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Europa Rassegna Stampa
16.11.2004 Un gruppo terroristico diventa una giovane milizia
anche se sembrava impossibile trovare nuovi eufemismi, il quotidiano della Margherita ci è riuscito

Testata: Europa
Data: 16 novembre 2004
Pagina: 5
Autore: Filippo Cicognani - Stella Prudente
Titolo: «Incidente o agguato? Dopo la sparatoria di domenica più dura la strada verso il voto per i moderati - Abu Mazen garantirà il dopo-Arafat»
Oltre agli usuali eufemismi per "terroristi" e "gruppo terroristico", l'articolo di Filippo Cicognani "Incidente o agguato? Dopo la sparatoria di domenica più dura la strada verso il voto per i moderati ", pubblicato da EUROPA di oggi, 16-11-04, presenta una notevole novità, "giovane milizia", che segnaliamo ai nostri lettori per l'originalità.
Cicognani accusa Israele di aver sempre voluto la guerra civile tra i palestinesi. Supposizione smentita dai fatti: Israele non ha mai smesso, e non smette tuttora, di cercare un interlocutore in campo palestinese.
Ecco l'articolo:

Non è stata una sparatoria come tante quella di domenica, in una tenda nella striscia di Gaza, dove era in corso una cerimonia di commemorazione per Yasser Arafat, ma un vero e proprio tentativo di togliere di mezzo la leadership moderata palestinese in vista delle elezioni, fissate per il 9 gennaio prossimo. Mahmoud Abbas, meglio conosciuto come Abu Mazen, attuale numero uno dell’Olp e quasi certamente candidato alla presidenza dell’Anp, e Mohammed Dahlan, ex ministro della sicurezza palestinese, entrambi esponenti dell’ala moderata ed entrambi visti di buon occhio da Stati Uniti e Israele, dall’altro ieri sono entrati ufficialmente nel mirino dei gruppi armati palestinesi.
Già da tempo il percorso politico li accomuna: Abu Mazen, nominato primo ministro da un Arafat per niente convinto, se ne andò dopo quattro mesi, non riuscendo a fare alcun progresso nel complesso cammino delle attese riforme, Mohammed Dahlan lasciò la carica di ministro dell’interno incapace di muoversi nell’intricato dedalo degli apparati di sicurezza.
Nonostante i tentativi per ridimensionare l’accaduto, i colpi sparati domenica erano diretti a loro, anche se la dinamica resta abbastanza nebulosa.
Quello che si sa è che un gruppo di uomini armati appartenenti, sembra, alle brigate Martiri di Al Aqsa, ribattezzate brigate Abu Ammar dopo la morte del rais, forse guidate da Moussa Arafat, cugino del defunto leader, ha superato agevolmente i controlli di sicurezza poi si è fatto strada tra la folla sparando in aria, niente di strano in occasione di forti emozioni, sennonché dopo i primi colpi in aria i successivi sono stati sparati ad altezza d’uomo: due guardie del corpo uccise, altre cinque ferite, Abu Mazen e Mohammed Dahlan illesi.
«Sono agenti degli americani», hanno urlato gli attentatori. Un’accusa precisa motivata dai ripetuti tentativi di entrambi di negoziare con gli Stati Uniti, notoriamente invisi ai gruppi più radicali per il sostegno, di ieri e di oggi, a Israele. Insomma è proprio nel loro passato di negoziatori che va ricercata l’origine dell’attentato, tanto plateale nell’esecuzione quanto estremamente preoccupante per il futuro.
Abu Mazen è stato uno dei principali negoziatori degli accordi di Oslo del ’93 e un convinto sostenitore del processo di pace con Israele. È stato più volte negli Stati Uniti, poi, dopo le divergenze con Arafat è rimasto ai margini della vita politica, per riemergere con la scomparsa del rais. Mohammed Dahlan è stato l’unico palestinese ad essere ricevuto privatamente dall’ex presidente Bill Clinton, ha fatto parte della delegazione palestinese in occasione dei falliti accordi di Camp David, dichiarandosi ripetutamente e pubblicamente favorevole alla pace con Israele. Quanto basta per cucirgli addosso l’etichetta di "agente americano", soprattutto da Hamas che disconosce gli accordi e rifiuta di deporre le armi. Gaza è la sua roccaforte, ma ultimamente la sua posizione si è notevolmente indebolita: Moussa Arafat, anch’egli con un certo seguito a Gaza, ha un conto aperto con Dahlan, che lo ha più volte accusato di corruzione e indicato come il responsabile dei disordini nella striscia.
