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Il Mattino Rassegna Stampa
15.11.2004 Se i palestinesi si fanno la guerra la colpa è di Israele
ecco una "critica equilibrata" del quotidiano napoletano

Testata: Il Mattino
Data: 15 novembre 2004
Pagina: 5
Autore: Francesco Romanetti
Titolo: «Gaza, volevano uccidere Abu Mazen - Ma Barghouti non è in corsa»
Cronaca dell'attentato ad Abu Mazen. La colpa viene incredibilmente data a Israele, ritenuta responsabile anche dei conflitti interni al campo palestinese. Israele viene anche criticato per la pretesa che "la lotta armata sia abolita per decreto", ovvero che si ponga fine al terrorismo.
Per Franceso Romanetti, autore dell'articolo, evidentemente, Israele non ha alcun diritto alla sicurezza "finchè dura l'occupazione" e le stragi di civili fanno parte di un qualche "diritto alla resistenza".
Ecco l'articolo, "Gaza, volevano uccidere Abu Mazen" :

Ore 13 a Ramallah, Cisgiordania. Il comitato centrale di Al Fatah, principale organizzazione palestinese, scioglie ogni dubbio. Il candidato per la successione ad Arafat alla carica di presidente è Abu Mazen, attuale capo dell'Olp, considerato un moderato. Ore 18,30 a Gaza. Una trentina di uomini armati irrompe nella grande tenda allestita in quello che fu negli anni 90 il quartier generale del leader scomparso, dove si trova anche Abu Mazen, e fanno fuoco. Prima in aria. Poi, quando le guardie del corpo di Abu Mazen rispondono a raffiche di mitra, gli assalitori abbassano il tiro. Alla fine si contano due morti e cinque feriti. Abu Mazen è illeso.
Forse voleva essere solo un avvertimento al principale candidato alla successione di Arafat. Forse molto di più: un attentato per eliminarlo. Le versioni discordano. I dirigenti palestinesi (compreso Abu Mazen, apparso in tv) tendono a ridimensionare. Quel che è certo è che dopo Arafat, lungo la strada della difficile transizione, scorre già il sangue. Per la Palestina che tenta di edificare il suo futuro, quello che era cominciato all'insegna dell'ottimismo, si è tramutato in un giorno nero. Abu Mazen era arrivato a Gaza con in tasca un'investitura che era poco meno della certezza matematica della sua elezione il 9 gennaio prossimo. La data del voto era stata fissata ufficialmente proprio ieri mattina, con l'intenzione di indicare la volontà di bruciare le tappe ed evitare pericolosi vuoti di potere. Semmai era Israele a cominciare a mettere i bastoni tra le ruote, con la dichiarazione del ministro degli Esteri Sylvan Shalom (solo parzialmente corretta dal premier Sharon) che si era detto contrario a consentire il voto ai palestinesi residenti a Gerusalemme Est. Ma i conti non tornano neanche in casa propria. Come risulta drammaticamente evidente a Gaza, alle sei e mezzo del pomeriggio. Abu Mazen entra nella tenda bianca dove si rende omaggio alla memoria di Arafat. Lo accompagna Mohammed Dahlan, influente esponente di Al Fatah a Gaza, ex ministro della Sicurezza palestinese. Dahlan è malvisto da molti. Considerato anche lui un moderato. Troppo, secondo chi gli rimprovera le simpatie di cui gode presso israeliani e americani. Irrompono militanti armati. Lanciano insulti contro gli uomini di Dahlan: «Servi degli americani, traditori». Sparano in aria. Nella tenda è il caos. «Abbiamo intimato a tutti i presenti di andar via», racconterà lo stesso Abu Mazen alla televisione palestinese. Le sue guardie del corpo gli fanno da scudo. Sparano anche loro. In aria. Poi qualcuno abbassa la mira. I morti sono due, uno è una delle guardie di Abu Mazen. I feriti sono cinque. Tra l'ululato delle ambulanze, le grida e gli spari d'avvertimento, mentre gli assalitori si allontanano, Abu Mazen viene precipitosamente portato in salvo nella sede dell'Olp di Gaza. Il primo a negare che si sia trattato di un attentato è proprio Dahlan: «Nessuno voleva uccidere Abu Mazen», dice. Qualcuno, tenta perfino di accreditare l'assenza del candidato presidente al momento della sparatoria. Una versione che crolla in pochi minuti. Lui, Abu Mazen, giunge a dire: «La sparatoria di stasera non ha nessuna dimensione politica o personale. Ci sono state frizioni tra uomini armati che hanno sparato in aria». Ma le «frizioni» di chi spara solo in aria hanno provocato morti e feriti. Il punto è capire chi ha partecipato alla spedizione armata e chi l'ha diretta. Nella più cauta delle ipotesi, si tratterebbe di un regolamento di conti nell'ambito della guerra di potere in atto a Gaza: da una parte Dahlan e i suoi fedelissimi, dall'altra Musa Arafat, capo dell'intelligence militare palestinese e cugino del vecchio leader scomparso. Tra i due è in atto un duro conflitto, in passato degenerato anche in scontri armati. Lo stesso Musa Arafat è sfuggito ad un attentato appena un mese fa. E in molti ritengono che stavolta gli israeliani non c'entrano. Se lo scenario è questo, l'avvertimento ad Abu Mazen sarebbe indiretto: a Gaza non puoi contare sul tuo alleato Dahlan, perché non controlla nulla. L'altra ipotesi è più inquietante, perché getta un'ombra su tutto il processo di transizione del dopo-Arafat. A sparare sarebbero stati i militanti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa, fazione armata di Al Fatah. Alcune sue cellule da tempo sono incontrollabili. Se sono stati loro, l'obiettivo era Abu Mazen. Forse non per ucciderlo. Sicuramente per chiarire che la lotta armata, fino a quando continua l'occupazione israeliana, non si abolisce per decreto. Abu Mazen o meno, Abu Ala o meno. Quanto ad Arafat, pace all'anima sua.
A pagina 2 troviamo un' intervista ad Hafez Barghouti direttore del quotidiano di regime dell'Anp. Un distillato di propaganda purissima. Ovviamente Romanetti si beve e riporta tutto quello che riferisce l'intervistato, senza obiettare nulla: un'intervista in ginocchio.
Marwan Barghouti, mandante di stragi e omicidi, viene definito "prigioniero politico".
Ecco l'articolo: «Ma Barghouti non è in corsa»

