Israele non rimpiange Arafat, e spera in nuove possibilità di dialogo con i palestinesi l'analisi di Fiamma Nirenstein
Testata: La Stampa Data: 12 novembre 2004 Pagina: 3 Autore: Fiamma Nirenstein Titolo: «Israele non perdona e sta a guardare»
A pagina 3 LA STAMPA di oggi pubblica un articolo di Fiamma Nirenstein sulle reazioni israeliane alla morte di Yasser Arafat e sulla nuova fase che si apre nella storia del conflitto israelo-palestinese. L'articolo, se da un lato descrive il rifiuto degli israeliani ad unirsi al coro di omaggi a un uomo responsabile di stragi e violenze che hanno profondamente ferito il paese, dall'altro riferisce della nuova speranza di un'opportunità politica per la pace, purchè la nuova leadership palestinese accolga la richiesta, che ben difficilmente può essere considerata illegittima, irragionevole o vendicativa, di combattere finalmente il terrorismo. Purtroppo il titolo dato dalla redazione esteri per questa accurata ed equilibrata analisi, "Israele non perdona e sta a guardare" tende a presentare Israele come vendicativo e politicamente immobile. La malizia della scelta risulta particolarmente evidente confrontandola con quella del titolo dell'articolo a fianco, un'intervista di Marina Verna a Said Abu Zuhri, portavoce di Hamas. Quest'ultimo ha modo di dichiarare che gli attentati contro Israele non cesseranno, acusando senza ricevere alcuna replica il governo di Gerusalemme di terrorismo contro la popolazione civile palestinese e di aver avvelenato Arafat. Il titolo dato dalla redazione esteri a queste dichiarazioni di odio e di intenzioni omicide è un asettico: "Non rispetteremo gli accordi di Oslo", con l'occhiello: "Il portavoce di Hamas" Ma non basta.In prima pagina l'articolo di Fiamma Nirenstein è richiamato in un riquadro. In grassetto maiuscolo è scritto "Israele non perdona", in stampatello minuscolo "Il negoziato potrà ripartire solo dopo il no al terrorismo". Il tutto circondato dall'articolo di Igor Man, intitolato "Un riposo senza pace", sovrastato da una vignetta di Forattini in cui si vede Arafat, imprigionato in una specie di fortezza a forma di stella di Davide dire: "Cry for me Palestina" e dalla foto a tutta pagina di una donna palestinese piangente davanti a un ritratto del rais.
Ecco l'articolo: GERUSALEMME Il funerale si avvicina, Sharon ha sentito molte previsioni catastrofiche prima di concedere di celebrarlo a Ramallah, un luogo tanto vicino a Gerusalemme Est: ma la linea del compromesso è quella vincente in Israele. Da quando il Raìss ha esalato l’ultimo respiro, salvo poche eccezioni sia dal governo sia dall’opposizione si sentono parole di speranza per l’apertura di una nuova epoca. E giudizi ispirati al senso di opportunità, se si pensa che Israele deve a Arafat parecchie migliaia di morti e feriti; e che mentre il Raìss è identificato dai suoi con la figura di un eroe e di un profeta, Israele lo vede come l’uomo che ha inventato il più inaspettato tormento per lo Stato degli ebrei che avrebbe dovuto rappresentare la quiete dopo le persecuzioni secolari: il terrorismo. Tutte le dichiarazioni di queste ore, le mezze parole, sono dettate dall’opportunità politica, dalla speranza che sia finita un’era. Un desiderio che viene nutrito quasi in privato, perché si ha paura di bruciare i nuovi leader, di soffocare con un abbraccio sia Abu Mazen sia Abu Ala, che peraltro sono già oggetto dell’attacco della piazza palestinese più radicale che li accusa con slogan urlati di essere pupazzi nelle mani degli israeliani. In realtà, a Gerusalemme ancora non si capisce se ora che «è finita», come titola il giornale popolare Yediot Aharonoth, si sia davvero aperto un nuovo pericolo o un’opportunità. Certo è soltanto che Israele, da quando Arafat è morto, fronteggia una nuova stagione: i suoi ultimi quarant’anni, ovvero quasi l’intera sua vita, sono stati determinati dall’uomo con la kefiah che ha inventato il terrorismo suicida ma ha partecipato al processo di pace di Oslo. Un sogno ipnotico per un Israele assetato di normalità. «La morte di Arafat segna la fine di un’epoca - dice Ehud Barak, l’ex primo ministro che a Camp David e poi a Taba offrì il massimo al Raìss palestinese - la sua leadership ha causato una grande tragedia a noi e al popolo palestinese; il suo scopo non era la pace, ma il terrore e la violenza. E ha avvelenato di odio, e questa è la cosa peggiore, la nuova generazione. Oggi è di nuovo nelle mani dei palestinesi la possibilità di prendere in mano il proprio destino e rinnovare il dialogo con noi». E lui ci crede? «Solo il prossimo futuro ce lo dirà». La sinistra, delusa, è forse la parte più ferita: un uomo dell’estrema sinistra come Raanan Cohen, del Meretz, al suggerimento che forse i pacifisti come lui dovrebbero andare al funerale del Raìss ci risponde: «Io sono un israeliano, un sionista: come potrei andare al funerale di un uomo che ha ucciso tanti ebrei, tanti innocenti, che ci ha odiato così tanto?». Tommy Lapid, ministro laico del partito Shinui, ammette il suo odio con crudo candore: «Certo che l’ho odiato, e come no, per la morte di migliaia di israeliani, per aver ridotto così il mondo palestinese, per il tardimento di ogni patto, per le bugie dette sulla pace, per avere attaccato al mondo intero la malattia del terrorismo, per essere stato così corrotto... Perché dovrei mentire? E tuttavia il mio più grande desiderio resta la tratttativa, che c’entra?». Adesso due sono le questioni più rilevanti: la prima riguarda l’esperimento di ordine pubblico, e quindi di controllo della nuova leadership sulla piazza, durante il funerale. Israele ha messo ai check point (i palestinesi controlleranno Ramallah) e in giro per le strade di Gerusalemme migliaia di poliziotti. Anche i soldati sono in preallarme. Si temono attentati, si teme la folla dell’ultimo venerdì di Ramadan alle moschee. L’altro test riguarda la politicia israeliana: Sharon ha detto ieri, salutando Gianfranco Fini, che la mano verso la trattativa è tesa, che il punto di svolta riguarda il riconoscimento da parte della nuova leadership della necessità di battere il terrorismo. A quel punto verranno riprese le trattative. Quando Sharon dice questo, lancia un messaggio specie al suo interlocutore Shimon Peres, che vorrebbe che si riprendesse a parlare da subito. Dice Peres: «I due personaggi centrali, Abu Ala e Abu Mazen, sono affidabili, sinceri, si sa che ritengono che il terrore non porti da nessuna parte. Quindi è cambiata la situazione. Conosco bene Abu Ala, siamo amici, gli ho telefonato per esprimergli le mie condoglianze. Offrire simpatia per il dolore dei palestinesi è un primo passo verso il dialogo». In termini politici, la posizione di Peres è una comunicazione a Sharon: ora che c’è un partner, invece di uscire unilateralmente da Gaza facciamolo dopo aver parlato. Paradossalmente, questa posizione è condivisa dalla destra, che vuole bloccare Sharon. Netanyahu, nel suo partito, suggerisce il dialogo; i religosi lo suggeriscono a loro volta. Però Sharon pilota come al solito tenendo ferma la sua bussola: funerale a Ramallah, sgombero, e speriamo bene. Ma soprattutto, insiste: per riparlare, dite la parola magica: guerra al terrorismo. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Stampa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.