Ieri Dahlan ha voluto ridimesionare l’accaduto affibbiandone la responsabilità a non meglio identificati mercenari. Ma l’attentato è comunque un preciso campanello d’allarme: il futuro della Palestina potrebbe ulteriormente sgretolarsi in una guerra per bande. Forse, quello che ha sempre auspicato Israele, che a suo tempo, complici gli Stati Uniti, sponsorizzò l’integralismo islamico per minare il laico, e allora filosovietico, Fronte per la liberazione della Palestina. Le prime ripercussioni politiche si sono viste poche ore dopo l’attentato: Abu Mazen, che aveva detto di volere intavolare colloqui con le diverse fazioni rivali di Fatah e con i gruppi armati di Jihad e Hamas per convincerli a fermare gli attacchi contro Israele, ha smentito che la sua candidatura alla presidenza dell’Anp, da parte di Fatah, fosse ormai ufficiale: «È ancora in discussione», ha detto. Chi lo voleva morto ha vinto la prima ripresa.
Non sarà facile arrivare al 9 gennaio senza traumi: la striscia di Gaza è una polveriera che potrebbe esplodere da un momento all’altro, con onde d’urto che si ripercuoterebbero in tutta la Cisgiordania.
Sarebbe il capolinea della speranza, visto che Israele sembra intenzionato a cambiare radicalmente strategia politica: il ministro degli esteri Silvan Shalom ha infatti annunciato la disponibilità del suo governo ad aprire negoziati con i palestinesi per il ritiro dalla striscia di Gaza, se la nuova leadership dell’Anp prenderà serie iniziative per bloccare i gruppi armati.
Sono otto anni che i palestinesi non vanno alle urne: nel gennaio del ’96 elessero Arafat alla presidenza dell’Anp e gli 88 membri del Consiglio legislativo palestinese (l’assemblea parlamentare). Stavolta la consultazione riguarderà solo la presidenza.
Resta invece incerta la prima fase delle elezioni, quelle amministrative, previste inizialmente per la fine di dicembre. I consigli comunali e distrettuali non vengono rinnovati dal ’78, quando Israele autorizzò la formazione di giunte, poi sciolte dall’esercito perché formate soprattutto da esponenti dell’Olp, allora illegale. Ora tutti i territori sono stati rioccupati con la seconda intifada e non sarà facile votare in condizioni così precarie, ammesso che al voto si arrivi. Oggi se si andasse alle urne, Marwan Barghouti, fondatore dei "Tanzim", la giovane milizia di Fatah, ora in un carcere israeliano condannato a cinque ergastoli, farebbe il pieno dei consensi: è il leader della nuova generazione cresciuta nei territori, mentre la vecchia guardia dei "tunisini" ha un seguito molto ridotto: Abu Mazen non raggiunge il 3%. Ma quasi certamente Barghouti non si candiderà, anche se corrono voci secondo cui il governo israeliano potrebbe negoziare uno scambio con altri prigionieri eccellenti.
In questo clima incandescente, anche se la leadership palestinese cerca di smorzarne la pericolosità, arriva l’ormai ex-segretario di stato americano Colin Powell, la sua visita nei territori è prevista per il 23 novembre. Anche il ministro degli esteri britannico Jack Straw, ha preannunciato una visita. La diplomazia internazionale, dunque, si muove: speriamo che la fanatica intransigenza del fronte del rifiuto consenta di riannodare i fili del dialogo.
In «Abu Mazen garantirà il dopo-Arafat» Stella Prudente intervista Intisar Al-Wazir, soprannominata Um Jihad. La carriera terroristica di suo marito Abu Jihad non viene menzionata e le sue accuse ad Israele, ritenuta responsabile della mancata soluzione del conflitto, non vengono criticate, come pure le sue affermazioni su una tregua da parte di Hamas che in realtà non è mai stata dichiarata né attuata.
Ecco l'articolo:

La chiamano Um Jihad, "madre della lotta". Intisar Al-Wazir è la vedova del celebre braccio destro di Arafat, Khalil Al Wazir (Abu Jihad), ucciso dagli israeliani nel 1988. Nel 1959, è stata la prima donna a entrare nel Fatah, oggi è ministro degli affari sociali nel governo guidato da Abu Ala. Gli ultimi fatti di violenza nei Territori non la preoccupano: «Nessuno vuole la morte del nuovo leader dell’Olp, Abu Mazen – dice Wazir – la sparatoria di domenica nel quartier generale dell'Anp di Gaza è stata soltanto una manifestazione estrema, un modo per piangere Yasser Arafat. Si è trattato di un incidente».
