortale e definitiva. Questo lo si capisce dal fatto che Abu Mazen tiene ancora aperta la tratttativa che gli consenta il perseguimento della indispensabile hudna, la condizione prima che gli può consentire di marciare verso l’elezione a presidente senza che si creino fatti irreversibili sul campo, come ad esempio una condizione di rottura essenziale con Israele a causa di attacchi terroristici particolarmente feroci.
Proprio su questo terreno Hamas lo sfida, ma quello di ieri, nel linguaggio di Hamas e del Fatah più belligerante, è in realtà un attacco ritenuto legittimo, dato che si tratta di soldati. Nel caso dei soldati e dei coloni, e non di attacchi all’interno della Linea Verde, la sfida è relativa, non totale: Abu Mazen quindi può ancora giocare, basta che capisca che si tratta di un gioco duro in cui deve cedere parecchio. Non basta che come ieri vada in Kuwait a parlare di possibilità di nuovi accordi, o in Siria, in Libano e in Egitto come ha fatto nei giorni scorsi. E’ qui nei Territori la sua prova fatale, quella contro il terrorismo, se è in grado di affrontarlo. Per ora da Gaza ha ricevuto un attentato alla sua vita e a quella del suo primo alleato Mohammed Dahlan, e ieri una sfida decisa: ma nel primo caso non è stato colpito, nel secondo caso si resta nel codice d’onore che gli consente ancora un margine di manovra. La hudna, gli dicono qui le organizzazioni terroristiche, la si farà se ci converrà dopo le elezioni, quando comincia davvero la lotta per il potere.
L’attentato naturalmente mette in difficoltà anche il tentativo di Sharon di costruire un governo di coalizione con i laburisti e Shas: Shas infatti si potrebbe convincere solo in vista di un partner che possa dare pace in cambio di territorio. Così la vede il rabbino capo di Shas Ovadia Yossef, che di fatto detta la linea al partito degli israeliani ebrei sefarditi. Adesso il partner palestinese impallidisce, difficile farci qualsiasi accordo, l’uscita torna inesorabilmente unilaterale e si riaccendono tutti i fuochi di guerra; le armi nascoste a Gaza devono essere trovate, dice l’esercito, i missili e la dinamite sempre più comunemente prodotti in loco devono essere neutralizzati, i capi devono essere scovati. E così Abu Mazen e il mondo arabo che già si rallegrava si possono aspettare un’altra ondata di violenza, un’altra ondata di attentati tesi ad alzare il prezzo che Abu Mazen deve pagare.
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