Marwan Barghouti non ha mai proposto la sua candidatura alla carica di presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese. So con certezza che negli ultimi dodici giorni le autorità israeliane non hanno consentito a nessuno, neppure al suo avvocato, di fargli visita in carcere». Ad escludere quella che era già stata battezzata «opzione-Mandela», vale a dire la possibilità che nel dopo-Arafat diventasse presidente un prigioniero politico, è Hafez Barghouti (solo omonimo del leader detenuto), esponente dell’Olp e direttore di «Hayat Jadida», organo ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese. «L’equivoco della candidatura - sostiene Hafez Barghouti - è nato dalle interpretazioni errate che le agenzie di stampa internazionali hanno dato delle dichiarazioni di Fadwa, la moglie di Marwan: ma lei ha detto solo che ogni decisione dovrà prenderla Al Fatah. So comunque che Marwan è sotto choc per la morte di Arafat e sta subendo pressioni dai suoi fedelissimi perchè si candidi. Cosa che tuttavia non ha fatto». Condannato da un tribunale israeliano a cinque ergastoli perché ritenuto responsabile di attentati compiuti dalle Brigate dei Martiri di Al Aqsa, Marwan Barghouti è il popolarissimo leader di Al Fatah (principale organizzazione palestinese, fondata da Arafat) in Cisgiordania. Carismatico, amato e rispettato dai giovani dell’Intifada, prima del suo arresto era da molti ritenuto il possibile delfino di Arafat. Candidatura che avrebbe però aperto seri problemi: sia perché sarebbe apparsa una sfida ad Abu Mazen (da ieri candidato ufficiale di Al Fatah), sia perché avrebbe offerto un forte argomento ad Israele, che si sarebbe negata ad ogni trattativa con un leader che ritiene un terrorista. Ma i nuovi scenari non riguardano solo il suo ruolo. Ne parliamo con Hafez Barghouti.
Lei dirige il giornale dell’Anp: può dirci se ci sono state divisioni sulla decisione del primo ministro Abu Ala di annunciare la convocazione delle elezioni?
«È vero, c’è chi è contrario alle elezioni, perché ritiene che in questo momento occorra una leadership unita. Ma il voto è importantissimo per il nostro processo democratico. Le elezioni chiamano allo scoperto Israele e gli Usa, perché fanno cadere l’alibi dell’impossibilità del negoziato con i palestinesi. D’altra parte, chi rema contro le elezioni non sta all’interno dell’Anp. Il governo israeliano già sta ponendo ostacoli, affrettandosi a dire, per poi forse correggersi, che impedirà ai palestinesi di Gerusalemme Est di votare».
Mohamed Dahlan, esponente palestinese di Gaza, ha proposto una nuova "hudna", una tregua. Nel caso in cui Israele la accettasse, lei crede che la leadership provvisoria palestinese sarebbe in grado di farla rispettare?
«Io credo che né Dahlan, né Abu Mazen, né nessun altro abbia questo potere. L’unico che potrebbe farlo è proprio Marwan Barghouti, anche dal carcere, come già fece in passato. Ma Israele non vuole e per questo impedisce ogni contatto con lui. Negli ultimi due anni ci sono state due tregue: tutte e due le volte fu l’intervento decisivo di Marwan a convincere Hamas e la Jihad islamica a deporre le armi. E tutte e due le volte fu Israele a continuare i suoi attacchi e i suoi massacri e a far fallire la tregua».
Ritiene che la road map (il «percorso di pace» naufragato, proposto da Usa-Europa-Russia e Onu) possa essere ancora la base per un negoziato?
«Veramente questa domanda dovrebbe essere rivolta al premier israeliano Sharon. Il suo piano per il ritiro unilaterale da Gaza va contro la road map perché prevede, secondo le parole dello stesso Sharon, il "rafforzamento della presenza ebraica in Cisgiordania". La verità è che i palestinesi non hanno un interlocutore di pace. Fino a oggi Israele e gli Stati Uniti avevano fatto credere il contrario, cioè che era Arafat il responsabile del conflitto: ma è Sharon che non vuole la pace».
Torniamo alle elezioni. Un’incognita potrebbe venire da una forte crescita di Hamas...
«Non lo credo. Hamas è un partito ideologico, di ispirazione religiosa. La sua forza è visibile nelle strade, ma contenuta. Hamas ha un consenso stimabile intorno al 20%, Al Fatah intorno al 25%. Il rimanente 55% è formato da elettori non schierati, ma vicini ad Al Fatah e che amavano e amano ancora Arafat.
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