Attentato o meno, gli spari di Gaza, con due morti e quattro feriti, sono stati letti come il primo, vero atto politico del dopo Arafat. La battaglia per la successione è più viva che mai. E gli avversari di Abu Mazen parlano chiaro, a cominciare dal nuovo leader di Fatah, il "tunisino" Farouk Kaddoumi, che ha sempre vissuto all’estero per sottolineare la sua opposizione agli accordi di Oslo e l’Anp, ma annuncia di essere pronto a scendere a Gaza, quando dalla Striscia saranno usciti gli israeliani. Poi ci sono i gruppi armati, come i Tanzim e le Brigate Al Aqsa, che si sono ribattezzate con il nome del defunto, "Brigate dei Martiri di Abu Ammar".
«La pace è un dovere di tutte fazioni, tutti noi vogliamo arrivare alla pace – assicura Um Jihad. – Durante il breve governo di Abu Mazen, nel 2003, eravamo riusciti a ottenere una tregua. Anche oggi sono convinta che i gruppi siano pronti a negoziare, ma ciò non sarà possibile se Israele non interromperà le sue aggressioni contro il popolo palestinese.
Fino a quando gli israeliani continueranno a bombardare i nostri villaggi, distruggere le nostre case e uccidere i nostri bambini, non ci sarà pace nella nostra terra.
La nostra lotta per l’indipendenza continuerà con ogni mezzo».
Il parlamento israeliano ha approvato nei giorni scorsi il piano di ritiro da Gaza, fortemente voluto dal premier Ariel Sharon. Lei ritiene che l’evacuazione degli insediamenti ebraici nella Striscia possa contribuire?
Il nostro obiettivo è la creazione di uno stato palestinese indipendente, nei confini del 1967. Il piano di Sharon non può sostituire la road map per la pace, promossa dalla comunità internazionale. La road map prevede il riconoscimento di una Palestina libera nel 2005, il nostro auspicio è che la nuova leadership palestinese sia in grado di riprendere il tavolo dei negoziati per il raggiungimento di questo scopo. Anche l’Onu e le diplomazie straniere devono agire con più fermezza, fare pressioni sugli israeliani perché mettano fine all’aggressione.
Al termine di un incontro con l’alleato Tony Blair, venerdì scorso a Washington, George W. Bush ha espresso la convinzione che uno stato palestinese ci sarà, almeno entro la fine del suo nuovo mandato alla Casa Bianca, che scade fra quattro anni.
Non vorrei che il presidente americano prendesse tempo soltanto perché da parte della sua amministrazione, negli ultimi mesi, non c’è stato un impegno concreto per raggiungere l’obiettivo entro il 2005, come inizialmente stabilito dallo stesso Bush. Washington deve assumersi le sue responsabilità, come tutti noi. Dobbiamo lavorare perché i nostri figli e i nostri nipoti vivano in pace e dignità.
Suo marito, Abu Jihad, è considerato uno degli uomini-simbolo della causa palestinese, la sola figura accostabile, in questo senso, a quella di Arafat.
Ritiene che esista un personaggio in grado di raccogliere la loro eredità, alla guida dell’Anp?
Il comitato centrale del Fatah ha già scelto Abu Mazen come candidato unico alle elezioni presidenziali previste a gennaio. Abu Mazen è il nuovo leader dell’Olp, struttura centrale dell’Anp. È lui il leader più rappresentativo, quello che ha ottenuto più voti all’interno dei principali organismi palestinesi.
Mi sembra che l’ex premier sia l’unico in grado di mettere d’accordo le fazioni, a tempo debito.
Ma le masse di Fatah hanno già detto che tiferanno per Marwan Barghouti – nonostante la sua condanna all’ergastolo in Israele – insieme ai Tanzim, le milizie del partito. Anche Hamas e le Brigate Abu Ammar non sembrano convinte da un moderato come Abu Mazen. Cosa ne pensa?
La prima tappa, fondamentale, è quella di organizzare elezioni giuste e libere, con l’aiuto della comunità internazionale. Se saremo in grado di farlo, a quel punto chiunque potrà candidarsi. Sarà un processo democratico, in cui tutte le fazioni sono invitate a partecipare.
Personalmente, spero che si presentino anche le donne, come è successo nel 1996 con Samiha Khalil, che ha sfidato Arafat. Se intendo candidarmi? Io no, sono troppo vecchia, lascio spazio alle nuove leve, le donne che oggi danno vita al nostro futuro, la nostra speranza.
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