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Il Foglio Rassegna Stampa
11.11.2004 Poca commozione per Arafat a Ramallah
la sua unica eredità certa sono i tanti, tanti soldi della nomenklatura

Testata: Il Foglio
Data: 11 novembre 2004
Pagina: 2
Autore: Carlo Panella
Titolo: «Alla Moqata non c'è nessuno a piangere Mister Palestine»
A pagina 2 dell'inserto IL FOGLIO pubblica un articolo accurato, informato e controcorrente di Carlo Panella, " Alla Moqata non c'è nessuno a piangere Mister Palestine". Domani i giornali saranno pieni di retorica, lacrime e grida. Diversa è la realtà che Panella ha visto e che ci racconta.
Ecco il pezzo:

Ramallah. C’è di tutto davanti e dentro la Moqata, la "casa" di Yasser Arafat; di tutto, tranne il popolo palestinese, che se ne sta in disparte, cura i propri affari, segue il suo Ramadan, attende notizie con evidente svogliatezza. Nulla di simile alla passione delle sere del novembre 1970, quando tutti gli arabi stavano con le orecchie incollate alla radiolina per sapere della salute di Gamal Abdel Nasser, colpito da infarto e poi morto. E’ impressionante il vuoto di gente di Palestina davanti alla Moqata, davanti all’agonia di Arafat. E’ sconcertante constatare, nei check point caotici che circondano Ramallah, che soltanto un taxi su venti ha le fotografie di Abu Ammar sui finestrini;che, nel centro storico, soltanto una pasticceria ha le vetrine coperte di foto di "mister Palestine". Unica nota di partecipazione: un gruppetto di sei quindicenni, rannicchiati accanto al muro della Moqata: facce belle, vestiti propri, kefiah leggiadre al collo, t-shirt, pantaloni e Nike alla moda. Hanno occhi tristi, e uno piange. Sono subito sepolti da ondate indecenti di fotografie, da chi è alla disperata ricerca di lacrime che nessuno sente. I ragazzi sono arrabbiati per la mancanza di notizie; soffrono per questo loro primo straziante appuntamento con la morte di un padre, e lo dicono. Dicono anche il nome della loro scuola, Mustaqbal, che in arabo vuol dire "futuro", e allora si capisce perché loro sono qui e gli altri no: è una scuola privata,
un college da nomenklatura, da figli di notabili che pagano rette stratosferiche. Li vanno a prendere a casa lussuosi pulmini gialli. Abitano di sicuro in uno delle centinaia di condomini di gran lusso della "collina" palestinese: case di pietra, eleganti, ricche, tutto un rincorrersi di terrazze colonnate ricoperte da tetti spioventi di tegole di cotto. Un’estesissima Ramallah da ricchi, che, chissà perché, nessuno ci ha mai raccontato. E’ impressionante il loro inglese perfetto, sono impressionanti le loro maniere curate, confrontate con quelle degli improbabili soldati dell’Autorità nazionale palestinese, che cercano di arginare la pressione dei giornalisti. A colpo d’occhio si capisce che non sono soldati, ma ragazzi che i singoli clan hanno mandato alla Moqata a rappresentarli. Divise le une diverse dalle altre, braghe che cascano, berretti mal calcati, caos totale nell’obbedire agli ordini; non una parola d’inglese, aria scanzonata, da bulli di periferia. Soltanto alcuni anziani, in camicia, lo sguardo duro e triste, la pistola piantata nella cintura, gesti secchi, da gente che sa gestire la paura, ma che soprattutto sa fare paura, abituati a dare e ricevere morte, danno idea di saper che fare. Il resto è arroganza burocratica e attesa: i trecento giornalisti sono tenuti fuori a bivaccare per ore che si trasformano con lentezza esasperante in giorni. Un sole malato di novembre batte sulla testa, mentre tutti i vicini di casa della Moqata fanno affari d’oro, affittando ai producer dei network le terrazze per le dirette; poi, verso le sei-sette, si aprono i cancelli e tutti si riversano dentro, con vociare irrispettoso. Valgono una novella a parte questi giornalisti "palestinian style": età media 30-35 anni, tantissime donne, nati quasi tutti dopo la guerra del ’67 e certi che tutto incominci allora, che i 50 anni precedenti siano stati nulli. Pensano dunque che Arafat sia il primo leader che ha unito i palestinesi per costruire una nazione e non sanno che prima, e molto più popolare di lui, vi era il Gran Muftì di Gerusalemme. Forse lo sanno, ma non vogliono saperlo, perché quello era nazista e hitleriano. Certo è che questi angeli della globalizzazione mediatica sono quasi tutti intrisi di cultura no global soft, tanto, tanto politicamente corretta. Naturalmente, alla conferenza stampa non ci viene detto nulla né su Arafat, né su Shua, che è ormai "il problema"; solo che sarà sepolto qui, nella Moqata. Nessuno ci spiega che l’inusitata visita dell’ulema palestinese nell’ospedale di Percy mira solo a sottrarre a Shua la regia dell’agonia e quindi argomenti alla trattativa feroce che conduce su soldi e potere. Tutti sanno che il rais muore in una cornice indecorosa di beghe, tutti hanno sentito Shua lanciare l’accusa infame rivolta a "quelli della Moqata" "vogliono seppellire Abu Ammar vivo", ma nessuno risponde. Alla Moqata si fa finta di niente. La Moqata non è trasparente. Lo sono però gli occhi e i gesti dei notabili che, nella più piena disattenzione dei giornalisti, escono
via via dalla tenda kaki che copre i sacchetti di sabbia dell’entrata. Sguardi duri, incedere da grandi uomini "sentiti", circondati da servili accompagnatori dal corpo teso all’ordine, per assecondarlo prima ancora che sia espresso. Scene da Sicilia, anni Quaranta. Poi, tutti sulle Bmw, le jeep, le Mercedes: la classe dirigente palestinese gira tutta nel "mondo delle Suv", perché ha soldi, tanti, tanti soldi. Questa è l’unica eredità certa avuta da Arafat.
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