Violazioni della libertà religiosa in Arabia Saudita cristiano arrestato e torturato: " in quelle celle ci sono altri che hanno avuto la mia stessa sorte"
Testata: Avvenire Data: 25 novembre 2004 Pagina: 14 Autore: Nirmala Carvalho Titolo: ««Io, cristiano nelle carceri dei sauditi»»
A pagina 14 AVVENIRE del 25-11-04 pubblica un'intervista di Nirmala Carvalho a Brian Savio O'Connor, imprigionato e torturato in Arabia Saudita per "evangelizzazione cristiana". Ecco l'articolo: Per 7 mesi e 7 giorni è stato prigioniero, incatenato e torturato nelle prigioni dell'Arabia Saudita, accusato di «evangelizzazione cristiana». Brian Savio O'Connor, 35 anni, cristiano evangelico del Karnataka, è libero dai primi di novembre, grazie anche a una campagna di opinione promossa in vari Paesi per attirare l'attenzione dell'opinione pubblica sul suo caso. Da Hubli, nel sud del Karnataka, in India, dove vive col fratello e la famiglia, ha accettato di parlare della sua odissea. Il 15 aprile 1998 arriva in Arabia Saudita per lavorare come addetto ai bagagli per la compagnia aerea Saudi Arabian Airlines. Nel tempo libero organizza incontri biblici in privato, con pakistani e arabi. Ha con sé un centinaio di dvd a tema biblico: citazioni, documentari, film su personaggi della Bibbia, oltre a circa 60 videocassette con le prediche del pastore Benny Hinn della Trinità Broadcasting Corporation. Nel suo computer ha anche installato una versione digitale della Bibbia. Il regno saudita proibisce ogni espressione religiosa diversa dall'islam. La polizia religiosa, Muttawah, vigila per eliminare bibbie, rosari, croci. E anche se i reali sauditi permettono pratiche religiose diverse dall'islam almeno in privato, la Muttawah non fa distinzioni. Come è avvenuto il suo arresto? La sera del 25 marzo ricevo una telefonata da uno sconosciuto di nome Joseph. Diceva che era amico di un certo Orlando e voleva incontrarmi per parlare di cristianesimo. Non conoscevo nessun Orlando, perciò mi sono insospettito. Ad ogni modo li ho invitati a venire nella mia stanza, nella casa che la mia ditta, musulmana, mette a disposizione per i suoi impiegati. L'uomo di nome Joseph insiste perché ci incontriamo fuori, in un bar di fronte. Appena uscito di casa, scopro che ci sono tre auto in attesa, occupate da agenti della Muttawah. Avevano perfino i binocoli a raggi infrarossi, ciò significa che ero controllato da tempo. Mi agguantano, mi mettono in una delle auto e m i portano in una moschea, dove mi incatenano i piedi. E in moschea che succede? Uno dei poliziotti, un gigante di due metri, mi prende dalla catena dei piedi e mi mette a testa in giù facendomi oscillare. Per più di un'ora mi colpiscono con pugni, calci, frustate. Fra una tortura e l'altra mi ordinano di firmare una confessione: dovevo ammettere che possedevo cd e dvd biblici e che facevo opera di evangelizzazione. Rispondo che gli incontri religiosi in privato non sono illegali, ma loro insistono che la pratica di ogni fede diversa dall'islam è proibita. Com'era la vita in prigione? Mi sentivo molto debole e spaventato: non sapevo quali altre false accuse potevano montare contro di me, tutte le mie cose erano state confiscate, la mia abitazione perquisita da cima a fondo. Ho vissuto in una cella con altre 17 condannati per omicidio, commercio di droga e altri crimini pesanti. La sezione dove ero confinato ha 14 celle; le guardie vigilavano sui nostri movimenti e le nostre conversazioni. E come se non bastasse, telecamere dovunque. Le permettevano di pregare? All'inizio, ogni volta che cercavo di farlo, i miei compagni di cella mi interrompevano. Dopo un mese sono divenuto amico di alcuni di loro e loro stessi hanno chiesto ai carcerieri di darmi il permesso di pregare. Potevo farlo solo fuori dell'orario della preghiera islamica. Quando tutta la prigione si fermava per la preghiera musulmana 5 volte al giorno, ero obbligato a stare in silenzio e immobile. Come definirebbe la sua vita in carcere? Come una «benedizione paradossale»: mi sento un privilegiato per aver sofferto a causa di Gesù. Oltretutto, la mia presenza in prigione ha portato almeno 21 persone a conoscere Cristo. Grazie a questa avventura la mia fede è cresciuta. Il Signore mi ha confermato nella missione e nella predicazione. Il 15 settembre 2004 O'Connor è portato in tribunale, accusato di vendita di alcolici, uso di droga, possesso di material e pornografico e diffusione del cristianesimo. Secondo la legge saudita rischia almeno l'ergastolo. Il giudice separa le accuse di evangelizzazione dalle altre: per le prime sarà giudicato da una Corte Superiore; per le altre si giudica al momento e si chiamano come testimoni i poliziotti islamici. Intanto in vari Paesi si mette in moto una campagna per la sua liberazione. Il Principe Naif, secondo in ordine d'importanza nella casa reale saudita, manda un ordine scritto alla corte per chiudere il caso e far cadere tutte le accuse. Ma il 20 ottobre la corte si riunisce per giudicare O'Connor solo per l'accusa di vendita di alcol. Come hanno fatto ad accusarla di vendita di alcol? Il pubblico ministero afferma che un uomo inviato dalla Muttawah dice di aver comprato dell'alcol da me e di avere pagato con una banconota segnata. La polizia islamica sostiene di averla trovato addosso a me. Secondo l'accusa avrei venduto 10 bottiglie da un litro di alcolici. Ho chiesto di presentare il mio caso alla Corte d'appello e di verificare se sulle bottiglie e sulle banconote c'erano le mie impronte digitali. Mi hanno risposto che in Arabia Saudita non hanno questi sistemi di controllo. Lei è stato condannato a 10 mesi di prigione e 300 frustate. Cosa è successo poi? Avevo già passato 7 mesi in prigione; me ne restavano ancora 3. Quanto alle frustate, grazie a Dio non lo hanno fatto. Ma è curioso che, nonostante l'ordine del principe Naif, restavo ancora in prigione: sembra che non vi sia coordinamento fra la Muttawa e la casa reale. Ad ogni modo, una notte vengono a prendermi e mi conducono all'aeroporto, caricandomi su un volo per Mumbai, dove sono stato accolto dai miei fratelli di fede. Ho poi saputo che dopo avermi espulso la corte mi ha convocato di nuovo il 6 novembre scorso. E così sono ancora atteso in Arabia per la conclusione del processo… Come forse sa, varie organizzazioni religiose e laiche hanno lanciato una campagna internazionale p er ottenere la sua liberazione…. Sono grato a tutti quelli che si sono mobilitati, facendo conoscere la mia vicenda e inviando cartoline e lettere a valanga da varie parti del mondo. Ma voglio anche lasciare un compito a loro e a chi combatte per la libertà: nelle prigioni saudite ci sono ancora molti altri 'O Connor che hanno bisogno del vostro aiuto. Non dimenticateli. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione di Avvenire. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.